A.G.G. n° 20 - Ottobre - dicembre 2014

Feriti e ferite
La metafora della «frattura» e del «trauma», così spesso applicato alle storie della Grande Guerra, derivano entrambi dal linguaggio clinico, dalla patologia del corpo e della mente, a indicare una lesione violenta, una interruzione e una ferita che si potrà ben suturare, ma che lascerà comunque il suo segno indelebile, non interamente riassorbibile.
Antonio Gibelli, L'officina della guerra
Fin dall'inizio della Grande Guerra, la propaganda di ciascuna nazione belligerante modulò e diffuse una serie ben ponderata di tematiche atte a rendere accettabile - e a utilizzare strumentalmente -  la terribile e sconvolgente novità (per la gravità dei traumi e il numero delle persone coinvolte) dei feriti di guerra. I proiettili delle mitragliatrici, le pallette degli shrapnel, le pietre proiettate dalle esplosioni causavano fratture ed emorragie che andavano sovente incontro a gravi infezioni. Le lesioni addominali erano quasi sempre mortali. Le ferite al torace si trasformavano spesso in pesanti infiammazioni polmonari. Le lacerazioni agli arti venivano in genere ben curate, sebbene talvolta (meno spesso di quanto si pensa, in realtà, ma comunque in un numero rilevante di casi) necessitassero di crudeli interventi di amputazione. I bombardamenti continui e le condizioni terribili della vita di trincea determinavano inoltre nevrosi e gravi shock emotivi ai soldati. Se è ancora difficile stimare con accettabile precisione il numero totale dei feriti, di certo il primo conflitto globale determinò, assieme a molti milioni di morti, un numero cospicuo - e assai maggiore -  di persone mutilate o lesionate in modo irreversibile, nel fisico come nella psiche.
In questo numero di A.G.G. (n° 20 di ottobre - dicembre 2014) tenteremo di avvicinare tale tema doloroso, utilizzando - com'è nostra consuetudine - la chiave di lettura privilegiata dell'arte e della letteratura sorte direttamente nelle trincee della Grande Guerra. Sarà dunque la voce dei soldati a guidare la nostra riflessione: un punto di vista per sua natura parimenti distante dalla visione pietistica veicolata dalla propaganda, come da quella eroicizzante e militarista delle avanguardie.
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Nel corso della Grande Guerra, l'iconografia del ferito muta radicalmente rispetto ai conflitti del passato. Il ferito perde d'un tratto ogni carattere d'eccezionalità divenendo sovente un "eroe per caso". Nelle opere narrative di quegli anni, questo tema scottante assume differenti valenze, talvolta diventando occasione di celebrazione del compagno ferito, talaltra mostrando invece la sterilità di un tale sacrificio individuale. Nell'intervento seguente viene proposta una scelta di brani di particolare spessore, esemplificativi di alcuni dei diversi approcci alla questione: L'epica dei feriti nelle opere narrative della Grande Guerra
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Fausto Maria Martiniclasse 1886, è stato uno scrittore-soldato importante, la cui figura di intellettuale è oggi purtroppo quasi dimenticata. In guerra fu ferito due volte, la prima in modo lieve, la seconda - in Carnia - così gravemente da essere dato per morto. Si salvò, invece, restando però in ospedale per ben tre anni. Sulla guerra e sull'esperienza del ferimento scrisse pagine originalissime. Il seguente breve articolo vuole tratteggiare la curiosa figura di soldato che dovette essere, interessato più all'elegia che all'epos della guerra, secondo la pregnante definizione di Nicola D'Aloisio: Breve profilo di Fausto Maria Martini
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Sfoglieremo ora quella che è certamente l'opera di guerra più significativa di Fausto Maria Martini, il romanzo Verginità, pubblicato nel 1920. Un libro singolare, difficile da recensire come da leggere, perché del tutto fuori dai canoni del genere. In esso viene raccontata, tramite una prosa controllatissima, la lenta e faticosa convalescenza del soldato Paolo (trasparente alter ego dell'autore), dopo una grave ferita alla testa subita in combattimento. Nell'ospedale militare in cui buona parte della vicenda è ambientata, le terribili menomazioni dei combattenti non trovano alcuna giustificazione o facile conforto, e l'unico valore positivo sembra essere la nuova visione del mondo offerta inopinatamente ai convalescenti dal lento e miracoloso ritornare della vita. Una storia di morte e rinascita che vuole forse anche tracciare un ideale percorso di rinnovamento per una società-fenice, disseccata dalla guerra: Verginità di Fausto Maria Martini
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Quale fu  l’atteggiamento degli artisti rispetto al fenomeno scioccante dei feriti di guerra? Esulando da quelli "al soldo" della propaganda, solo una minoranza volle affrontare un tema tanto delicato, scabroso e disturbante. In questo intervento parleremo dei loro lavori. Ed è davvero sorprendente quanto toccanti siano sovente queste opere, di solito di piccole dimensioni, anche per noi uomini del XXI secolo, che conosciamo le ferite delle guerre attraverso le immagini - numerose ed in tempo reale, ma ottundenti per la sensibilità - dei potenti mezzi di comunicazione che dominano la nostra esistenza. Iniziamo quindi un excursus nell'universo dei feriti della Grande Guerra con l'intervento: Il recupero dell’integrità della persona nelle rappresentazioni dei feriti
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Proseguendo nel nostro percorso dedicato alla raffigurazioni dei feriti della Grande Guerra, proponiamo la lettura di due veri capolavori del genere, prodotti nell'ambito dell'espressionismo: opere di straordinaria rilevanza umana e artistica, il cui significato assume il valore di monito universale contro la guerra. Ecco il link all'articolo: La raffigurazione dei feriti come denuncia degli orrori della guerra
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Se il linguaggio degli espressionisti vibra di brutalità e di violenza, che si traducono nella deformazione dei corpi, nella disarticolazione dei segni e nell’addensarsi dei grumi neri dell'inchiostro (come abbiamo visto nel precedente articolo), quello dell'artista simbolista belga che andiamo ora a considerare, Henry De Groux, è caratterizzato da un'estrema lucidità e ricchezza di riferimenti culturali, mediati da un segno fluido e nervoso che veicola l’intensità del suo flusso psichico. Il seguente intervento è focalizzato su un'opera che è certamente uno dei suoi massimi capolavori dedicati alla Prima guerra mondiale: Il tema dei ciechi di guerra nell'opera I veggenti di Henry De Groux
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Osserva, vecchio mio,
come si può essere ridicoli con delle gambe!
Chiudiamo, al solito, con una vignetta dell'epoca. Si tratta di una litografia umoristica, datata 7 settembre 1915, del caricaturista francese Abel Faivre (Lione 1867-Nizza 1945): l'irrisione delle gambe paffute della boriosa signora in primo piano si scontra - con un effetto di agra malinconia - con la menomazione dello stesso arto patita da un soldato.

