Luigi Barzini: Quel che è avvenuto a Oslavia (prima parte)

«Corriere della Sera», 6 febbraio 1916


Dalla fronte, 1 febbraio 1916
Tutto quello che è avvenuto a Oslavia, la successione tempestosa di attacchi e contrattacchi che ha fatto per cinque volte oscillare avanti e indietro la linea delle posizioni sopra un fronte di un chilometro e mezzo non ha che un valore di episodio. È stata un’azione di battaglioni la quale non poteva avere, qualunque fosse stato il suo esito, una influenza apprezzabile nel complesso delle operazioni.
Oslavia è una soglia tra i due pilastri del Sabotino e del Podgora, e non ha che l’importanza di un passaggio. È una posizione di transito, non una posizione di appoggio, di comando, di solidità. Essa apre una strada al dominio di Gorizia, ma il dominio è al di là. Per essere utilizzata Oslavia deve essere varcata. Non permettendoci le circostanze di inoltrarci, poco importa che le trincee in quel punto siano trecento metri più avanti o trecento metri più indietro.
Per sé stessa Oslavia non controlla alcun settore, non s’impone da nessuna parte, non ha forza propria; è una strana bassura ondulata e varia, un labirinto di collinette, di burroncelli, di greti, di vallette, sul quale tutti e due gli avversari possono battere con piena efficacia. La facilità relativa con cui Oslavia è presa e ripresa, dice la difficoltà di tenerla. Nessuna occupazione può mettervi solide radici.
Ma se l’azione di Oslavia non è che un episodio nel quadro della guerra, essa ha un interesse profondo per i suoi caratteri, per la sua intensità, per l’esempio singolare che offre dei sistemi odierni di combattimento, per l’eroismo di cui era tutta vampante, per la sua feroce bellezza.
Oslavia aveva per noi il difetto di tante posizioni prese d’impeto, in avanzata. Non possedeva solidamente alle spalle tutto quel solido appoggio di fortificazioni composte di rifugi, di passaggi protetti, di cunicoli, di trincee, di tane, che le truppe sono costrette a creare quando conquistano con sforzo lento e costante, scavando e minando.
Dove l’offensiva è più difficile, più lunga, più cauta, come sul Podgora, si debbono compiere lavori immensi di attacco che danno resistenza alla fronte e perciò servono anche alla difesa. Le retrovie sono meglio garantite, le comunicazioni più sicure, il sapiente alveare di profonde gallerie che si distende sui rovesci diventa un serbatoio di riserve pronto; l’arrivo immediato di rincalzi è facile e relativamente protetto. Il nemico che occupasse di sorpresa un tratto della prima linea, avrebbe subito il passo sbarrato da un dedalo di cunicoli, non potrebbe sfondare facilmente, si troverebbe rinserrato come in un sistema di paratie stagne, preso in un intreccio misterioso di passaggi nei quali l’assalto si disgregherebbe per finire senza forza, incanalato in una rete di trincee, ad urtare contro sbarramenti minuscoli e insuperabili.
Ma quando una posizione non è stata raggiunta con i tenaci sistemi dell’assedio, quando l’azione l’ha conquistata solo con brevi soste, alla buona vecchia maniera, non rimangono sul territorio d’avanzata tracce profonde dell’attacco; il terreno è impreparato e più o meno scoperto ed esposto, i camminamenti sono pochi e superficiali, i rifugi insufficienti. Quei lavori che si è costretti a fare quando l’offensiva lo impone, non sempre conviene compierli poi per la difensiva, considerando che essi richiedono uno sperpero enorme di energia, di tempo e di materiale in luoghi che si spera di abbandonare per una nuova avanzata. Allora la prima linea rimane relativamente isolata, sottile, fragile.
A Oslavia sarebbe stato anche difficile intraprendere grandi lavori di consolidamento a causa della natura stessa del suolo, molle, friabile, che scivola, che si impasta, che si sfalda. È un suolo argilloso che la pioggia scava, trascina e scioglie in melma. Le pareti delle trincee profonde crollano, i camminamenti si colmano: bisognerebbe ricorrere a rivestimenti di fascine di legname, che il bombardamento facilmente sconvolge o incendia. La costruzione di trincee di cemento, le sole che si adattano al terreno, non è possibile nella vicinanza immediata del nemico, a cinquanta o sessanta metri dalle mitragliatrici. Per la stessa ragione invece dei reticolati, che non possono venire solidamente piantati, si adoperano come difesa ausiliaria i cavalli di Frisia, dei grovigli di filo di ferro spinato intorno ad armature di legno, che si costruiscono lontano, che si trasportano di notte per gettarli e ancorarli al di là delle trincee, e che perciò debbono essere forzatamente leggeri.
