"Quel che è avvenuto a Oslavia" di Luigi Barzini

Riportiamo l’articolo di Luigi Barzini, Quel che è avvenuto a Oslavia, apparso in due parti sul «Corriere della Sera» del 6 e del 7 febbraio 1916, e da allora mai più ripubblicato. Tale lavoro viene espressamente citato da Walter Giorelli ne "Il sorriso dell'obice" (lettera del 9 febbraio 1916):


Ho letto sul «Corriere della sera» i due articoli di Barzini che descrive molto bene, da testimone oculare, quello che è avvenuto ad Oslavia; se li avete letti anche voi, vi sarete resi bene conto dei luoghi che percorro; S. Martino, Quisca, S. Floriano, paesini amenissimi, ora abbandonati e lacrimevoli.

Molto ci sarebbe da dire sulla figura quasi leggendaria di Luigi Barzini senior il quale, pur provenendo da una modesta famiglia di Orvieto che non gli aveva permesso di compiere gli studi universitari, arrivò a essere considerato il “re degli inviati speciali”. Scoperto e valorizzato dal direttore del «Corriere», Luigi Albertini, collaborò a lungo con il quotidiano milanese. Memorabili restarono i suoi reportage sul terremoto di Messina, sul raid automobilistico Parigi-Pechino, sulla guerra russo-giapponese e sulla Grande Guerra, considerati ancora oggi dei veri classici del giornalismo itinerante.

In questo testo, Barzini rappresenta con notevole vividezza, da giornalista di razza, la situazione che si andava delineando in quei mesi a Oslavia, località nominata in più occasioni da Giorelli come vero locus terribilis, luogo-simbolo della ferocia della guerra.




Luigi Barzini: Quel che è avvenuto a Oslavia (seconda parte)