Sommario


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"I veggenti" di Henry De Groux

Il maestro belga Henry De Groux ha dedicato ai fatti della Grande Guerra una serie cospicua di opere, realizzate negli anni del conflitto, trattando con notevole acume e originalità anche il tema dei feriti. In tale ambito si è occupato, in particolare, dei ciechi di guerra. La singolarità della declinazione di questo tema è costituita dall'inconsueta associazione introdotta dal maestro tra il motivo della cecità dei soldati e il concetto di Vittoria. Correlazione ricavata in prima istanza da un discorso pronunciato dal Ministro della Pubblica Istruzione e delle Belle Arti, Albert Serraut, nel corso di una manifestazione a favore dei ciechi di guerra avvenuta il 19 gennaio 1915 : «Quegli eroi sono diventati tali [ciechi] per aver guardato troppo da vicino un volto angusto e terribile, Il Volto della Vittoria». Estrapolata dal contesto, ritoccata e stravolta dall'estro dell'artista, questa asserzione genererà un concetto di Vittoria del tutto nuovo, antitetico alla funzione beatificante che un’inveterata tradizione le attribuisce. 
A questo riguardo, proponiamo la lettura della straordinaria acquaforte Les voyants, facente parte della raccolta Le Visage de la Victoire.


Fig. 1 Henry De Groux, Les voyants, acquaforte
Nell'incisione Les voyants (fig. 1) è raffigurata una processione di soldati ciechi e feriti che avanzano a fatica, aiutandosi con dei bastoni, da sinistra verso destra. Gli uomini in capo alla schiera tengono la testa bassa coprendosi il capo con le mani. Dietro di loro, altri hanno gli occhi chiusi, mentre altri ancora mostrano di essere abbagliati dal disco luminoso che campeggia nel cielo. All'interno di questo astro compare l’effige della Medusa qui presentata con l’aspetto spiritato, gli occhi spalancati, i capelli scompigliati, la presenza del sangue alla base del collo. Dei corvi svolazzanti intorno all'aureola della Medusa ne ribadiscono il terribile potere pietrificante; l’iscrizione che ne circonda il viso, “VULTUS VICTORIAE”, associa il concetto di vittoria alla distruttiva creatura infera. 
In questa allegoria De Groux raffigura quindi dei soldati che vengono accecati nell'osservare il volto della Vittoria. Essi sono detti veggenti, voyants, perché, testimoniano attraverso le mutilazioni dei corpi gli orrori dei combattimenti, permettendo di vedere, oltre il velo della retorica, la grottesca vanità del trionfalismo bellico. Ed è significativo che l’autore assegni il potere di abbagliare, e dunque di annientare, non alla guerra, ma alla vittoria (supremo valore patriottico), rimarcando così che in un tale conflitto il disfacimento, alla fine, non potrà che accomunare tutti i partecipanti, i vincitori come i vinti. 



Carol Morganti

Riferimenti in ArteGrandeGuerra
Vedere articolo: Le metamorfosi del corpo dei soldati di Carol Morganti



La raffigurazione dei feriti come denuncia degli orrori della guerra

Rari furono gli artisti che seppero dare adeguata rappresentazione ai massacri della Grande Guerra. Tra di loro, quelli che hanno lasciato le testimonianze più significative e pregnanti sono sovente da ricondurre al movimento dell'espressionismo. In questo breve intervento ci concentreremo su due veri capolavori, prodotti in questo ambito, la cui forza espressiva e il cui significato assumono il valore di monito universale contro la guerra.

