Motivi religiosi nell’arte della Grande Guerra (3): Cristo e la guerra

Fig 1. Georg Grosz,
Chiudi la bocca e fa' il tuo dovere!,
fotolitografia, 1927

In questo articolo proseguiamo l’analisi avviata nei due precedenti interventi (dedicati rispettivamente alla Vergine dei dolori che intercede a favore dell’umanità e al martirio), proponendoci di analizzare due fenomeni per così dire speculari, osservabili nelle opere d’arte realizzate nel periodo della Grande Guerra, entrambi legati all'evocazione della figura di Cristo. In primo luogo, andremo a considerare le raffigurazioni che ne riprendono la passione e, a seguire, le opere nelle quali ne viene evocata la morte

La passione di Cristo e la guerra

Nelle opere prodotte negli anni di guerra e nel periodo immediatamente successivo sono assai ricorrenti i temi cristiani della passione (crocifissione, pietà e deposizione dalla croce), talvolta uniti a espliciti riferimenti agli eventi bellici. George Grosz (Berlino 1893-1959), ad esempio, nella sua litografia dal titolo alquanto eloquente: Chiudi la bocca e fai il tuo dovere! (nota 1), ha ripreso Cristo sulla croce con una maschera a gas e degli stivali da trincea (fig. 1). Tale soggetto, ricavato nel 1927 da un disegno oggi conservato a Berlino (Stiftung Arkiv der Akademie der Kunste), destò grande scandalo, tanto che l’artista venne condannato per blasfemia. La sentenza del processo, attestante il reato di «insulto alle istituzioni della Chiesa», decretò che la tavola litografica venisse confiscata e distrutta, assieme a diverse altre della stessa serie Hintergrund (nota 2). La figura di un Cristo in croce con gli attributi del combattente conferisce a questo lavoro una valenza fortemente antimilitarista, che intende lanciare un messaggio politico per contrastare il rinascente nazionalismo tedesco del primo dopoguerra, così come ogni suo portato revanchista. Il tema scelto aveva una specifica motivazione polemica, concepito in risposta alla propaganda dei nazionalisti che del più celebre Crocifisso tedesco, cioè quello dipinto da Mattias Grunewald per l’altare di Issenheim (che si trovava nell’Alsazia occupata dall’esercito germanico), avevano fatto un simbolo della sconfitta tedesca nella Prima Guerra mondiale, stabilendo un’equivalenza tra la passione del Salvatore e l’agonia del popolo germanico. Per favorire la fruizione popolare, l’opera di Grunewald venne allora esposta a Monaco (dove era stata trasferita per il restauro). Da parte sua Grosz non era mai stato favorevole alla guerra; arruolatosi con riluttanza come ausiliario nel 1915, venne congedato dopo qualche mese a seguito di problemi di salute. Come successivamente avrà a dire, nella propria autobiografia:  
La guerra non mi era mai piaciuta fin dall’inizio ed io non mi vi sono mai identificato. Mi interessava la politica, ma ero cresciuto nello spirito dell’umanesimo. La guerra significò orrore, mutilazione e annientamento […]. Naturalmente all’inizio c’era una specie di entusiasmo di massa. Ed era reale. Ma l’ebbrezza svanì presto e ciò che rimase fu un grande vuoto. I fiori sugli elmetti e sulle canne dei fucili svanirono rapidamente. Guerra allora significò tutt’altro che entusiasmo; divenne sporcizia, pidocchi, malattia e mutilazioni (nota 3).
Tra gli artisti che hanno ripreso con originalità i temi della passione di Cristo in riferimento alla guerra, occupa un posto di rilievo il maestro George Desvallières (Parigi 1861–1950) (nota 4). Allievo di Gustave Moreau, prima del conflitto si affermò sulla scena artistica con un ruolo di primo piano non solo come pittore ma anche come promotore delle arti. A lui si deve la fondazione del Salon d’Automne dove, nel 1904, si tenne la celebre mostra del gruppo dei Fauves, allora fortemente denigrati dalla critica (nota 5). Mosso da sentimenti patriottici, all’età di 54 anni, Desvallières si arruolò volontario andando a combattere in prima linea sul fronte dei Vosgi, in posizioni che vennero mantenute dall’agosto 1915 fino al luglio 1918 (nota 6). Per tutto questo periodo non ebbe più tempo per dipingere, assorbito dall’incarico di comandante di un battaglione di cacciatori, ruolo che esercitò con grande umanità. Dopo il 1918 riprese il progetto, ideato in precedenza, di creare una scuola di arte sacra. Nel 1919, con Maurice Denis, fondò l’Atelier di Arte sacra, nel quale sarebbero stati formati artisti specializzati nella decorazione di chiese moderne e di opere da presentare alle sezioni di arte religiosa nelle Esposizioni universali. 