«Corriere della Sera», 7 febbraio 1916


Dalla fronte, 1 febbraio 1916
Ecco cosa era successo nella notte del 14 gennaio.
La posizione principale di Oslavia è formata da due collinette, una più alta a sinistra - la Quota 188 - una più bassa e oblunga a destra - la collina di Oslavia. Fra le due, un lieve avvallamento per il quale si inoltra la strada che scende a Gorizia - la così detta Sella di Oslavia. Gli austriaci, preparato l’attacco con tre giorni di bombardamento, hanno lanciato sette od otto battaglioni all’assalto, dirigendo lo sforzo maggiore verso la Sella. Quattro battaglioni erano formati di truppe fresche, portate da oltre Lubiana. A loro era affidato il compito più grave: lo sfondamento. Erano arrivate alla mattina stessa per ferrovia a Gorizia, dove avevano trovato pronto per loro il bagno e il rancio, e nel pomeriggio si erano messe in marcia per la fronte. Gli altri battaglioni appartenevano alle truppe del settore.
Gli austriaci si avvicinarono in silenzio, preceduti da lanciatori di granate. Arrivarono all’improvviso. A dieci passi dai parapetti si vide ad un tratto l’agitazione delle loro ombre nel chiarore lunare. Non vi erano più cavalli di Frisia, la strada era stata aperta dalle cannonate. Essi balzarono su urlando e lanciando bombe. La fucileria che scrosciò subito era la nostra.
Un particolare curioso non vogliamo dimenticare: non ha importanza ma caratterizza il nemico. Durante la prima sosta delle artiglierie, sull’imbrunire, un ufficiale austriaco avanzò verso le nostre trincee della Sella gridando: «Italiani, non sparate, è stato concluso un armistizio!» Probabilmente egli voleva soltanto constatare se la Sella era ancora occupata e riconoscere i passaggi, e portava avanti la menzogna come uno scudo. Più tardi si udirono delle acclamazioni nelle posizioni nemiche, e delle voci gridarono in italiano: «È stata fatta la pace!» Pronunziavano paaze. Un prigioniero ha dichiarato poi che si trattava della paaze di Montenegro.
Il primo urto avvenne a destra, dove la collina di Oslavia declina nella confluenza di due valloncelli. Qui l’assalto fu fermato. Sulla vetta della collina di Oslavia la linea della difesa dovette arretrare. Discese di un centinaio di metri per non essere spezzata. Non vi erano più trincee lassù, il bombardamento aveva tutto sconvolto, l’assalto non trovò ostacoli e il fuoco della resistenza, valorosa ma esangue, non poteva lungamente fermarlo. Ma sorpassati i ruderi del villaggio, che sono sulla vetta, gli austriaci non osarono proseguire l’avanzata. I nostri chiamarono allora i rinforzi più vicini per procedere al contrattacco. Due compagnie, che costituivano la prima riserva, accorsero, e sfilavano correndo giù per i camminamenti angusti quando, scoperte forse dai razzi illuminanti, furono prese d’infilata dall’artiglieria nemica. Avanti a tutti, alla testa della nera colonna, il comandante cadde per il primo, morto, e la truppa fu costretta a fermarsi, aspettando l’alba. A sinistra delle rovine di Oslavia, verso la Sella, dove l’assalto si scagliò più pesante, ammassato, impetuoso, l’ondata austriaca trovò una sconnessura e filtrò, non si sa ancora come. La battaglia aveva fatto dei vuoti. I difensori della Sella si accorsero ad un tratto di essere aggirati sulla destra. Sentirono il fuoco nemico avvilupparli, tagliarli fuori. La loro resistenza si prolungò fino alle undici e mezza; furono due lunghe ore di lotta furibonda, ostinata, con corpi a corpi che empivano la note di clamore. Poi la Sella fu perduta.
Il colonnello che comandava il settore della Quota 188, un eroico ufficiale che è morto il giorno dopo fulminato da una palla in fronte mentre comandava un assalto, fece abilmente spostare due compagnie per creare un argine alla sua destra minacciata. Gli austriaci, fermati così nella loro manovra di aggiramento, tentarono di aver ragione della Quota 188 con un nuovo attacco frontale.
Fu questo il combattimento di cui si udì il frastuono a mezzanotte, quando tutto pareva finito. L’attacco arrivò alle trincee; in due punti anche vi penetrò. Ma il nemico fu ricacciato a baionettate, subito dopo. I combattimenti erano durati quattro ore. In quel periodo di stanchezza e di stupore che seguono la battaglia nessuno sapeva in modo definitivo i risultati della lotta.
La notte era freddissima; sul terreno che gelava e s’induriva, incipriato di brina, risuonava il passo delle nostre truppe di rincalzo che sfilavano per le retrovie, rischiarate dalla luna al tramonto. Lungo i trinceramenti le pattuglie in esplorazione strisciavano cautamente per ristabilire i contatti, riconoscendo spesso il nemico dal mormorio delle voci barbare, dalla intonazione tedesca o slovena di parole ascoltate da qualche passo di distanza.
Per rafforzarsi gli austriaci scavavano trincee, al di qua delle quali trasportavano e gettavano gli avanzi dei nostri cavalli di Frisia. Si udiva il battere delle zappe sui sassi delle macerie di Oslavia. Ogni tanto lo scoppio di qualche granata italiana faceva far silenzio come un comando. All’alba il tiro delle nostre artiglierie ha cominciato a battere con un’intensità crescente i due brevi settori occupati dal nemico. La nostra offensiva iniziava. Eravamo noi a martellare la difesa.
Il cannoneggiamento è diventato intenso verso le otto, favorito dalla limpidezza di una mattinata di una serenità cristallina. Le nostre batterie cancellavano ogni traccia dei lavori notturni, sovvolgevano e squarciavano ancora una volta la tragica altura di Oslavia e la Sella. Gli austriaci erano scomparsi dietro le rovine del villaggio. La loro artiglieria rispondeva imperversando sui nostri rovesci, sui camminamenti, sulle retrovie, cercando di sbarrare il passo all’attacco che si andava preparando.
In queste strane battaglie di posizione l’artiglieria, accumulata nei centri di azione, assume il predominio; è lei che realmente attacca e difende, conquista, respinge, schiaccia. Lo scontro della fanteria, il combattimento umano, quello che una volta costituiva la vera battaglia si fa sempre più raro e breve. Gli uomini si slanciano per occupare materialmente quello che spesso gli esplosivi hanno già virtualmente preso. Avanti alle truppe tuona una avanguardia di granate, che non si vince che sopportandola. La grande, la terribile difficoltà che i nostri battaglioni dovettero affrontare per riprendere Oslavia non fu la difesa degli austriaci trincerati: fu la traversata delle zone battute dall’artiglieria nemica. Era la marcia mortale e non l’assalto.
La natura tatticamente sfavorevole del terreno ci obbligava a muoverci in piena vista di tutti gli osservatori nemici. Dal Sabotino scorgevano tutte le nostre colonne sfilare per i camminamenti e guidavano su di loro le raffiche delle batterie. La guerra in queste condizioni è una prova di impassibilità, un esperimento di resistenza morale: due fanterie avversarie, discoste, che non si vedono fra di loro, sono sottoposte alla fulminazione; quella che non resiste ha perduto. Nel bombardamento i nostri marciavano; gli austriaci abbandonavano Oslavia.
Tutta la mattinata e parte del pomeriggio continuò la bufera delle cannonate. Alle tre il nostro fuoco di artiglieria allungò il tiro oltre le posizioni; passò l’ordine di avanzata. Le truppe si slanciarono all’assalto, a sciami, balzando tra le asperità della collina di Oslavia, scomparendo, ricomparendo più su, gettandosi nelle vecchie trincee servite ai primi attacchi o nelle cavità aperte dalle granate quando sentivano ululare a stormi i grossi proiettili nemici, e tutto il costone pareva pagliettato dal balenio delle baionette. Gli austriaci facevano un gran consumo dei loro nuovi shrapnels–granata, che esplodono due volte, in aria e a terra. Ma la fanteria austriaca era scomparsa.