Fig. 1 Max Beckmann, Una granata, 1915, puntasecca

La prima immagine in esame, intitolata Una granata, è un’incisione alla puntasecca di Max Beckmann (Germania, 1884–1950), risalente al 1915, prodotta nel contesto dei primi attacchi con il gas venefico (fig. 1). Il soldato Beckmann partecipò direttamente a questi eventi, a seguito dei quali fu colpito da una grave depressione nervosa. 
Ma osserviamo l'opera.
A prima vista sembra di percepire solo la confusione dei segni e delle linee. Solo dopo un po' si riesce a cogliere il fulcro compositivo della scena, individuando - in alto a destra - la sfera pulsante che simboleggia l'esplosione di una granata. Da quel punto si dipartono una serie di linee che si espandono con furore in tutte le direzioni, andando ad aggredire lo spazio del foglio, sezionandolo brutalmente in regioni che condensano e mettono in evidenza gli effetti spaventosi dello scoppio. In primo piano vengono esibiti i corpi lacerati di tre combattenti. La guancia di uno di questi gronda sangue, come mostra l’addensarsi dell’inchiostro, la mandibola dell'uomo che l'affianca è fracassata, mentre il terzo soldato pare ripiegarsi su se stesso, in un gesto di estrema quanto illusoria protezione. 
Osserviamo ora attentamente, una dopo l'altra, le altre scene di questa sequenza atemporale di orrori. Penetreremo - dolorosamente - in un spazio fisico, che è anche psicologico, di desolazione, violenza e insensatezza.
Con quest’opera Beckmann voleva denunciare le inedite atrocità che la guerra in corso andava generando. Le deturpazioni dei corpi rappresentati con così grande vigore espressivo sono come lame affilate che intendevano (e intendono) scalfire l'indifferenza dell'osservatore.
  
Fig. 2 Otto Dix, Un ferito, 1924, acquaforte e acquatinta
La seconda opera che proponiamo è l’incisione Un ferito di Otto Dix, pubblicata nel 1924 all'interno della raccolta Der Krieg (fig. 2). Anche questa immagine riprende una circostanza reale. Dix combatté infatti nella Grande Guerra, raccogliendo nei luoghi delle battaglie diversi schizzi e ricordi che rielaborò successivamente. In questo caso la situazione è da riferirsi alla battaglia della Somme, nei pressi del comune francese di Bapaume, nell'autunno del 1916. Raffigura - in una ripresa di inimmaginabile crudezza - un soldato con il ventre lacerato da una granata. Investito dalla forza invincibile dell’esplosione, il cui contraccolpo gli ha fatto ricadere l’elmetto all'indietro, il corpo dell'uomo espone oscenamente allo sguardo dell'osservatore l’enormità di quel solco, mentre nel suo volto, come in una maschera deformata, si imprime indelebilmente la sorpresa e lo strazio per una fine tanto disumana e repentina. 
Le opere che Otto Dix ha dedicato alla Grande Guerra, pubblicate a diversi anni dalla fine dei combattimenti, intendevano riportare alla luce delle coscienze i terribili fatti che avevano caratterizzato gli scontri, rammentandone le atrocità a una società che sembrava invece intenzionata a rimuoverli o a mistificarli.


Carol Morganti


Il recupero dell’integrità della persona nelle rappresentazioni dei feriti

Georges Barrière, "Soldato fasciato", 1915 (particolare)
La Grande Guerraper i potenti mezzi tecnologici con cui è stata combattuta e per l'elevato numero delle persone coinvolte, generò un numero di feriti immensamente più cospicuo rispetto a qualsiasi conflitto precedente. È dunque lecito domandarsi quale fu l’atteggiamento degli artisti rispetto a un fenomeno tanto rilevante quanto scioccante. In generale, possiamo costatare come, rispetto alle opere sopravvissute che documentano la guerra nelle sue diverse sfaccettature (la vita quotidiana in trincea, gli assalti, i ritratti di soldati, i luoghi della guerra...), solo una percentuale minore affronti il tema dei feriti. Constatazione che può essere spiegata tramite ragioni facili da dedurre, se si considerano le inevitabili resistenze psicologiche ad occuparsi di un soggetto tanto disturbante. Ciò nonostante, alcuni artisti, per ragioni diverse, hanno saputo superare questo disagio, lasciando significative testimonianze in merito a questa materia scabrosa
Fig. A Manifesto per la Croce Rossa
di Marcello Dudovic
Quanto detto vale ovviamente solo per le opere prive di intenti propagandistici, essendo invece queste ultime assai abbondanti, realizzate, solitamente da artisti che non avevano esperienza diretta del fronte, per sollecitazioni esterne - istituzionali e non - al fine di sostenere la guerra. Si tratta di manifesti, litografie, anche cartoline: opere spesso commoventi e patetiche sotto il profilo del coinvolgimento emotivo, ma artisticamente poco interessanti, almeno per la nostra sensibilità odierna. Esulando dall'ambito del presente intervento, di questa tipologia di lavori forniremo il solo esempio di fig. A, un manifesto finalizzato alla raccolta di fondi, realizzato per la Croce Rossa italiana da Marcello Dudovic.
Le opere che nacquero nelle trincee sono alquanto differenti, anche dal punto di vista strettamente tipologico e materiale: per lo più schizzi, disegni di piccole dimensioni o incisioni. Ed è davvero sorprendente quanto toccanti siano sovente questi piccoli lavori anche per noi uomini del XXI secolo, che conosciamo le ferite delle guerre attraverso le immagini - numerose ed in tempo reale, ma ottundenti per la sensibilità - dei potenti mezzi di comunicazione che dominano la nostra esistenza. Iniziamo quindi un excursus nell'universo dei feriti della Grande Guerra, osservando alcuni di questi disegni.

