Le allegorie della guerra

Sono un’altra volta nella mia stanzetta tutta pulita. Ho trascorso gli ultimi sei giorni lavorando in trincee ricolme di cadaveri, atterrito dall’eventualità che una granata potesse da un momento all’altro seppellirmi sotto una montagna di melma. Sul tavolo, l’aquila romana artiglia fieramente la propria compagna bicefala: mi alzo, sollevo il disegno, ormai terminato, l’accartoccio e lo getto tra i rifiuti con un lieve sorriso.
Walter Giorelli 

da Il sorriso dell'obice, Dario Malini (Mursia editore)

Tema di grande fascino, le raffigurazioni allegoriche della guerra possono scaturire da approcci assai differenti. Esiste ad esempio un’imponente produzione di opere che hanno la funzione precipua di celebrare gli atti di sacrificio e di eroismo degli uomini. Si tratta di rappresentazioni derivate dalla tradizione iconografica antica, nelle quali delle maestose figure femminili alate che impersonificano delle entità astratte (Vittoria o Gloria), dispensano onori (le palme del martirio o i rami di alloro) ai soldati morti per la salvezza della propria Nazione.



Fig. 1 Pissone, Allegoria
A questa tipologia si può ricondurre il soggetto del dipinto ad olio di fig. 1, firmato “Pissone”, giocata sullo stridente contrasto tra l’afflato ideale della parte superiore della scena, dominata dall’eterea immagine della Vittoria annunciata da un grande arcobaleno (simbolo della riconciliazione tra mondo terreno e dimensione celeste), e il crudo realismo della parte inferiore dove giace un cumulo di cadaveri di soldati straziati dalle ferite.

Una tendenza differente connota le opere che utilizzano la modalità allegorica per rappresentare gli effetti negativi della guerra. In questo tipo di raffigurazioni grandeggia sovente l’immagine della morte quale sovrana assoluta in un mondo senza idealità, come nell’acquarello di fig. 2, firmato dall’artista tedesco G. Stöttner, datato 1915.
Fig. 2 G. Stöttner, Allegoria
In questa suggestiva rappresentazione, dove il paesaggio riverbera di accenti romantici, una solenne Morte a cavallo con la falce appare campeggiante al culmine di una rocca che si erge a fondale di un campo dove sono sepolti i combattenti. Nessuna azione di eroismo o di martirio viene celebrata: nelle anonime croci sparse nel terreno, nel desolante paesaggio privo di presenze vive, vi è solo desolazione e tristezza.
Se il pessimismo cosmico di Stöttner trae le sue radici dall’anima romantica presente nell’arte tedesca agli inizi del ‘900, negli artisti francesi del medesimo periodo si possono rintracciare segni evidenti di pessimismo storico che denunciano legami con le istanze romantiche proprie della loro nazione. 


Fig. 3 Charles Léandre, Allegoria
Di una differente modalità espressiva s’avvale ad esempio l'allegoria presentata in fig. 3. Si tratta di una china dal tratto vigoroso e di grande qualità, eseguita nel 1918 dall’artista francese Charles Léandre. Su un ammasso di teschi grondanti sangue, è assisa, in atteggiamento meditativo, una figura maschile smilza e allampanata che i caratteri fisiognomici, insieme all’elmo fregiato dall’insegna dell’aquila, permettono di identificare come Guglielmo II Hohenzollern. In calce il foglio presenta la seguente iscrizione: «L’homme qui assassina, il voudrait une paix honorable?» L’allegoria, nonostante il chiaro intento propagandistico che avrebbe potuto ridurne l’afflato, costruisce una scena di severa desolazione che supera l’occasione contingente, andando a tratteggiare una figura di sorprendente modernità, che pare anticipare l’inquietudine segreta, quella sorta di malattia dello spirito che dominerà numerosi leader a capo di grandi nazioni nel corso di tutto il Novecento.

Un’ultima tipologia di immagini è costituita da opere nelle quali l’allegoria non è esplicita ma si cela in una forma narrativa. È questo il caso del soggetto inciso in una splendida acquaforte di fig. 4 di André Devambez dal titolo Le fou (Il folle).
Fig. 4 André Devambez, Le fou 
In un luogo spettrale e deserto costituito da scheletri di edifici ridotti in macerie si aggira una minuscola figura. Una livida caligine offusca la visione di ciò che resta di un solenne palazzo. L’uomo, lacero e a piedi nudi, cammina tra le macerie, alzando le braccia al cielo e urlando qualcosa. Si noti come Devambez rifugga consapevolmente in quest’opera da qualsiasi riferimento diretto alla cronaca del tempo. Egli sembra intenzionato a costruire, fin dal titolo, un’inquietante immagine emblematica della guerra. Ed ecco che un tale vaga per una sorta di odierna Pompei prodotta dalla insensatezza della guerra, come l’ultimo individuo appartenente a una civiltà e a un mondo devastato dalla follia dei suoi abitanti. Curiosamente rispondente all’iconografia del matto dei tarocchi, l’uomo altro non può fare che aggirarsi come un demente, allargare le braccia verso il cielo e urlare frasi sconnesse.


Carol Morganti

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