Per arrivare alla alture di Oslavia noi dobbiamo scendere in un terrazzo che il nemico domina quasi interamente, giù per gli ultimi declivi orientali di San Floriano in fondo a una valletta e poi risalire. Tutto questo terreno non offre che un troppo incerto riparo alle truppe di riserva, che non potevano essere tenute nelle immediate vicinanze delle posizioni per venire scagliate nel momento opportuno. Tre, quattro ore di difficile marcia li separavano dall’azione. Dopo lunghi bombardamenti micidiali e sconvolgitori, al sopraggiungere di assalti improvvisi e serrati, è difficile che qualche elemento di trincea, privo di soccorsi, non esaurisca in alcune ore la sua forza di resistenza. In queste condizioni, all’arrivo dei rincalzi non è più questione di difesa ma di offensiva: bisogna riprendere quello che si è perduto.
Perciò la caratteristica delle recenti azioni di Oslavia è stato il contrattacco. Ci siamo difesi conquistando. Rispondevamo agli assalti assalendo. Il nemico non arrivava ad insediarsi sulla posizione, che ne era scacciato.
Fu il 12 di gennaio che si cominciò a presentire l’offensiva austriaca. Quel giorno, il fuoco di artiglieria che batteva Oslavia si fece più intenso. L’indomani il bombardamento aumentò ancora. Il 14 anche i grossi calibri del nemico entrarono in azione. Dei 280, dei 210, persino dei 305, tempestavano i trinceramenti e le retrovie, fulminavano gli approcci, cercavano le nostre batterie e le nostre riserve nella distanza. Tiravano sulle rovine di San Floriano, sui ruderi di Quisca, frugavano gli avanzi dei villaggi demoliti, mentre le artiglierie nostre rispondevano con tiri d’interdizione e la valle di Oslavia si costellava di eruzioni e di nembi, che spandevano il loro fumo filaccioso e greve in lunghe striature grigiastre.
Nel pomeriggio il cannoneggiamento si fece serrato, continuo, era udito da tutta la piana friulana, il suo boato arrivava a Udine come un brontolio di temporale sull’orizzonte sereno.
Le nostre trincee, talvolta percosse in pieno, crollavano qua e là; i soldati rannicchiati nel fondo ricevevano le frane pesanti dei parapetti sui loro dorsi curvi e si trovavano spesso chiusi e premuti in una tenebra improvvisa, soffocante e fredda, interamente sepolti nel molle terriccio greve dal quale essi emergevano faticosamente, come formiche dalla sabbia del formicaio calpestato, per rimettersi subito al lavoro di rafforzamento, febbrili, muti, le vesti, il volto e le mani incrostati di mota, simili a statue di creta con degli occhi viventi.
Dei blindaggi colpiti saltavano in aria in una vampa, e travi e tavole volavano alte nel fumo, roteando. I cavalli di Frisia, divelti dai loro ancoraggi, erano rovesciati; gettati via, dispersi dagli scoppi, e sui bordi delle trincee passavano raffiche clamorose di schegge, di pietre, di detriti, di rottami, di pallottole, di fili di ferro strappati alle difese e staffilanti l’aria con sonora veemenza. Si videro, poco a tergo delle postazioni, dei tronchi d’albero enormi, sfrondati e cincischiati dal fuoco dei combattimenti passati, ma rimasti fino allora saldi come colonne, schiantarsi e sparire lanciati lontano nel barbaglio del baleno.
Entro le trincee passavano soffi possenti e caldi, buffate di un ardente uragano, travolgenti e brevi: l’alitare impetuoso delle esplosioni vicine. Non si ascoltava più l’ululato delle granate in arrivo, quella gran voce sovrumana che avverte; troppo vasto era il coro prodigioso dei proiettili che solcavano il cielo, e gli scoppi stordivano come percosse.
Il rancio caldo non poteva essere portato lungo i camminamenti battuti, e la truppa mangiava i viveri di riserva, quando si ricordava di mangiare. Le perdite indebolivano certi reparti più esposti, battuti d’infilata; qualche plotone non aveva più comando. Da quell’inferno arrivavano fonogrammi pieni di calma e fiducia.