Fig. 1 Georges Barrière, "Soldato fasciato", china, 1915
Di particolare qualità artistica sono due lavori appartenenti alla mano dell’artista soldato Georges Barrière (Chablis 1881 - Vietnam 1944) noto per aver documentato la vita nelle trincee dei soldati francesi negli anni 1915 e 1916. La prima opera proposta è una china del 1915 (fig. 1), raffigurante un giovane soldato transalpino seduto e fasciato. Pochi, sicuri tratti essenziali di contorno bastano a definirne lo stato d’animo, il senso di infinita prostrazione e di abbattimento emotivo.
Fig. 2 Georges Barrière, "Soldato su una lettiga", disegno, 1915
Altrettanto intensa è la ripresa ravvicinata di un militare dal viso fasciato, coricato su una lettiga, visibile in fig. 2. Nello sguardo perso e dolente del soldato, si percepisce un senso di solitudine e isolamento, una sorta di distanza siderale che lo separa dall'osservatore, elemento che acquista il valore di un'accorata sollecitazione a comprenderne la dura esistenza e la sofferenza.

Fig. 3 Valentine Rau, Sartelet, disegno, 2/6/1915
Profondamente minati nel corpo e nell'animo appaiono anche i soldati feriti, effigiati dall'artista infermiera Valentine Rau, attiva presso l’ospedale militare di Châlons sur Marne. Una serie di disegni di sua mano, riscoperti dall'associazione Arte Grande Guerra, risalenti a un periodo compreso tra gennaio e giugno del 1915, ci permettono di osservare un ospedale militare da un punto di vista tutto femminile. L'infermiera Valentine che, come molte altre giovani donne della sua epoca, aveva lasciato la vita civile per dedicarsi alla cura dei feriti di guerra, ha documentato con profonda partecipazione, giorno dopo giorno, la vita quotidiana dei soldati convalescenti. Talvolta scruta i particolari di un volto assopito fissandone, in scorcio, i tratti (fig. 3). 
Fig. 4 Valentine Rau, "Malato sdraiato", disegno
Talaltra si sofferma a riprendere, all'interno di una grande camerata, la figura inattiva, definita plasticamente dalla luce esterna, di un degente disteso nel letto ad occhi semichiusi (fig. 4).
Fig. 5 Valentine Rau, Basremin disegno, 20/5/1915
O ancora ne immortala, con viva emozione, il momento del pasto (fig. 5).


Fig. 6 G. Focardi, "Soldato sdraiato", disegno, 9/9/1917
Ai disegni di Valentine Rau accostiamo un’altra preziosa testimonianza, riscoperta anch'essa dalla nostra associazione: un carnet di disegni, realizzati tra l’agosto e il settembre del 1917, da un artista italiano che si firma G. Focardi, della cui biografia nulla abbiamo potuto ricostruire. Si tratta di opere interamente dedicate ai soldati feriti e convalescenti presso l’ospedale territoriale di Viareggio. I malati di Focardi sembrano caratterizzati da una pensosità greve, un senso di spossatezza e d'assenza di forza vitale. Il soldato che si riposa (fig. 6), ad esempio, appare lontano, estraneo alle semplici cose che lo circondano, perso in pensieri mesti e sconosciuti: quasi astratto nella semplice delineazione fisiognomica. 

George Barrière, Valentine Rau e G. Focardi raffigurano, nell'uomo ferito dalla guerra, anzitutto la sofferenza fisica e psicologica. Evitano tuttavia di riprendere l’orrore del corpo martoriato, dello smembramento, della mutilazione. È un’arte, dunque, che sembra perseguire lo scopo di preservare l'uomo nella sua integrità fisica e psicologica, in un estremo tentativo di porre un argine al processo di disgregazione della guerra.   


Carol Morganti

Riferimenti in ArteGrandeGuerra
Su G. Focardi: Militari all’Ospedale di Viareggio.
Su Valentine Rau: L'ospedale militare di Corbineau.



A. Sordi, "Tristi ricordi" (II parte: campo di prigionia di Crossen)

<== Vai alla prima parte dell'intervento

Fig. 11
Quando venne trasferito Sordi al lager di Celle? Nel suo diario egli non ce lo dice, ma possiamo presumere che tale evento dovette compiersi nel mese di gennaio 1918, quando vennero spostati a Celle i 1300 aspiranti italiani internati nel lager di Crossen, finalmente “riconosciuti ufficiali dalla Germania che li considerava prima soltanto sottufficiali (Camillo Pavan, I prigionieri italiani dopo Caporetto, Treviso 2001, p. 122 e cfr.: Procacci, p. 310). 


Fig. 12
I disegni del periodo trascorso da Sordi nel lager di Celle reiterano alcuni dei temi precedentemente sviluppati a Crossen. In “NICHT SUPPE!”, “ Niente zuppa!”, (fig. 12) è ripreso ad esempio il motivo della brutalità delle condizioni disciplinari. Qui al prigioniero viene negato il pasto, fatto, come abbiamo osservato, gravido di funeste conseguenze per la sua stessa sopravvivenza. 


Fig. 13
L'altro motivo ricorrente del freddo è illustrato nel disegno di fig. 13. Si tratta di un’opera di un certo interesse anche da un punto di vista documentale poiché rappresenta l’interno di una camerata con letti a castello. Nel lato destro della stanza, attorno alla stufa, si assiepa un gruppo di prigionieri infreddoliti. Anche qui colpisce la cultura, il brio e l'autoironia dell'autore che definisce vestali i poveri prigionieri infagottati, tra cui vi era certo anche lui stesso, sorta di grottesche sacerdotesse dedite al culto del fuoco.  


