L'epica dei feriti nelle opere narrative della Grande Guerra

Opera siglata MH, disegno, Parigi, 1915
(
sul retro è posta la scritta: Ecole Normale Supérieure
Hopital auxiliaire n° 103, rue d'Ulm
)
L'eroicizzazione del ferito di guerra nasce da lontano: come non ricordare, ad esempio, la celebratissima ferita alla gamba di Garibaldi? Ma si trattava, all'epoca del Risorgimento, dell'eroe, dell'individuo eccezionale. Il ferito celebrato negli anni della Grande Guerra è invece spesso un "eroe per caso": un uomo comune, parte di una massa anonima di soldati, che assurge alla "gloria del dolore" mentre sta compiendo semplicemente il proprio quotidiano dovere. Così, nel corso della Grande Guerra, la retorica del "corpo offerto alla patria" - corpo violato e assieme glorificato - acquisisce accezioni e simbologie del tutto inedite, in una esibizione spesso compiaciuta di un crescendo di orrori, per cui l'offerta del corpo martoriato è tanto più gradita e memorabile quanto più esso sia giovane, bello, ardimentoso. 

Nelle opere narrative di quegli anni, questo tema scottante assume differenti valenze, talvolta divenendo occasione di celebrazione del compagno ferito, talaltra mostrando invece la sterilità di un tale sacrificio individuale. Qui di seguito verranno proposti una scelta di brani di particolare spessore, esemplificativi di alcuni dei diversi approcci alla questione.

Cominciamo sfogliando Notturno di Gabriele d'Annunzio, scritto - secondo una leggenda diffusa dallo stesso scrittore – durante la convalescenza seguita al grave incidente aereo del gennaio del 1916, che lo costrinse lungamente a letto al buio. Il testo è uscito in una prima stesura nel 1916, per trovare forma definitiva alla fine del 1921.
Se è vero che anche in questo libro d’Annunzio non si sottrae dall'alimentare il proprio inamovibile culto personale, senza dimenticare di mettervi una buona dose di superomismo, vi si nota però un sotterraneo disagio, qualcosa come un ripensamento, una segreta incrinatura di antiche certezze. Cosa che introduce nel testo una profonda riflessione formale sulla scrittura, attuatasi anzitutto in una prosa fluida, sommamente lirica e frammentaria che non può non far pensare ai risultati ottenuti negli anni precedenti dalle avanguardie italiane, sino ad allora lontanissime dal mondo creativo del Vate. Conversione avvenuta, è giusto dirlo, in ritardo e in controtendenza rispetto al momento storico, quando molti giovani intellettuali italiani, scontrandosi con la realtà bruta della modernità e della guerra, stavano invece avviando quel ripensamento, quel "ritorno all'ordine", che riporterà la prosa in primo piano ed in particolare la forma negletta del romanzo. In ogni caso, al di là delle novità stilistiche, colui che viene glorificato in queste pagine non è il soldato comune ma - ancora - l'eroe, l'individuo eccezionale, il «poeta sacrificato», il predestinato. Ecco come lo scrittore rivive poeticamente, immobilizzato in una buia stanza d'ospedale, il momento del suo ferimento:

Un angelo o un demone della notte soffia su l'incendio chiuso del mio occhio perduto.

Le faville innumerevoli sprizzano nel vento.
Ho il capo arrovesciato indietro, ho il capo abbandonato, penzoloni nel vuoto.
Non sento più il guanciale, non sento più il letto.
Odo un rombo confuso, odo il fragore del volo, odo il crepitio del combattimento.
Una mano pietosa e rude m'ha discostato, m'ha sospinto. Il mio capo è forato: penzola nel vuoto, dal bordo della carlinga che vibra.
L'ombra dell'ala destra m'è sopra: l'astro arioso dell'elica mi corona.
Non è più fuoco, ma sangue che sprizza. 
Non più faville ma stille. Il pilota eroico riconduce alla patria il poeta sacrificato.
O gloria immensa!
Qual pugno divino o umano gittò ai solchi della terra una semenza più augusta?
Nella rapidità guerriera il sangue inesausto si sparpaglia come il grano ventilato.
Ogni fiotto si divide in miriadi,come la polvere della cascata scrosciante ove si crea l'arcobaleno. Non cola ma vola, non cade ma s'alza.
Al paragone di questo aspersorio sublime, che è mai il teschio d'Orfeo fluttuante sopra la lira?
Il nuovo mito è il più bello.
Guardo il mio viso trasfigurato nei secoli prossimi della grandezza.
L'anima non fugge ma è tuttora appresa alla ferita come alla face lo splendore che nella raffica si spicca e si rappicca, cessa e si riattiva, si piega e si risolleva, non tenuto se non da un legame invisibile che la volontà di ardere rende più forte della tempesta.
Gabriele d'Annunzio, Notturno

Al brano precedente contrapponiamo la descrizione di un'azione di guerra tratta da Kobilek - Giornale di battaglia di Ardengo Soffici, uno dei più affermati artisti (pittore e scrittore) d'avanguardia, che stava in quegli anni ritornando ad un tipo di narrazione non lirica. Qui il racconto del ferimento di un compagno d'armi, pur non comprendendo alcuna critica antimilitarista, si serve di una prosa che rifugge ogni artificio, senza alcuna enfasi né volontà di celebrazione:

Una scarica di proiettili, provenienti insieme dalla mitragliatrice di fronte e da quelle ai lati, s'incrociò su di noi come una rete di metallo infuocato. Dovemmo quasi entrare sotterra per salvarci, ma qualcuno fu ferito.
Quando potei rialzar la testa vidi infatti, un poco più basso di me, il corpo d'un uomo che sussultava come in agonia. Attraverso un buco fondo nell'elmetto, traversato da una pallottola come fosse stato di cartone, vedevo il sangue rosso palpitare sgorgando dal cervello, mentre altro sangue colava giù da un occhio del disgraziato.
Urlai ai portaferiti di condur subito quel moribondo al posto di medicamento in fondo alla valle. I portaferiti accorsero infatti e lo trascinarono via.