Sulla vetta non erano rimasti che pochi uomini tagliati fuori dal nostro fuoco d’interdizione. Un plotone austriaco, asserragliato nelle rovine di due case, fu sloggiato con la baionetta. A sinistra della collina, una compagnia italiana sorpassò audacemente le posizioni per inseguire un manipolo austriaco che fuggiva verso la formidabile altura di Peuma. I fuggiaschi imboccarono un camminamento, e i nostri dietro, urlando, le baionette basse. La fuga portò lo scompiglio in una trincea avanzata austriaca, che si vuotò. I nostri la occuparono, vi si asserragliarono, lavorarono a rovesciarne i parapetti, la tennero.
Era sull’imbrunire. Quella trincea è stata difesa dai nostri tutta la notte. Ma non fu possibile potere stabilire comunicazioni con essa e inviarvi rinforzi, e l’abbandono si impose. L’artiglieria austriaca aveva chiuso la strada con un fuoco furioso che diceva la concitazione e l’allarme.
Al tramonto del giorno 15 noi avevamo dunque ripreso Oslavia e ci eravamo incuneati a sinistra nelle forti posizioni nemiche di Peuma, ma al centro la Sella era rimasta austriaca.
Un primo tentativo per riconquistarla era fallito. Fu precisamente all’assalto della Sella che cadde l’eroico colonnello alla cui pronta manovra si doveva la difesa della Quota 188. Per cooperare ad un nuovo sforzo fu fatto avvicinare un reparto di bersaglieri. Venne scorto dal nemico, cannoneggiato, decimato, fermato in fondo al vallone dove si accovacciò e passò la notte.
La Sella di Oslavia, per la sua conformazione, permetteva agli austriaci un concentramento di fuoco di mitragliatrici. A tutti gli attacchi, quel punto aveva sempre opposto la più tenace resistenza. E questa avvallatura, così forte quando è difesa da levante, rappresenta invece un punto vulnerabile quando è difesa da ponente.
Alla sera del giorno 15 la situazione era delle più singolari. Noi ci trovavamo fianco a fianco con gli austriaci, sulla medesima fronte. Avevamo un nucleo nemico nelle nostre stesse trincee.
L’attacco frontale non essendo stato sufficiente, si accentuò la pressione laterale. Le due estremità della nostra linea tagliata cominciarono a tendere una verso l’altra, rinforzate, ingrossate, come due parentesi che si avvicinino, mentre sulla fronte l’assalto progrediva più cauto e più lento.
Questa fu l’azione del giorno 16, un’azione di piccoli gruppi, tutto un combattimento di infiltrazioni, di sgretolamento. Erano tre minuscole fronti che si andavano accostando. Nelle prime ore del pomeriggio la riconquista era completa.
Per la terza volta prendevamo possesso delle posizioni di Oslavia. Ma la calma non seguì, quella calma relativa dei periodi di sosta. Un lento bombardamento continuò notte e giorno, a intervalli. Gli austriaci volevano impedire i lavori di rafforzamento. Battevano anche lontano, a caso, cercando di ostacolare i trasporti di materiale, i movimenti di truppe, indovinando l’affaccendamento notturno di soldati curvi sotto a pesanti cavalli di Frisia portati a spalla da cantieri remoti. Arrivavano ai villaggi ancora abitati le grosse granate massacratrici di inermi.
A San Martino di Quisca, di fronte al fosco Sabotino, gli abitanti gremivano perennemente la piccola chiesa, in vetta al paesello montano, e una preghiera fervente di donne genuflesse si spandeva dalla porta spalancata mentre le mura del tempio tremavano ai boati, e fra le vecchie case, per le viuzze anguste e scoscese, salivano gruppi di contadini esterrefatti, smorti, silenziosi, portando a braccia i loro feriti esangui. Il paesello era bombardato come una fortezza.
Il giorno 24 si presentì un nuovo attacco. Dalle prime ore il cannoneggiamento divenne più violento, più serrato, più terribile di quello che non fosse mai stato. Il nemico aveva aumentato il numero delle sue batterie. I colpi da 305 pareva volessero demolire le colline.
Il tempo era radioso, e dal terreno secco le esplosioni sollevavano immani cumuli di polvere rossiccia che si adagiavano nella calma, frammisti al fumo. Dalle rovine di San Floriano, battute anche loro, le posizioni di Oslavia erano in certi momenti invisibili, allo spostarsi lento delle nubi esse riapparivano oscure, smorte come spente, nell’ombra densa dei nembi. Per i combattenti, laggiù, il sereno era scomparso; essi vedevano in un cielo grigio il sole velato, come nelle giornate di ghibli (nota 1) sulla costa africana.
Verso le cinque si è levato un vento leggero e freddo ed è scesa la nebbia, per tutto. Era una di quelle nebbie invernali, fitte e improvvise che isolano, chiudono, mettono una parete plumbea avanti agli sguardi, disorientano. Il bombardamento continuava nel caos dei vapori. La nebbia anticipava la notte, scolorava tutto in un funereo lividore crepuscolare. Alle cinque e mezza il tiro dell’artiglieria si allungò e subito dopo l’assalto nemico arrivò senza gridi, rapido, inavvertito.
Gli austriaci stessi, lanciati ciecamente nella nebbia, non sapevano forse quando avevano incontrato la nostra difesa. Si iniziò la lotta corpo a corpo senza transazioni. In un  minuto fu la mischia su tutte le trincee. Non ci si vedeva a due passi e l’azione si snodava in infiniti episodi. Fu un frammischiamento fantastico nell’ombra, entro le trincee nei camminamenti. Era difficile distinguere gli amici dai nemici. «Parla!» - gridavano i nostri soldati prima di sferrare il colpo. Sulla Sella un capitano dei bersaglieri prese per il petto un uomo che gli pareva dei suoi e che si ritrasse: «Vergogna, torna indietro subito» - gli gridò. L’uomo alzò le mani: era un austriaco. Nessuno può fare la storia di quell’ora di tumulto.
Non bisogna immaginare la fronte di Oslavia come una linea continua di trincee. Il terreno spezzato in un’infinità di valloncelli e di greti, cosparso di macerie, sconvolto dalle artiglierie, ci aveva costretti a sezionare la difesa in numerosi elementi di trincea, disposti per ogni verso, nei quali il combattimento si intrecciava. Si comprese subito che questa volta il nemico, arrivato con forze maggiori, aveva rinnovato la tattica del giorno 14, ma portando l’attacco più violento e deciso sopra un punto diverso.
La nostra azione ha avuto per scopo il rinsaldamento della nostra fronte. È stata un’azione lenta, sistematica, costante, riuscita, ma che non possiamo considerare ancora finita. Il più grande riserbo si impone perciò per qualche tempo.
Il bombardamento è continuato furibondo il giorno 25, poi è andato rallentando ma non  ha avuto più soste. E questa volta ha tormentato posizioni dall’apparenza deserta. Perché in questa guerra di trincee nulla può far distinguere una posizione abbandonata da una posizione difesa, finché non si va a vedere.
Fino al momento in cui le fanterie avanzano, spesso non è possibile sapere se vi è della vita dietro l’ostile profilo dei luoghi contro i quali si combatte. Gli uomini debbono confondersi nell’immobilità delle cose, debbono subire le vicissitudini del suolo, debbono arrivare alla impassibilità della terra alla quale si immedesimano, essere come delle pietre poste a segnare i limiti estremi di un dominio.