Fig. 14
“La corvée dei mastelli” (fig. 14) è l’ultimo disegno della serie (dopo di esso l'album riporta solo un abbozzo appena iniziato). È una scena di vita del campo ripresa con fresca immediatezza: rappresenta il momento in cui uno dei prigionieri addetto al trasporto delle tinozze colme di minestra ne rovescia il contenuto a terra in conseguenza di una scivolata. Sicuramente un grosso guaio…


Fig. 15
Non sappiamo come il militare Sordi poté sopportare le durissime condizioni di prigionia nei lager tedeschi, né se riuscì a sopravvivere a tale esperienza. La sua sorte rimane per noi oscura come le parole che egli riporta a matita nell’ultima pagina dell’album: “Ibis redibis [?] non morieris in bello”, enigmatico responso dato tradizionalmente dalla Sibilla a un soldato che voleva conoscere l'esito della propria missione. Questa frase latina, in funzione della posizione della virgola, muta di senso: "Andrai, ritornerai, e non morirai in guerra" oppure "Andrai, non tornerai, e morirai in guerra". Bizzarramente, ma anche significativamente, nel nostro quaderno una macchia d'inchiostro non consente di sapere se ci sia o meno la virgola dopo “redibis” (fig. 15). 

Terminiamo questo intervento riportando l’opinione del critico Arturo Lancelotti che, in un articolo uscito su «Emporium» nel novembre del 1917, affermava che “la guerra si riflette nell’arte solo sotto l’aspetto caricaturale”.


<== Vai alla prima parte dell'intervento




Carol Morganti

Breve profilo di Fausto Maria Martini (1886 - 1931)

Ritratto di F. M. Martini posto in copertina al volume
Nicola D'Aloisio, Fausto Maria Martini, Modernissima, 1919
Quella di Fausto Maria Martini, classe 1886, è una figura di intellettuale e scrittore estremamente variegata e interessante, sebbene oggi quasi dimenticata. Nel 1915, già poeta piuttosto noto - vicino a Sergio Corazzini e al crepuscolarismo -, inoltre commediografo e giornalista, partì come volontario per la guerra. Fu ferito due volte, la prima in modo lieve, la seconda - in Carnia - così gravemente da essere dato per morto (con tanto di redazione di accorato necrologio che egli considerò poi una sorta di "mascotte" portafortuna). Si salvò, invece, restando però in ospedale per ben tre anni, una parte dei quali continuamente in bilico tra la vita e la morte.
Per tratteggiare la curiosa figura di soldato che dovette essere (interessato più all'elegia che all'epos della guerra, secondo la definizione di Nicola D'Aloisio), trascriviamo qualche verso della sua (empatica) poesia - scritta durante la convalescenza in ospedale militare - Perché non t'uccisi

Non per viltà - tu non l'avrai creduto,
tu che la sera stessa, sotto un folle
riso di stelle, fosti tra le zolle,
zolla di grumi, fatto inerte e muto

non per viltà mancai la giusta impresa
di trapassarti il cuore : fu perchè
sullo sfondo inumano, vidi te
così biondo, te, dalla faccia accesa

d'un rossor di fanciullo, avido, anelo,
con l'empito del correre nel petto,
umana assurdità sul parapetto
della trincea, con due goccie di cielo

per occhi (non più scorderò quegli occhi
che predaron la mia trafitta fronte!) [...]

Non t'uccisi perchè nella stess'ora
noi ci eravamo sporti sopra il fondo
gorgo del nulla, o sconosciuto e biondo
nemico, insieme, e, quello che scolora

nel ricordo, tuo viso, somigliava
già questo mio, più macilento e vecchio,
(o l'aria di nessuno era uno specchio,
non anche frantumato dalla lava

delle granate?) insieme sulla morte
noi, vivi, ci sporgemmo, e tu fanciullo
m'apparisti qual io m'ero : un trastullo
inconscio nelle mani della sorte

eguale, trascinato dal fluire
d'un'istessa onda fino nell'estrema
avventura... Non fu dunque per tema,
s'io non t'uccisi : fu per non morire! [...]

E non t'uccisi, o tu che mi ghermisti
la fronte, non t'uccisi sol perché
nemico ignoto dai grandi occhi tristi,
ebbi paura di morire in te!

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Cliccare qui per leggere la recensione di quella che è certamente l'opera di guerra più significativa di Fausto Maria Martini, il romanzo Verginità, pubblicato nel 1920. 


L'epica dei feriti nelle opere narrative della Grande Guerra

Opera siglata MH, disegno, Parigi, 1915
(
sul retro è posta la scritta: Ecole Normale Supérieure
Hopital auxiliaire n° 103, rue d'Ulm
)
L'eroicizzazione del ferito di guerra nasce da lontano: come non ricordare, ad esempio, la celebratissima ferita alla gamba di Garibaldi? Ma si trattava, all'epoca del Risorgimento, dell'eroe, dell'individuo eccezionale. Il ferito celebrato negli anni della Grande Guerra è invece spesso un "eroe per caso": un uomo comune, parte di una massa anonima di soldati, che assurge alla "gloria del dolore" mentre sta compiendo semplicemente il proprio quotidiano dovere. Così, nel corso della Grande Guerra, la retorica del "corpo offerto alla patria" - corpo violato e assieme glorificato - acquisisce accezioni e simbologie del tutto inedite, in una esibizione spesso compiaciuta di un crescendo di orrori, per cui l'offerta del corpo martoriato è tanto più gradita e memorabile quanto più esso sia giovane, bello, ardimentoso. 