L’eroismo della fanteria nella guerra moderna è quasi sempre una virtù di sopportazione, la forza di una immobilità; si combatte giacendo senza difesa in una bufera di morte. Il nemico non si vede, il pericolo non si para, e il valore di una difesa è in una tenacia passiva, nell’inerzia di una attesa indefinita entro un’atmosfera di massacro. L’unico nemico col quale si lotti in quelle ore eterne è il proprio istinto; bisogna inchiodarsi con la volontà sulla posizione insanguinata. Nulla può soccorrere, l’arrivo di rinforzi nelle trincee tempestate non diminuirebbe il pericolo e aumenterebbe le perdite. Il rinforzo si tramuterebbe in un indebolimento. È necessario che gli effettivi in prima linea siano minimi e siano saldi.
Vi è un solo momento in cui la loro presenza in trincea è indispensabile, il momento nel quale il cannone tace e la fanteria avanza. Per aspettare questo momento risolutivo dell’urto, debbono sottomettersi in silenzio per giorni e giorni alla folgorazione delle artiglierie, essere delle cose, essere come delle zolle viventi della terra flagellata. Quando il terreno lo permette, i difensori si ritraggono dalla linea battuta e si tengono al coperto aspettando l’assalto, e appena l’artiglieria tace, si ributtano avanti, ripopolano la posizione abbandonata, e sulle trincee demolite fermano l’avanzata nemica. A Oslavia i rovesci non offrivano rifugio.
Solo la magnifica resistenza del soldato italiano al bombardamento rende possibili certe situazioni. Non so quali truppe più delle nostre posseggono questo spirito di sacrificio, di abnegazione, di rassegnazione, di disciplina, e tanto coraggio di fronte all’ineluttabile.
Verso la sera del 14 il bombardamento cessò. La notte discese chiara, fredda e calma, sorse la luna e nel suo azzurro chiarore i soldati lavorarono a rafforzare le trincee devastate. La tregua fu breve. Alle 8 il cannoneggiamento ricominciò più serrato, furibondo, con una violenza definitiva. La vallata con le sue gibbosità, con i suoi costoni brulli, con le sue tetre ondulazioni, s’illuminava tutta, sinistra e imponente, in un palpitare di lampeggiamenti, in un balenio violastro e fumigante, piena del tremolio di fantastiche luci. Poi, improvvisamente, silenzio.
Erano le nove e mezza. Trascorsero alcuni minuti lenti, grevi di attesa e la fucileria scrosciò.
La linea delle posizioni si disegnò a poco a poco con uno scintillio fitto di colpi. Segnali luminosi sprizzavano dalle nostre trincee, lanciando in aria vivide fiammelle azzurre e rosee, e i razzi illuminanti del nemico salivano lenti e dritti nel cielo sereno, con la loro lieve coda sottile di faville, per accendere in alto delle candide abbaglianti meteore, che spandevano per lunghi secondi sulla terra la calma luminosità di un crepuscolo e lasciavano, estinguendosi, un punto di bragia oscillante tra le stelle. Pareva che frugassero per tutto, quelle luci sorprendenti, sotto alle quali ogni cosa proiettava un’ombra lunga, netta e instabile.
Si distinguevano sul fragore uniforme dei fucili e delle mitragliatrici i boati delle granate a mano, la cui vampa dava diafanità sanguigne e dense nuvole di fumo. Di tanto in tanto saliva confusamente da laggiù il grido dell’assalto e della mischia. Lontano, nello sfondo vaporoso e oscuro del paesaggio notturno, Gorizia distendeva il punteggiamento dei suoi lumi, una tranquilla costellazione di fanali accesi e di finestre illuminate.
Per due ore continuò il combattimento con brevi periodi di languore. Verso mezzanotte la battaglia pareva cessata. Vi furono venti o trenta minuti di calma. Poi il fuoco riprese. Ebbe un’altra ora di parossismo e si quietò. Si era intuito, seguendo lo strepito, uno spostamento successivo dell’attacco. Il centro di intensità della lotta era passato da destra a sinistra. Ma i telefoni erano interrotti e mancavano notizie immediate e precise.
Del resto, nella notte i combattenti stessi non conoscevano quello che avveniva ai loro fianchi. Gli ultimi fonogrammi, annunziato l’attacco, dicevano: «Resistiamo». Ma i messaggi erano giunti dai settori meno premuti dal nemico. L’azione, in quella prima fase, era affidata all’iniziativa dei comandanti locali. Nel buio dovevano essere avvenuti frammischiamenti inevitabili, perdite di contatto, e la sospensione della lotta indicava un disorientamento che paralizzava tutti e due gli avversari. Intanto le artiglierie del nemico e le nostre riprendevano il fuoco, non più sulle posizioni, perché era difficile sapere chi le tenesse, ma al di qua e al di là, con tiri di interdizione, facendo sbarramenti e cercando di mettere dalle due parti un ostacolo al movimento delle riserve.
La battaglia doveva decidersi il giorno dopo.


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