Note

1 Vento caldo e secco, spesso impetuoso, che soffia, provenendo dal deserto, sull’Africa settentrionale, e giunge in Italia umidificato dal Mediterraneo come vento caldo e afoso.


Luigi Barzini: Quel che è avvenuto a Oslavia (prima parte)

«Corriere della Sera», 6 febbraio 1916


Dalla fronte, 1 febbraio 1916
Tutto quello che è avvenuto a Oslavia, la successione tempestosa di attacchi e contrattacchi che ha fatto per cinque volte oscillare avanti e indietro la linea delle posizioni sopra un fronte di un chilometro e mezzo non ha che un valore di episodio. È stata un’azione di battaglioni la quale non poteva avere, qualunque fosse stato il suo esito, una influenza apprezzabile nel complesso delle operazioni.
Oslavia è una soglia tra i due pilastri del Sabotino e del Podgora, e non ha che l’importanza di un passaggio. È una posizione di transito, non una posizione di appoggio, di comando, di solidità. Essa apre una strada al dominio di Gorizia, ma il dominio è al di là. Per essere utilizzata Oslavia deve essere varcata. Non permettendoci le circostanze di inoltrarci, poco importa che le trincee in quel punto siano trecento metri più avanti o trecento metri più indietro.
Per sé stessa Oslavia non controlla alcun settore, non s’impone da nessuna parte, non ha forza propria; è una strana bassura ondulata e varia, un labirinto di collinette, di burroncelli, di greti, di vallette, sul quale tutti e due gli avversari possono battere con piena efficacia. La facilità relativa con cui Oslavia è presa e ripresa, dice la difficoltà di tenerla. Nessuna occupazione può mettervi solide radici.
Ma se l’azione di Oslavia non è che un episodio nel quadro della guerra, essa ha un interesse profondo per i suoi caratteri, per la sua intensità, per l’esempio singolare che offre dei sistemi odierni di combattimento, per l’eroismo di cui era tutta vampante, per la sua feroce bellezza.
Oslavia aveva per noi il difetto di tante posizioni prese d’impeto, in avanzata. Non possedeva solidamente alle spalle tutto quel solido appoggio di fortificazioni composte di rifugi, di passaggi protetti, di cunicoli, di trincee, di tane, che le truppe sono costrette a creare quando conquistano con sforzo lento e costante, scavando e minando.
Dove l’offensiva è più difficile, più lunga, più cauta, come sul Podgora, si debbono compiere lavori immensi di attacco che danno resistenza alla fronte e perciò servono anche alla difesa. Le retrovie sono meglio garantite, le comunicazioni più sicure, il sapiente alveare di profonde gallerie che si distende sui rovesci diventa un serbatoio di riserve pronto; l’arrivo immediato di rincalzi è facile e relativamente protetto. Il nemico che occupasse di sorpresa un tratto della prima linea, avrebbe subito il passo sbarrato da un dedalo di cunicoli, non potrebbe sfondare facilmente, si troverebbe rinserrato come in un sistema di paratie stagne, preso in un intreccio misterioso di passaggi nei quali l’assalto si disgregherebbe per finire senza forza, incanalato in una rete di trincee, ad urtare contro sbarramenti minuscoli e insuperabili.
Ma quando una posizione non è stata raggiunta con i tenaci sistemi dell’assedio, quando l’azione l’ha conquistata solo con brevi soste, alla buona vecchia maniera, non rimangono sul territorio d’avanzata tracce profonde dell’attacco; il terreno è impreparato e più o meno scoperto ed esposto, i camminamenti sono pochi e superficiali, i rifugi insufficienti. Quei lavori che si è costretti a fare quando l’offensiva lo impone, non sempre conviene compierli poi per la difensiva, considerando che essi richiedono uno sperpero enorme di energia, di tempo e di materiale in luoghi che si spera di abbandonare per una nuova avanzata. Allora la prima linea rimane relativamente isolata, sottile, fragile.
A Oslavia sarebbe stato anche difficile intraprendere grandi lavori di consolidamento a causa della natura stessa del suolo, molle, friabile, che scivola, che si impasta, che si sfalda. È un suolo argilloso che la pioggia scava, trascina e scioglie in melma. Le pareti delle trincee profonde crollano, i camminamenti si colmano: bisognerebbe ricorrere a rivestimenti di fascine di legname, che il bombardamento facilmente sconvolge o incendia. La costruzione di trincee di cemento, le sole che si adattano al terreno, non è possibile nella vicinanza immediata del nemico, a cinquanta o sessanta metri dalle mitragliatrici. Per la stessa ragione invece dei reticolati, che non possono venire solidamente piantati, si adoperano come difesa ausiliaria i cavalli di Frisia, dei grovigli di filo di ferro spinato intorno ad armature di legno, che si costruiscono lontano, che si trasportano di notte per gettarli e ancorarli al di là delle trincee, e che perciò debbono essere forzatamente leggeri.
Per arrivare alla alture di Oslavia noi dobbiamo scendere in un terrazzo che il nemico domina quasi interamente, giù per gli ultimi declivi orientali di San Floriano in fondo a una valletta e poi risalire. Tutto questo terreno non offre che un troppo incerto riparo alle truppe di riserva, che non potevano essere tenute nelle immediate vicinanze delle posizioni per venire scagliate nel momento opportuno. Tre, quattro ore di difficile marcia li separavano dall’azione. Dopo lunghi bombardamenti micidiali e sconvolgitori, al sopraggiungere di assalti improvvisi e serrati, è difficile che qualche elemento di trincea, privo di soccorsi, non esaurisca in alcune ore la sua forza di resistenza. In queste condizioni, all’arrivo dei rincalzi non è più questione di difesa ma di offensiva: bisogna riprendere quello che si è perduto.
Perciò la caratteristica delle recenti azioni di Oslavia è stato il contrattacco. Ci siamo difesi conquistando. Rispondevamo agli assalti assalendo. Il nemico non arrivava ad insediarsi sulla posizione, che ne era scacciato.
Fu il 12 di gennaio che si cominciò a presentire l’offensiva austriaca. Quel giorno, il fuoco di artiglieria che batteva Oslavia si fece più intenso. L’indomani il bombardamento aumentò ancora. Il 14 anche i grossi calibri del nemico entrarono in azione. Dei 280, dei 210, persino dei 305, tempestavano i trinceramenti e le retrovie, fulminavano gli approcci, cercavano le nostre batterie e le nostre riserve nella distanza. Tiravano sulle rovine di San Floriano, sui ruderi di Quisca, frugavano gli avanzi dei villaggi demoliti, mentre le artiglierie nostre rispondevano con tiri d’interdizione e la valle di Oslavia si costellava di eruzioni e di nembi, che spandevano il loro fumo filaccioso e greve in lunghe striature grigiastre.
Nel pomeriggio il cannoneggiamento si fece serrato, continuo, era udito da tutta la piana friulana, il suo boato arrivava a Udine come un brontolio di temporale sull’orizzonte sereno.