Nelle opere narrative di quegli anni, questo tema scottante assume differenti valenze, talvolta divenendo occasione di celebrazione del compagno ferito, talaltra mostrando invece la sterilità di un tale sacrificio individuale. Qui di seguito verranno proposti una scelta di brani di particolare spessore, esemplificativi di alcuni dei diversi approcci alla questione.

Cominciamo sfogliando Notturno di Gabriele d'Annunzio, scritto - secondo una leggenda diffusa dallo stesso scrittore – durante la convalescenza seguita al grave incidente aereo del gennaio del 1916, che lo costrinse lungamente a letto al buio. Il testo è uscito in una prima stesura nel 1916, per trovare forma definitiva alla fine del 1921.
Se è vero che anche in questo libro d’Annunzio non si sottrae dall'alimentare il proprio inamovibile culto personale, senza dimenticare di mettervi una buona dose di superomismo, vi si nota però un sotterraneo disagio, qualcosa come un ripensamento, una segreta incrinatura di antiche certezze. Cosa che introduce nel testo una profonda riflessione formale sulla scrittura, attuatasi anzitutto in una prosa fluida, sommamente lirica e frammentaria che non può non far pensare ai risultati ottenuti negli anni precedenti dalle avanguardie italiane, sino ad allora lontanissime dal mondo creativo del Vate. Conversione avvenuta, è giusto dirlo, in ritardo e in controtendenza rispetto al momento storico, quando molti giovani intellettuali italiani, scontrandosi con la realtà bruta della modernità e della guerra, stavano invece avviando quel ripensamento, quel "ritorno all'ordine", che riporterà la prosa in primo piano ed in particolare la forma negletta del romanzo. In ogni caso, al di là delle novità stilistiche, colui che viene glorificato in queste pagine non è il soldato comune ma - ancora - l'eroe, l'individuo eccezionale, il «poeta sacrificato», il predestinato. Ecco come lo scrittore rivive poeticamente, immobilizzato in una buia stanza d'ospedale, il momento del suo ferimento:

Un angelo o un demone della notte soffia su l'incendio chiuso del mio occhio perduto.

Le faville innumerevoli sprizzano nel vento.
Ho il capo arrovesciato indietro, ho il capo abbandonato, penzoloni nel vuoto.
Non sento più il guanciale, non sento più il letto.
Odo un rombo confuso, odo il fragore del volo, odo il crepitio del combattimento.
Una mano pietosa e rude m'ha discostato, m'ha sospinto. Il mio capo è forato: penzola nel vuoto, dal bordo della carlinga che vibra.
L'ombra dell'ala destra m'è sopra: l'astro arioso dell'elica mi corona.
Non è più fuoco, ma sangue che sprizza. 
Non più faville ma stille. Il pilota eroico riconduce alla patria il poeta sacrificato.
O gloria immensa!
Qual pugno divino o umano gittò ai solchi della terra una semenza più augusta?
Nella rapidità guerriera il sangue inesausto si sparpaglia come il grano ventilato.
Ogni fiotto si divide in miriadi,come la polvere della cascata scrosciante ove si crea l'arcobaleno. Non cola ma vola, non cade ma s'alza.
Al paragone di questo aspersorio sublime, che è mai il teschio d'Orfeo fluttuante sopra la lira?
Il nuovo mito è il più bello.
Guardo il mio viso trasfigurato nei secoli prossimi della grandezza.
L'anima non fugge ma è tuttora appresa alla ferita come alla face lo splendore che nella raffica si spicca e si rappicca, cessa e si riattiva, si piega e si risolleva, non tenuto se non da un legame invisibile che la volontà di ardere rende più forte della tempesta.
Gabriele d'Annunzio, Notturno

Al brano precedente contrapponiamo la descrizione di un'azione di guerra tratta da Kobilek - Giornale di battaglia di Ardengo Soffici, uno dei più affermati artisti (pittore e scrittore) d'avanguardia, che stava in quegli anni ritornando ad un tipo di narrazione non lirica. Qui il racconto del ferimento di un compagno d'armi, pur non comprendendo alcuna critica antimilitarista, si serve di una prosa che rifugge ogni artificio, senza alcuna enfasi né volontà di celebrazione:

Una scarica di proiettili, provenienti insieme dalla mitragliatrice di fronte e da quelle ai lati, s'incrociò su di noi come una rete di metallo infuocato. Dovemmo quasi entrare sotterra per salvarci, ma qualcuno fu ferito.
Quando potei rialzar la testa vidi infatti, un poco più basso di me, il corpo d'un uomo che sussultava come in agonia. Attraverso un buco fondo nell'elmetto, traversato da una pallottola come fosse stato di cartone, vedevo il sangue rosso palpitare sgorgando dal cervello, mentre altro sangue colava giù da un occhio del disgraziato.
Urlai ai portaferiti di condur subito quel moribondo al posto di medicamento in fondo alla valle. I portaferiti accorsero infatti e lo trascinarono via.

Ho poi saputo che quel soldato non era morto, non solo, ma che «stava benino!»

Ardengo Soffici, Kobilek

Assai più straziante e malinconica è la voce del soldato tedesco Erich Maria Remarque. Nella prosa seguente, tratta dal suo Niente di nuovo sul fronte occidentale, libro uscito nel 1929, il racconto dell'incontro tra i giovani fanti protagonisti del testo e un compagno mortalmente ferito, ricoverato in un ospedale militare, rende con grande efficacia poetica il distacco emotivo indotto irrimediabilmente dalla vita di trincea. Il ferito non assurge ad eroe nemmeno per i compagni, mostrando invece di essere null'altro che una vittima recalcitrante e inconsapevole della macchina della guerra, che nessuno può (o ha la possibilità di) piangere o commiserare. 