Fig. 2 George Desvallières, Christ aux barbelées,
olio, carboncino e pastello su carta montata su tela, ca. 1922
(@Sampigny, Musées de la Meuse, décembre 1989, Inv. MLV 90/94)

Fu a partire da quel periodo che l’artista produsse le sue opere più importanti, animato dall’intento di conservare memoria delle tragedie di cui era stato testimone nell’interminabile e durissimo periodo trascorso al fronte. Tra esse, sono assai significativi i dipinti di soggetto religioso, incentrati sulla figura di Cristo, nei quali introdusse rilevanti innovazioni sotto il profilo iconografico. Per il tema che ci siamo proposti di trattare, sono di particolare interesse Christ aux barbelées (Cristo nel filo spinato), risalente approssimativamente al 1922 (nota 7), opera conservata nelle collezioni del Dipartimento della Meuse, e Sacré-Coeur dans un eclatement (Sacro Cuore in una esplosione), del 1925, appartenente a una collezione privata (nota 8)
Christ aux barbelées (fig. 2) è una grafica eseguita a inchiostro e colori, in prevalenza marroni, il cui formato rettangolare marcatamente allungato accentua il senso di compressione spaziale. Nel cupo scenario di una battaglia, vi è raffigurata, oltre il filo spinato sullo sfondo, l’immagine di Cristo che attraversa la terra di nessuno offrendo il proprio cuore, tra i colpi di granate e i bagliori prodotti dall’esplosione degli obici. In primo piano, parallelamente alla base dell’opera, si estende una trincea presso la quale, sulla destra, si intravedono le sagome di due soldati distesi che, sorta di silenti spettatori, affiorano dal terreno. 

Fig. 3 George Desvallières, 
Sacré-Coeur dans un eclatement,
olio su tela, 1920, 
@Paris, collection particulière

Sacré-Coeur dans un eclatement (fig. 3) è invece incentrata sulla visione del crocifisso che appare ergersi dentro una gigantesca nuvola di fumo nero innalzatasi a seguito dello scoppio di un ordigno. Anche qui viene riproposto il motivo dell’offerta del cuore che, in tal caso, Cristo sembra estrarre dal proprio corpo, affondando le mani all’interno del torace. In entrambi questi lavori, Cristo sofferente ha preso il posto di un soldato. Come Cristo, il soldato, è una vittima innocente che subisce un terribile oltraggio. Le audaci scelte iconografiche adottate dal maestro francese vanno a sottolineare la profonda empatia verso le immani sofferenze di tanti uomini gettati nel carnaio della guerra moderna (nota 9).

Cristo evocato

Fig. 4 Willi Geiger,
Soldato caduto con la croce,
puntasecca, 1918 ca.

Nei precedenti interventi abbiamo già avuto modo di menzionare alcune grafiche di guerra del maestro espressionista tedesco Willi Geiger (Schönbrun, presso Landshut 1878-Munich 1971), che affrontano diverse tematiche di natura religiosa. Nel 1914 Geiger partecipò al conflitto combattendo sul fronte occidentale, dopo essersi arruolato volontario. Avendo sperimentato in prima persona la spietata realtà dei combattimenti, ebbe a ricredersi sulle ragioni della guerra. Le opere realizzate su questo tema attestano tutta la disillusione e presa di distanza dall’euforia iniziale che aveva caratterizzato la prima fase del conflitto da parte dell'artista. La puntasecca Soldato caduto con la croce raffigura il corpo di un fante che campeggia sulla sagoma scura di una croce piantata nel terreno (fig. 4). Il paesaggio di sfondo appare scompaginato e quasi dissolto da una serie di linee spezzate che rimandano alle implacabili traiettorie rettilinee percorse dalle armi della modernità. Il martirio di Cristo si riverbera così in quello del soldato, vittima innocente dell'inutile strage che avveniva quotidianamente sui campi di battaglia. 

Fig. 5 Emilio Mantelli, Gli eroi, silografia, 1915

La morte di un militare sul campo di battaglia è un tema trattato con grande circospezione dagli artisti soldato. A motivare la rarità di tale soggetto va considerato il peso della censura e dell’autocensura, fenomeno ampiamente studiato dagli storici, e molto ben analizzato nei suoi risvolti artistici da P. Dagen nel saggio Le silence des peintres: Les artistes face à la grande guerre. Assai meno dirompente appare invece l'iconografia del trasporto di un soldato ferito o morto, che ricorre invece con maggior frequenza. Citiamo, ad esempio, la silografia Gli eroi di Emilio Mantelli (Genova 1884-1918) (fig. 5), pubblicato nel 1915 ne «L’Eroica» (nota 10); la litografia Les camarades di Théophile-Alexandre Steinlen (Lausanne 1859-Paris 1923) (fig. 6), del 1916, e l’acquaforte Brancardiers transportant un corp di Georges Léon Bruyer (Parigi 1883-1962) (fig. 7), opere nelle quali appaiono due soldati intenti al trasporto di un compagno ferito. 