Le nostre trincee, talvolta percosse in pieno, crollavano qua e là; i soldati rannicchiati nel fondo ricevevano le frane pesanti dei parapetti sui loro dorsi curvi e si trovavano spesso chiusi e premuti in una tenebra improvvisa, soffocante e fredda, interamente sepolti nel molle terriccio greve dal quale essi emergevano faticosamente, come formiche dalla sabbia del formicaio calpestato, per rimettersi subito al lavoro di rafforzamento, febbrili, muti, le vesti, il volto e le mani incrostati di mota, simili a statue di creta con degli occhi viventi.
Dei blindaggi colpiti saltavano in aria in una vampa, e travi e tavole volavano alte nel fumo, roteando. I cavalli di Frisia, divelti dai loro ancoraggi, erano rovesciati; gettati via, dispersi dagli scoppi, e sui bordi delle trincee passavano raffiche clamorose di schegge, di pietre, di detriti, di rottami, di pallottole, di fili di ferro strappati alle difese e staffilanti l’aria con sonora veemenza. Si videro, poco a tergo delle postazioni, dei tronchi d’albero enormi, sfrondati e cincischiati dal fuoco dei combattimenti passati, ma rimasti fino allora saldi come colonne, schiantarsi e sparire lanciati lontano nel barbaglio del baleno.
Entro le trincee passavano soffi possenti e caldi, buffate di un ardente uragano, travolgenti e brevi: l’alitare impetuoso delle esplosioni vicine. Non si ascoltava più l’ululato delle granate in arrivo, quella gran voce sovrumana che avverte; troppo vasto era il coro prodigioso dei proiettili che solcavano il cielo, e gli scoppi stordivano come percosse.
Il rancio caldo non poteva essere portato lungo i camminamenti battuti, e la truppa mangiava i viveri di riserva, quando si ricordava di mangiare. Le perdite indebolivano certi reparti più esposti, battuti d’infilata; qualche plotone non aveva più comando. Da quell’inferno arrivavano fonogrammi pieni di calma e fiducia.
L’eroismo della fanteria nella guerra moderna è quasi sempre una virtù di sopportazione, la forza di una immobilità; si combatte giacendo senza difesa in una bufera di morte. Il nemico non si vede, il pericolo non si para, e il valore di una difesa è in una tenacia passiva, nell’inerzia di una attesa indefinita entro un’atmosfera di massacro. L’unico nemico col quale si lotti in quelle ore eterne è il proprio istinto; bisogna inchiodarsi con la volontà sulla posizione insanguinata. Nulla può soccorrere, l’arrivo di rinforzi nelle trincee tempestate non diminuirebbe il pericolo e aumenterebbe le perdite. Il rinforzo si tramuterebbe in un indebolimento. È necessario che gli effettivi in prima linea siano minimi e siano saldi.
Vi è un solo momento in cui la loro presenza in trincea è indispensabile, il momento nel quale il cannone tace e la fanteria avanza. Per aspettare questo momento risolutivo dell’urto, debbono sottomettersi in silenzio per giorni e giorni alla folgorazione delle artiglierie, essere delle cose, essere come delle zolle viventi della terra flagellata. Quando il terreno lo permette, i difensori si ritraggono dalla linea battuta e si tengono al coperto aspettando l’assalto, e appena l’artiglieria tace, si ributtano avanti, ripopolano la posizione abbandonata, e sulle trincee demolite fermano l’avanzata nemica. A Oslavia i rovesci non offrivano rifugio.
Solo la magnifica resistenza del soldato italiano al bombardamento rende possibili certe situazioni. Non so quali truppe più delle nostre posseggono questo spirito di sacrificio, di abnegazione, di rassegnazione, di disciplina, e tanto coraggio di fronte all’ineluttabile.
Verso la sera del 14 il bombardamento cessò. La notte discese chiara, fredda e calma, sorse la luna e nel suo azzurro chiarore i soldati lavorarono a rafforzare le trincee devastate. La tregua fu breve. Alle 8 il cannoneggiamento ricominciò più serrato, furibondo, con una violenza definitiva. La vallata con le sue gibbosità, con i suoi costoni brulli, con le sue tetre ondulazioni, s’illuminava tutta, sinistra e imponente, in un palpitare di lampeggiamenti, in un balenio violastro e fumigante, piena del tremolio di fantastiche luci. Poi, improvvisamente, silenzio.
Erano le nove e mezza. Trascorsero alcuni minuti lenti, grevi di attesa e la fucileria scrosciò.
La linea delle posizioni si disegnò a poco a poco con uno scintillio fitto di colpi. Segnali luminosi sprizzavano dalle nostre trincee, lanciando in aria vivide fiammelle azzurre e rosee, e i razzi illuminanti del nemico salivano lenti e dritti nel cielo sereno, con la loro lieve coda sottile di faville, per accendere in alto delle candide abbaglianti meteore, che spandevano per lunghi secondi sulla terra la calma luminosità di un crepuscolo e lasciavano, estinguendosi, un punto di bragia oscillante tra le stelle. Pareva che frugassero per tutto, quelle luci sorprendenti, sotto alle quali ogni cosa proiettava un’ombra lunga, netta e instabile.
Si distinguevano sul fragore uniforme dei fucili e delle mitragliatrici i boati delle granate a mano, la cui vampa dava diafanità sanguigne e dense nuvole di fumo. Di tanto in tanto saliva confusamente da laggiù il grido dell’assalto e della mischia. Lontano, nello sfondo vaporoso e oscuro del paesaggio notturno, Gorizia distendeva il punteggiamento dei suoi lumi, una tranquilla costellazione di fanali accesi e di finestre illuminate.
Per due ore continuò il combattimento con brevi periodi di languore. Verso mezzanotte la battaglia pareva cessata. Vi furono venti o trenta minuti di calma. Poi il fuoco riprese. Ebbe un’altra ora di parossismo e si quietò. Si era intuito, seguendo lo strepito, uno spostamento successivo dell’attacco. Il centro di intensità della lotta era passato da destra a sinistra. Ma i telefoni erano interrotti e mancavano notizie immediate e precise.
Del resto, nella notte i combattenti stessi non conoscevano quello che avveniva ai loro fianchi. Gli ultimi fonogrammi, annunziato l’attacco, dicevano: «Resistiamo». Ma i messaggi erano giunti dai settori meno premuti dal nemico. L’azione, in quella prima fase, era affidata all’iniziativa dei comandanti locali. Nel buio dovevano essere avvenuti frammischiamenti inevitabili, perdite di contatto, e la sospensione della lotta indicava un disorientamento che paralizzava tutti e due gli avversari. Intanto le artiglierie del nemico e le nostre riprendevano il fuoco, non più sulle posizioni, perché era difficile sapere chi le tenesse, ma al di qua e al di là, con tiri di interdizione, facendo sbarramenti e cercando di mettere dalle due parti un ostacolo al movimento delle riserve.
La battaglia doveva decidersi il giorno dopo.