All'ospedale da campo c'è gran da fare. Puzza, come sempre, di creolina, di pus e di sudore. La vita di baraccamento abitua a tante cose, ma qui è facile che uno si senta venir meno. Cerchiamo di rintracciare Kemmerich; è coricato in una sala e ci riceve con una fioca espressione di gioia e di impotente agitazione. Mentre era svenuto, gli hanno rubato l'orologio. Müller scuote la testa: «Te l'ho sempre detto, un orologio di quel valore non si porta addosso».
Müller è un po' balordo, e vuol sempre avere ragione. Altrimenti starebbe zitto, poiché si vede bene che Kemmerich non uscirà più vivo da questa sala. E dunque, che trovi o no il suo orologio, che cosa importa? Tutt'al più si potrà mandarlo, dopo, alla famiglia. « Come va, Cecco? » domanda Kropp. Kemmerich reclina il capo: «Così, così ma mi duole maledettamente il piede». Guardiamo la sua coperta. Ha la gamba sotto un archetto di ferro, e sopra si stende greve la coltre. Do una pedata di nascosto a Múller, perché sarebbe capace di dire a Kemmerich ciò che gli infermieri fuori ci hanno raccontato: che il piede non c'è più, perché la gamba è amputata.
Ha un brutto aspetto, giallo e livido; sul viso si profilano già le strane linee che conosciamo tanto bene per averle osservate centinaia di volte. Non sono nemmeno linee, ma piuttosto segni. Sotto la pelle la vita non pulsa più, respinta fino ai margini del corpo; la morte si fa strada dall'interno, e domina già gli occhi. Eccolo là, il nostro compagno Kemmerich, che poc'anzi cucinava con noi carne di cavallo e gironzolava per le trincee; è ancora lui, eppure non è già più lui, la sua figura si è sfumata, è diventata incerta come una lastra su cui si siano prese due vedute. Persino la sua voce suona spenta come cenere. […]
«Ora te n’andrai a casa» dice Kropp: «Per la licenza avresti dovuto aspettare ancora tre o quattro mesi». Kemmerich fa cenno di sì, col capo. Non posso guardare le sue mani, sembrano di cera. Sotto le unghie lo sporco della trincea prende una tinta nero-bluastra, come un veleno. Mi viene in mente che queste unghie continueranno a crescere come spettrali fungosità sotterranee, un pezzo ancora dopo che Kemmerich avrà cessato di respirare. Vedo la cosa come se l'avessi davanti agli occhi: le unghie si torcono a guisa di cavaturaccioli, e crescono e crescono, e con esse i capelli del cranio putrefatto, come l'erba su buona terra.
Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale

Nel brano seguente, tratto ancora da Niente di nuovo sul fronte occidentale, si evidenzia come la presenza di gravi nevrosi tra i soldati (malattie assai diffuse che spesso non venivano diagnosticate né curate, considerate alla stregua di simulazioni) determinavano comportamenti pericolosi e irresponsabili in battaglia:

Da un pezzo le nostre trincee sono distrutte, ed abbiamo il così detto fronte elastico, il che torna a dire che non facciamo più la guerra di posizione. Quando attacco e contrattacco sono passati, rimane una linea frammentaria e una lotta accanita di buca in buca. La prima linea è rotta e qua e là si sono fissati dei nuclei, dei nidi aggrappati al terreno, dai quali si irradia la lotta. Siamo in una di queste buche, sul nostro fianco abbiamo degli inglesi, che spiegano la loro ala e ci prendono alle spalle. Siamo accerchiati: è difficile arrendersi, nebbia e fumo vanno e vengono sopra di noi, nessuno capirebbe che vogliamo capitolare; e forse non lo vogliamo neppure; in simili momenti non si sa noi stessi quello che si vuole. Sentiamo avvicinarsi le esplosioni delle bombe a mano. La nostra mitragliatrice spazza il semicerchio che ci sta di fronte. L'acqua di raffreddamento svapora tutta, facciamo girare rapídamente le cassette, ciascuno vi piscia dentro, e così abbiamo l'acqua necessaria per continuare il fuoco. Ma dietro di noi gli scoppi si avvicinano, fra pochi minuti saremo perduti.
Ma ecco una seconda mitraglíatrice entra furiosamente in azione, vicinissima a noi. È piazzata nella buca accanto; Berger ve l'ha portata; ed ora parte un contrattacco dalle nostre spalle, che ci disimpegna e ci ridà il collegamento coi nostri. Poco dopo, mentre ci troviamo in posizione relativamente coperta, uno dei portarancio racconta che a duecento passi di lì giace ferito un cane militare.
« Dove? » interroga Berger.
L'altro gli descrive il posto. Berger vuol partire per riportare la bestia o per finirla. Sei mesi prima non se ne sarebbe curato, sarebbe stato ragionevole. Noi cerchiamo di trattenerlo. Ma quando se ne va sul serio non possiamo che dirgli: « Sei pazzo! »
e lasciarlo andare; perché questi attacchi di delirio di trincea diventano pericolosi, quando non si è pronti a gettar l'uomo per terra e a tenerlo fermo. E Berger è alto un metro e ottanta, ed è l'uomo più robusto della compagnia. È proprio impazzito, perché ha da attraversare la cortina di fuoco: ma quel lampo di follia, che a un dato punto ci attende tutti, lo ha investito e ne fa un ossesso. Di altri avviene che comincino a strepitare o vogliano correre via; ci fu uno, una volta, che si sforzava a tutt'uomo, con le mani, coi piedi, coi denti, di seppellirsi entro terra.
Naturalmente in queste c
ose la simulazione è all'ordine del giorno, ma già la simulazione è, a guardar bene, un sintomo. Berger, che voleva salvare il cane, è riportato indietro con una ferita al bacino; di più, uno degli uomini che lo riportano si busca una pallottola nel polpaccio.
Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale

Lo sguardo verso i compagni di Henry Barbusse, arruolatosi volontario in fanteria all'età di 41 anni, è sempre empatico, carico di pathos e tenerezza. Nella scena seguente, tratta dal romanzo Il fuoco, viene tratteggiata con viva commozione la figura di un vecchio soldato ferito in battaglia, destinato a morire sul campo in attesa di soccorso medico. Una scena dalla forte valenza pacifista, lontanissima dalle immagini olografiche dei feriti diffuse dalla propaganda.

Qualcuno mi chiama dall'altro lato del camminamento: è un uomo seduto per terra, appoggiato ad un paletto. 
È Papà Ramure. Attraverso il pastrano e la giubba sbottonata si vedono le bende che gli fasciano il petto.
«Gli infermieri sono venuti a medicarmi», mi dice con voce cavernosa, flebile e ansimante. «Ma non possono portarmi via di qui prima di sera. Però so benissimo che sto per morire, creperò da un momento all'altro». Scuote la testa e mi dice: «Resta un po' qui».
Si intenerisce. Delle lacrime gli colano dagli occhi. Mi tende la mano e tiene stretta la mia. Vorrebbe parlarmi a lungo, come per confessarsi.
«Ero un uomo onesto, prima della guerra», mi dice tra le lacrime. «Lavoravo da mattina a sera per mantenere i miei. E poi sono venuto qui ad ammazzare i crucchi. E adesso mi hanno ucciso... Ascoltami, ascoltami, ascoltami, non te ne andare, ascoltami...»«Devo portare via Joseph, che non ce la fa più. Dopo, ritorno».
Ramure alza sul ferito i suoi occhi bagnati di pianto: «Non solo è vivo, ma è anche ferito! Scampato alla morte! Ah, ci sono delle donne e dei bambini fortunati. E be', portalo via, e ritorna... spero di esserci ancora...».
Henry Barbusse, Il fuoco

Chiudiamo questo intervento riportando due racconti di episodi simili, che assumono però significati del tutto contrapposti. Il primo è di mano di un soldato che avrebbe avuto un notevole ruolo nella storia d'Italia degli anni a venire. Il suo resoconto del ferimento e della conseguente morte di un fante è strumentale alla volontà di mostrare il valore del "soldato italico". Il brano è tratto dal volume, Il mio diario di guerra (1915-1917) di Benito Mussolini.

Le solite dodici ore di guardia alla trincea. [...] La neve è ancora rossa di sangue. [...] Il maggiore Tentori mi racconta [...] la fine eroica di un caporal maggiore che, colpito al ventre, è morto dicendo: «Mi za me moro, ma moro contento per l'Italia! Viva l'Italia!»
Nelle parole del maggiore - un uomo alto, dal portamento nobile e marziale - vibra ancora un intenso affetto per i caduti.
Benito Mussolini, Il mio diario di guerra

Ed ecco come un'analoga vicenda tragica  viene riferita da Carlo Salsa, tenente di fanteria, classe 1893, che nel suo libro di memorie Trincee (pubblicato nel 1924) riporta - non senza ironia - l'annuncio compiaciuto di un ufficiale della morte "eroica" di un soldato. Ed è interessante notare come tale erronea lettura della situazione avvenga, in questo caso, senza alcuna volontà manipolatrice, per quello che appare assieme un banale equivoco e un'esplicita dimostrazione dell'ambiguità intrinseca alla guerra:

Giunge un altro ferito, portato a braccia, che si lamenta con una cantilena mussulmana e dondola la testa senza tregua, tentando di tratto in tratto di divincolarsi con dei sussulti improvvisi. È stato raggiunto poco fa, mentre stava rientrando, da una scheggia frastagliata come un pezzo di carbone che gli ha sfondato la spalla. 
Lo faccio posare per terra, in attesa che Sangiorgi giunga con la sua borsa di sanità: in breve, il posto dove è collocato si trasforma in una pozzanghera di sangue. Improvvisamente il ferito si leva sui gomiti faticando e urla: 
«Se trovo chi grida ancora: “Viva la guerra!”»
Un tracollo lo ributta giù, sui suoi stracci inzuppati. 
«Ah, sì, viva la guerra!» ansa, con gli occhi inferociti di una bestia che tenti invano di riavventarsi. 
Giunge Sangiorgi di corsa e solleva il ferito, cercando di applicare le bende su cui sbocciano i fiori istantanei del sangue. 
«Viva la guerra!»
 Delira: sulla sua agonia, queste parole sono rimaste con la fissità delle frasi stolte degli allucinati, con la desolazione di un ultimo grido di naufragio. 
Il tenente colonnello sbuca dalla trincea e s’accosta. Osserva il ferito puntando le mani sulle ginocchia.
«Viva la guerra!» grida ancora il morente. Poi d’un colpo s’accascia e resta lì di schianto. 
«Morto!» borbotta Sangiorgi dopo un istante di ascoltazione. 
Il tenente colonnello si inalbera e dice: 
«È morto da eroe, gridando “Viva la guerra!”»

Carlo Salsa, Trincee




Dario Malini