Fig. 6 Théophile-Alexandre Steinlen, Les camarades, litografia, 1916

Mantelli e Steinlen (figg. 5 e 6) mettono in evidenza il corpo del ferito, incentrando l’azione lungo una linea diagonale che attraversa la composizione, dall’angolo in alto a sinistra sino a quello in basso a destra. Nella silografia di Mantelli il contesto in cui si svolge la battaglia è solo vagamente accennato, a differenza della litografia di Steinlen che riprende, con colpi di luce, i macabri particolari dei cadaveri disseminati nell’ampio campo di battaglia, assai ben leggibili nell’oscurità della notte.
Nella silografia di Mantelli vi è infine un aspetto di non trascurabile importanza, poiché il trasporto del corpo del soldato, afflosciato e ricadente, richiama l’iconografia più consolidata del trasporto di Cristo al sepolcro, in particolare nell'abbandono del braccio destro del trasportato, citazione di  utopos che, attraversando i secoli, riconduce al caso emblematico del corpo di Cristo (nota 11). 

Fig. 7 George Léon Bruyer, 
Brancardiers transportant un corp,
acquaforte, 1915

Nella grafica di Bruyer (fig. 7), infine, il trasporto si svolge in un paesaggio diurno innevato in cui le figure dei militari, delineate con spessi segni scuri, acquistano una grandiosa evidenza. L’opera fu realizzata dall'artista a seguito dell'esperienza di ferimento in battaglia, come si desume dalla scritta «Fait en convalescence». 

I feriti di Bruyer e Steinlen (figg. 6 e 7) non sembrano dei cadaveri, ma sono percorsi da un sotterraneo flusso vitale, evidenziato soprattutto dalla posizione degli arti superiori, ravvicinati al busto e non pendenti come in un corpo esanime. Tuttavia anche tali varianti nella posa delle braccia riconducono al trasporto di Cristo, attingendo a una tradizione iconografica meno popolare di quella seguita da Mantelli, ma che annovera degli esempi ugualmente illustri nell’arte rinascimentale, quale, ad esempio, il Trasporto di Cristo nel sepolcro di Polidoro da Caravaggio (conservato a Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), in cui Cristo tiene le braccia incrociate davanti al petto, analogamente a un uomo che riposa piuttosto che a uno che è già spirato.

A conclusione di questo intervento possiamo constatare come i messaggi veicolati dalle opere d'arte mediante i riferimenti religiosi a Cristo (tanto quelli espliciti quanto quelli impliciti) convergono verso un'unica certezza: la morte di un singolo soldato non va a contrassegnare altro che l'inutilità del suo sacrificio. L'immagine di Cristo - rappresentata o anche solo evocata - evidenzia l'immenso dolore (di cui è simbolo la passione) prodotto dal conflitto d'inaudite proporzioni e d'immane ferocia che aprì il Novecento, reso possibile dalla follia e dalla stoltezza umana.