1914 - 1918 L'ARTE DISPERSA
Opere inedite e rare dei soldati della Grande Guerra
Mostra
dal 7 al 22 maggio 2011
presso l'Associazione Culturale Alessandro Manzoni
via Roma, 16 - Bresso (Milano)

Mission

Da anni ci occupiamo della Grande Guerra da un punto di vista che definiremmo "trasversale". Il nostro approccio, infatti, parte sempre e comunque dalla viva voce dei soldati, prediligendo in particolare le testimonianze che utilizzano una chiave di lettura peculiare e rivelatrice: quella dell’arte. 
Arte figurativa e arte narrativa.

Dopo oltre un secolo, un gran numero di immagini e di scritti prodotti dai soldati coinvolti nei combattimenti, talvolta di notevole qualità artistica, restano ancora ignorati dalla critica, dagli addetti ai lavori e non disponibili agli appassionati di storia. Da tale constatazione prende l'avvio la riscoperta e la valorizzazione dell'arte e dei testi letterari dei soldati.
Riguardo a questo secondo filone della nostra attività, segnaliamo il salvataggio di tre diari di guerra, quand'erano ormai ad un passo dalla dispersione: 

  • Il sorriso dell’obice. Un pittore italiano alla Grande Guerra (2011), a cura di Dario Malini, Mursia editore
  • Taccuino di un nemico. La Grande Guerra di un soldato ebreo nell'esercito tedesco (2014) , a cura di Dario Malini, Mursia editore
  • Quella cosa grande (o fetente) che è la guerra. Da Caporetto a Vittorio Veneto: il memoriale ritrovato di un ragazzo del '99 (2015), cura di Dario Malini, ArteGrandeGuerra edizioni.

Al contempo, una tenace attività di recupero ci ha permesso di riunire un importante nucleo di opere, circa cinquecento, eseguite da artisti-soldato di tutti i principali fronti della Grande Guerra (schizzi, disegni, incisioni, litografie, oli e acquarelli), sopravvissute del tutto casualmente alla distruzione.

Ecco quindi su quale vitale sostanza poggia il nostro tentativo di salvataggio di prodotti artistici in via di rapido deterioramento (fisico ma anche culturale e morale). Materiale prezioso che, una volta recuperato, viene reso fruibile a tutti voi tramite questo sito, specifiche mostre e altre attività culturali. Confidiamo che tutto ciò, corredato come sarà di approfondite chiavi d'interpretazione, possa contribuire a rivelare il profondo significato e la prepotente attualità dell’immane ecatombe che è stata la Prima guerra mondiale.


Riso amaro


L’arte mi trascina, mi avvinghia, e tutto, anche la guerra, mi pare ormai ridicolo e stravagante. L’unica cosa è ridere, ridere d’ogni cosa, ridere sempre e comunque per omnia saecula saeculorum. 
Walter Giorelli
(da Il sorriso dell'obice di Dario Malini, Mursia editore)

Quanto è guardata dall'esterno, la guerra sembra racchiudere in sé non solo la morte ma anche il riso (quello che abbiamo denominato "riso amaro"), per qualche ragione congiunti inestricabilmente. Diviene così terreno fertile per la nascita della satira disegnata. Nascono allora opere graffianti che contengono spesso traccia di una protesta impensabile, per l'indefesso lavoro della censura, in testi scritti.


A tale proposito proponiamo 2 litografie originali di Abel Faivre, arguto umorista francese. La prima contiene una contrapposizione tra il mondo della "politica" e quello della gente comune, con un intento polemico evidente.


È un ministro, piccolo mio, che viene 

a inaugurare le nostre rovine.

Nella seconda vignetta Faivre, giocando abilmente con le parole e non senza una vena malinconica, sottolinea il poco valore dato dai "generali" alla vita dei poveri soldati che vivono e muoiono nelle trincee, quelli che i francesi chiamano, con un termine specifico che non ha un corrispondente in italiano, "poilus".



Il carovita!… Qui la morte non costa nulla.



   Carol Morganti

Biografie degli artisti

Di seguito l'elenco degli artisti citati nel sito e presenti  nella collezione ArteGrandeGuerra

Cliccando sul link si accede alla scheda specifica:

Augis Marcel
Barbieri Gino
Broquet Léon Esperance
Bruyer Georges Léon
Bucci Anselmo
Canneel Jules Marie
De Groux Henry
Devambez André
Ehmsen Heinrich
Faivre Abel
Fraye André
Freida Raphael
Fournier Alfred-Victor
Gärtner Fritz
Golia, pseudonimo di Eugenio Colmo
Graf Oskar
Harder Charles
Hepburn William James
Hervé Jules René
Hugo Georges Victor
Jäger Gustav
Jeanniot Pierre Georges
Jou Louis
Léandre Charles
Lefort Jean
Le Blant Julien
Marret Henri
Moreau Luc-Albert
Namur Paul Franz
Opitz Kurt
Orlik Emil
Ott Lucien
Pann Pfeffermann Abel
Poiré Leopold
Rohlfs Christian
Roux Oswald
Steinlen Théophile-Alexandre
Struck Hermann
Sergi Sergio
Teutsch Walter
Thony Edward
Titz Louis
Trudel Hans
Warnod André

Solidarietà e soccorso



Muti e storditi, al riparo di una trincea pullulante di mosche turchine, attendiamo a lungo il terzo compagno finché, non vedendolo, torniamo sul posto, smuoviamo la terra a mani nude, chiamiamo a gran voce: «Pisenti, ehi, Pisenti!» Intorno a noi solo un gran polverone e le luci verdastre degli scoppi lontani.
Walter Giorelli 

(da Il sorriso dell'obice di Dario Malini, Mursia editore)

La spietata realtà della guerra ha mostrato straordinari e luminosi episodi di  generosità tra i soldati. Con modalità diverse gli artisti hanno spesso tentato di rappresentare questi eventi minimi di solidarietà tra gli uomini che, al di là d'ogni calcolo utilitaristico, si dispiega anche in mezzo alla tragedia e all'orrore.  

Théophile-Alexandre Steinlen, ad esempio, ha trattato sovente questo tema con accenti di inteso lirismo.

Les deux amis, in particolare, eseguita nel 1917, è una rappresentazione di rara bellezza nella semplicità ed essenzialità della composizione. Lo scenario è un paesaggio tetro gravato dall’oscurità della notte: è questo un campo di battaglia in cui un giovane sta trasportando sulle spalle, con visibile sforzo e notevole abnegazione, un amico rimasto ferito in prossimità del filo spinato che delimita la terra di nessuno. 

Vi sono artisti che hanno raffigurato invece il vivo senso di umanità che anima chi è dedito alla cura dei feriti: è il caso di Henry De Groux che in una litografia ha ritratto il volto gioioso di una infermiera presso il letto di un soldato. È probabilmente una volontaria che opera presso un ospedale da campo, e attesta l’ampio contributo umanitario offerto dalla componente femminile alla società. 

Sul tema del soccorso e della solidarietà è di particolare suggestione il soggetto severo e drammatico, ripreso in  un olio di Luc-Albert Moreau, dal titolo Les brancardiers. Eseguito nel 1935 sulla base di schizzi realizzati molti anni prima in battaglia, rievoca l’esperienza vissuta dall’artista nel corso nella Grande Guerra. Sotto un cielo dal colore plumbeo e dall’aria pesante per l’imperversare delle esplosioni e degli spari, due lettighieri sono in procinto di trasportare un soldato che reca una grave lesione ad una gamba. La ripresa ravvicinata accentua il senso di viva partecipazione al dolore, così come l'aver costruito la scena su due diagonali convergenti sopra il capo dell’uomo che sostiene il ferito, in modo da riecheggiare la tipica struttura dell’iconografia della Pietà. 

Carol Morganti

Le allegorie della guerra

Sono un’altra volta nella mia stanzetta tutta pulita. Ho trascorso gli ultimi sei giorni lavorando in trincee ricolme di cadaveri, atterrito dall’eventualità che una granata potesse da un momento all’altro seppellirmi sotto una montagna di melma. Sul tavolo, l’aquila romana artiglia fieramente la propria compagna bicefala: mi alzo, sollevo il disegno, ormai terminato, l’accartoccio e lo getto tra i rifiuti con un lieve sorriso.
Walter Giorelli 

da Il sorriso dell'obice, Dario Malini (Mursia editore)

Tema di grande fascino, le raffigurazioni allegoriche della guerra possono scaturire da approcci assai differenti. Esiste ad esempio un’imponente produzione di opere che hanno la funzione precipua di celebrare gli atti di sacrificio e di eroismo degli uomini. Si tratta di rappresentazioni derivate dalla tradizione iconografica antica, nelle quali delle maestose figure femminili alate che impersonificano delle entità astratte (Vittoria o Gloria), dispensano onori (le palme del martirio o i rami di alloro) ai soldati morti per la salvezza della propria Nazione.



Fig. 1 Pissone, Allegoria
A questa tipologia si può ricondurre il soggetto del dipinto ad olio di fig. 1, firmato “Pissone”, giocata sullo stridente contrasto tra l’afflato ideale della parte superiore della scena, dominata dall’eterea immagine della Vittoria annunciata da un grande arcobaleno (simbolo della riconciliazione tra mondo terreno e dimensione celeste), e il crudo realismo della parte inferiore dove giace un cumulo di cadaveri di soldati straziati dalle ferite.

Una tendenza differente connota le opere che utilizzano la modalità allegorica per rappresentare gli effetti negativi della guerra. In questo tipo di raffigurazioni grandeggia sovente l’immagine della morte quale sovrana assoluta in un mondo senza idealità, come nell’acquarello di fig. 2, firmato dall’artista tedesco G. Stöttner, datato 1915.
Fig. 2 G. Stöttner, Allegoria
In questa suggestiva rappresentazione, dove il paesaggio riverbera di accenti romantici, una solenne Morte a cavallo con la falce appare campeggiante al culmine di una rocca che si erge a fondale di un campo dove sono sepolti i combattenti. Nessuna azione di eroismo o di martirio viene celebrata: nelle anonime croci sparse nel terreno, nel desolante paesaggio privo di presenze vive, vi è solo desolazione e tristezza.
Se il pessimismo cosmico di Stöttner trae le sue radici dall’anima romantica presente nell’arte tedesca agli inizi del ‘900, negli artisti francesi del medesimo periodo si possono rintracciare segni evidenti di pessimismo storico che denunciano legami con le istanze romantiche proprie della loro nazione. 


Fig. 3 Charles Léandre, Allegoria
Di una differente modalità espressiva s’avvale ad esempio l'allegoria presentata in fig. 3. Si tratta di una china dal tratto vigoroso e di grande qualità, eseguita nel 1918 dall’artista francese Charles Léandre. Su un ammasso di teschi grondanti sangue, è assisa, in atteggiamento meditativo, una figura maschile smilza e allampanata che i caratteri fisiognomici, insieme all’elmo fregiato dall’insegna dell’aquila, permettono di identificare come Guglielmo II Hohenzollern. In calce il foglio presenta la seguente iscrizione: «L’homme qui assassina, il voudrait une paix honorable?» L’allegoria, nonostante il chiaro intento propagandistico che avrebbe potuto ridurne l’afflato, costruisce una scena di severa desolazione che supera l’occasione contingente, andando a tratteggiare una figura di sorprendente modernità, che pare anticipare l’inquietudine segreta, quella sorta di malattia dello spirito che dominerà numerosi leader a capo di grandi nazioni nel corso di tutto il Novecento.

Un’ultima tipologia di immagini è costituita da opere nelle quali l’allegoria non è esplicita ma si cela in una forma narrativa. È questo il caso del soggetto inciso in una splendida acquaforte di fig. 4 di André Devambez dal titolo Le fou (Il folle).
Fig. 4 André Devambez, Le fou 
In un luogo spettrale e deserto costituito da scheletri di edifici ridotti in macerie si aggira una minuscola figura. Una livida caligine offusca la visione di ciò che resta di un solenne palazzo. L’uomo, lacero e a piedi nudi, cammina tra le macerie, alzando le braccia al cielo e urlando qualcosa. Si noti come Devambez rifugga consapevolmente in quest’opera da qualsiasi riferimento diretto alla cronaca del tempo. Egli sembra intenzionato a costruire, fin dal titolo, un’inquietante immagine emblematica della guerra. Ed ecco che un tale vaga per una sorta di odierna Pompei prodotta dalla insensatezza della guerra, come l’ultimo individuo appartenente a una civiltà e a un mondo devastato dalla follia dei suoi abitanti. Curiosamente rispondente all’iconografia del matto dei tarocchi, l’uomo altro non può fare che aggirarsi come un demente, allargare le braccia verso il cielo e urlare frasi sconnesse.