Carol Morganti


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Note

1. L’opera fa parte della serie di 17 disegni Hintergrund, realizzata per le scene della rappresentazione teatrale tratta dal testo di Jaroslav Hasek, Il buon soldato Sc’vèik, che venne allestita a Berlino da Erwin Piscator e Berthold Brecht.
2. Sulla vicenda si veda: Keith Moxey, Impossible Distance: Past and Present in the Study of Dürer and Grünewald, «The Art Bulletin», vol. 86, n. 4 (dicembre 2004), p. 752.
3. George Grosz, No Ein kleines Ja und ein großes Nein, 1946 New York (edizione consultata: The Autobiography of George Grosz: A Small Yes and a Big no, New York, Allison & Busby, 1982, p. 97).
4. Per l’opera di guerra dell’artista si veda: Catherine Ambroselli de Bayser, George Desvallièeres peintre de combats, in Jours de guerre et de paix: Regard franco-allemand sur l’art de 1910 à 1930, a cura di David Liot, Catherine Delot, Marie-Hélène Montout-Richard, Somogy, Paris 2014, pp. 139-151. Si veda, inoltre, il catalogo ragionato dell’opera completa del pittore: George Desvallières: catalogue raisonné de l'oeuvre complet, a cura di Catherine Ambroselli de Bayser, Somogy, Paris 2015. Ecco il link alla presentazione del volume: Catalogue RaisonnéRingrazio Catherine Ambroselli de Bayser per averci concesso l'autorizzazione a pubblicare le opere dell'artista. 
5. Nel 1903 George Desvallières, con Frantz Jourdain, Hector Guimard, Eugène Carrière, Félix Vallotton, Édouard Vuillard, fondarono il Salon d’Automne che, nel 1904, lanciò il movimento dei fauves. Incurante delle polemiche, Desvallières persistette nei suoi progetti. 
6. Nel 1915 l'artista visse il dramma della perdita del figlio Daniele, colpito da un obice tedesco, anche lui combattente volontario. 
7. Cfr.: Ambroselli de Bayser, Catherine, avec la collaboration de Thomas Lequeu et Priscilla Hornus, George Desvallières, Catalogue raisonné de l'œuvre complet, Paris, Somogy éditions d'art, dicembre 2015, tomo III P. 437, CR 1709. Iscrizioni : « 1914 », in basso a sinistra; «Le Chiffon de papier» / «JESU / ME /NOBIS /» in un filatterio, al centro; « 1918 », in basso a destra. Misure: cm 103 x 287.
8. Cfr.: Ambroselli de Bayser, Catherine, avec la collaboration de Thomas Lequeu et Priscilla Hornus, George Desvallières, Catalogue raisonné de l'œuvre complet, Paris,  Somogy éditions d'art, dicembre 2015, Tome III P. 424, CR 1664. Opera firmata e datata «G. Desvallières 1920», in basso a sinistra. Misure: cm 81 x 65,5.
9. Nella maturazione di un pensiero religioso e una fede solida, e rigorosa fu determinante l’incontro con Leon Bloy che gli venne presentato dall’amico George Rouault.
10. Mantelli si arruolò volontario nel novembre 1915 e, nei primi mesi del 1916, si trovava in zona di guerra, sul Carso, col grado di tenente di fanteria.  Si era portato con sé gli attrezzi, con l'idea di incidere nei momenti di tempo libero. Mantenne il suo proposito, anche se non riuscì a stampare alcunché, non avendo potuto trovare né rullo né inchiostro. Fino alla morte, avvenuta a causa «di grippe», dopo tre anni di servizio militare, collaborò assiduamente con «L’Eroica», fornendo numerose xilografie di piccolo e medio formato, con funzione d'appoggio ai testi letterari o in tavole a piena pagina fuori testo. Per «L’Eroica» illustrò alcuni volumi della collana "I gioielli de L'Eroica" tra i quali la Sagra di santa Gorizia (1917) di Vittorio Locchi (sull'opera di guerra di Mantelli si rimanda al recente catalogo della bellissima mostra realizzata dal Museo Civico di Crema e del Cremasco, dal 22 ottobre al 11 dicembre 2022, Una bizzarra bellezza. Emilio Mantelli e la grafica europea a cura di Edoardo Fontana, capitolo: La prima Guerra Mondiale e l'esperienza al fronte, pp. 58-62, nel quale si troveranno rimandi alla bibliografia precedente).
11Andando all’indietro nel tempo, troviamo tale tema iconografico, per citare alcuni tra gli esempi più noti, nel cadavere di Marat di David (conservato a Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts del Belgio), nel Cristo trasportato al sepolcro di Caravaggio (Pinacoteca Vaticana), nel Cristo della Pietà di Michelangelo (Roma, Basilica S. Pietro), in quello della Deposizione di Rosso Fiorentino conservata a Volterra, in quello della Deposizione della Galleria Borghese di Raffaello; dal Rinascimento, risalendo poi all’antichità lo stesso topos si ritrova ancora nei rilievi dei sarcofaghi classici (da cui sono derivati i modelli rinascimentali ora menzionati) raffiguranti il trasporto del cadavere di Meleagro il cui braccio pende esanime, come quello del Redentore  (come, ad esempio, in un sarcofago romano del 180-190 d.C., disperso, già Roma, Palazzo Barberini, riprodotto nel Codex Coburgensis, fol. 124. Cfr. Carl Robert, Die Antiken Sarkophagreliefs, Berlin 1904, III, 96, 287, cit. in Aby Warburg, Mnemosyne. Einleitung, [1929] (ed cons. 2002 in: «Engramma», n. 1, settembre 2000, testo in linea: http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=1145). Sulla questione della trasmigrazione della phatosformel dal braccio di Meleagro a quello di Cristo, si veda l’illuminante saggio di Salvatore Settis, Ars morendi: Cristo e Meleagro, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Quaderni, 1-2, Serie IV, Pisa 2000, pp. 145-170).

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