Carol Morganti

Henry De Groux (Saint-Josse-ten Noode, Belgio 1866-Marsiglia 1930)

Elizabeth De Groux. Ritratto di Henry De Groux
Artista d'indole vulcanica e assai sfaccettata, Henry De Groux, all’età di diciotto anni, nel 1884, con meno di un anno di studio all’Accademia di Bruxelles, viene eletto membro del circolo di avanguardia, Le Group de Vingt con il quale partecipa a diverse mostre in Belgio tra il 1886 e il 1890. Successivamente, per via di aspri dissensi insorti con l’organizzazione, abbandona il gruppo e si trasferisce a Parigi dove vive costantemente in balia di difficoltà economiche ed è costretto a cambiare frequentemente alloggio.

Dal 1891 in avanti, espone al Salon des Arts Libéraux e poi al Champ de Mars. Nonostante la virulenta opposizione di una certa parte del mondo artistico, gode dell’appoggio di artisti e letterati, quali Félicien Rops, Puvis de Chavannes e dello scrittore cattolico Leon Bloy, a cui rimane legato da uno stretto rapporto d’amicizia.

Nel 1899 la rivista La Plume gli consacra un numero speciale con i contributi di illustri personalità della critica d’arte. George Petit gli organizza un’esposizione nella propria galleria nel 1901.

Negli anni 1903-1904 l’artista soggiorna a Firenze dove conosce, tra gli altri, D’Annunzio e Soffici, e ottiene il posto d’onore in una esposizione del 1904 a Palazzo Corsini. Dal 1906 al 1910 ritorna in Belgio.

Dal 1914 si istalla a Parigi trascorrendovi l’intero periodo bellico. Nel 1916 tiene una esposizione di oltre 300 opere di guerra presso la Galérie d’Alignan, che i critici giudicano di grande importanza. Vi vengono presentati disegni, dipinti, pastelli e litografie e una selezione di acqueforti appartenenti all’importante serie, dedicata alla denuncia degli orrori della Grande Guerra, dal titolo Le Visage de la Victorie (cliccare qui per accedere alla recensione del catalogo di questa opera, a cura di Carol Morganti, ArteGrandeGuerra edizioni, 2013)

Nell’ultimo decennio della sua vita, tra il 1920 e il 1930, De Groux vive e lavora tra Avignone (al Palais de la Roure) e Marsiglia, dove è impegnato nella decorazione dell’Opéra. Nell’anno della morte (1930) la Galerie d’Alignan di Parigi ospita una retrospettiva della sua opera e il Palais des Beaux Arts di Bruxelles espone il suo dipinto più celebre, il Christ aux outrages (facendolo arrivare dal Palais de la Roure di Avignone dove è ancora oggi conservata), in occasione delle celebrazioni per i cento anni della nascita del Belgio.

Il fronte (ottobre 1915 – marzo 1916)

Comincia l'esperienza al fronte di Walter Giorelli: 
Procediamo lungo uno stretto sentiero mentre cupe deflagrazioni riecheggiano nella valle. Conducendo i muli per la cavezza, marciamo senza dire una parola e alzando solo di tanto in tanto lo sguardo dal terreno insidioso verso le maestose cime senza nome che ci circondano. Gli animali, carichi di munizioni, avanzano lenti, non meno malinconici di coloro che li guidano. Sono sorpreso di constatare come la sensazione che mi pervade somigli più alla tristezza che alla paura. Giù, in fondo alla valle, il bell’azzurro dell’Isonzo, col trascorrere delle ore, è andato mutando in uno spento verdecupo e poi nel nero più profondo. [..] Di tanto in tanto i cannoni tacciono tutti assieme: allora si produce un silenzio irreale, greve e impressionante. Dietro di me, l’equino respira rumorosamente, le umide e calde narici palpitanti. Nel buio, ne distinguo con chiarezza solo gli occhi sporgenti e rassegnati. 

Il soldato protagonista de Il sorriso dell'obice resta, nonostante tutto, artista e pittore, come è facile arguire dallo sguardo con cui osserva le cose della guerra.

Qui tutto è chiaro, trasparente, limpido. Rocce a denti s’innalzano candide su praterie immense. L’aria senza grassi, senza fumi, senza polvere, lascia vedere, nitidissime, stagliate sul cielo, anche le vette più lontane. Gli abitanti paiono nati da questa terra pura: sono snelli, forti; hanno capelli biondi, occhi chiari, sguardo senza lampi, sempre uguale. 

La sua prosa, certo, si fa talvolta più dura, anche brutale, nel raccontare le battaglie e gli orrori che divengono via via materia del suo procedere, ma non perde mai il respiro della grande narrazione che sa andare oltre il mero fatto di cronaca.
Giorelli partecipa prima alla Terza battaglia dell’Isonzo (combattuta tra il 18 ottobre e il 3 novembre 1915), quindi alla Quarta battaglia dell’Isonzo (a partire dal 10 novembre sino ai primi giorni di dicembre 1915 ), assegnato a una compagnia di salmerie che provvede ai rifornimenti delle truppe sotto il Sabotino.
Il 13 dicembre la sua compagnia scende, dalle prossimità del Monte Nero, sino a Medana, nei pressi di Cormons. Anche qui la lotta è accanita. Memorabili sono le pagine che riportano i fatti della notte di Natale 1915, che viene passata in azione. 
Il paesaggio triste e butterato intorno a Oslavia diviene il centro della narrazione dei mesi successivi, finché Giorelli non si sposta a San Giorgio della Richinvelda, dove viene convocato nell'ufficetto del comandante che gli comunica d'averlo proposto come allievo ufficiale del Genio per il corso che comincerà il primo di aprile a Cividale. 

Dovendo partire domani per Cividale, ho salutato i ragazzi. Greco e il furiere avevano le lacrime agli occhi, nonostante cercassero con ogni mezzo di reprimerle. Solo in quest’ora, poiché gli uomini restano creature schive e stravaganti anche in tempo di guerra, ho conosciuto la stima e la simpatia che tutti hanno per me.
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