Ho poi saputo che quel soldato non era morto, non solo, ma che «stava benino!»

Ardengo Soffici, Kobilek

Assai più straziante e malinconica è la voce del soldato tedesco Erich Maria Remarque. Nella prosa seguente, tratta dal suo Niente di nuovo sul fronte occidentale, libro uscito nel 1929, il racconto dell'incontro tra i giovani fanti protagonisti del testo e un compagno mortalmente ferito, ricoverato in un ospedale militare, rende con grande efficacia poetica il distacco emotivo indotto irrimediabilmente dalla vita di trincea. Il ferito non assurge ad eroe nemmeno per i compagni, mostrando invece di essere null'altro che una vittima recalcitrante e inconsapevole della macchina della guerra, che nessuno può (o ha la possibilità di) piangere o commiserare. 

All'ospedale da campo c'è gran da fare. Puzza, come sempre, di creolina, di pus e di sudore. La vita di baraccamento abitua a tante cose, ma qui è facile che uno si senta venir meno. Cerchiamo di rintracciare Kemmerich; è coricato in una sala e ci riceve con una fioca espressione di gioia e di impotente agitazione. Mentre era svenuto, gli hanno rubato l'orologio. Müller scuote la testa: «Te l'ho sempre detto, un orologio di quel valore non si porta addosso».
Müller è un po' balordo, e vuol sempre avere ragione. Altrimenti starebbe zitto, poiché si vede bene che Kemmerich non uscirà più vivo da questa sala. E dunque, che trovi o no il suo orologio, che cosa importa? Tutt'al più si potrà mandarlo, dopo, alla famiglia. « Come va, Cecco? » domanda Kropp. Kemmerich reclina il capo: «Così, così ma mi duole maledettamente il piede». Guardiamo la sua coperta. Ha la gamba sotto un archetto di ferro, e sopra si stende greve la coltre. Do una pedata di nascosto a Múller, perché sarebbe capace di dire a Kemmerich ciò che gli infermieri fuori ci hanno raccontato: che il piede non c'è più, perché la gamba è amputata.
Ha un brutto aspetto, giallo e livido; sul viso si profilano già le strane linee che conosciamo tanto bene per averle osservate centinaia di volte. Non sono nemmeno linee, ma piuttosto segni. Sotto la pelle la vita non pulsa più, respinta fino ai margini del corpo; la morte si fa strada dall'interno, e domina già gli occhi. Eccolo là, il nostro compagno Kemmerich, che poc'anzi cucinava con noi carne di cavallo e gironzolava per le trincee; è ancora lui, eppure non è già più lui, la sua figura si è sfumata, è diventata incerta come una lastra su cui si siano prese due vedute. Persino la sua voce suona spenta come cenere. […]
«Ora te n’andrai a casa» dice Kropp: «Per la licenza avresti dovuto aspettare ancora tre o quattro mesi». Kemmerich fa cenno di sì, col capo. Non posso guardare le sue mani, sembrano di cera. Sotto le unghie lo sporco della trincea prende una tinta nero-bluastra, come un veleno. Mi viene in mente che queste unghie continueranno a crescere come spettrali fungosità sotterranee, un pezzo ancora dopo che Kemmerich avrà cessato di respirare. Vedo la cosa come se l'avessi davanti agli occhi: le unghie si torcono a guisa di cavaturaccioli, e crescono e crescono, e con esse i capelli del cranio putrefatto, come l'erba su buona terra.
Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale

Nel brano seguente, tratto ancora da Niente di nuovo sul fronte occidentale, si evidenzia come la presenza di gravi nevrosi tra i soldati (malattie assai diffuse che spesso non venivano diagnosticate né curate, considerate alla stregua di simulazioni) determinavano comportamenti pericolosi e irresponsabili in battaglia:

Da un pezzo le nostre trincee sono distrutte, ed abbiamo il così detto fronte elastico, il che torna a dire che non facciamo più la guerra di posizione. Quando attacco e contrattacco sono passati, rimane una linea frammentaria e una lotta accanita di buca in buca. La prima linea è rotta e qua e là si sono fissati dei nuclei, dei nidi aggrappati al terreno, dai quali si irradia la lotta. Siamo in una di queste buche, sul nostro fianco abbiamo degli inglesi, che spiegano la loro ala e ci prendono alle spalle. Siamo accerchiati: è difficile arrendersi, nebbia e fumo vanno e vengono sopra di noi, nessuno capirebbe che vogliamo capitolare; e forse non lo vogliamo neppure; in simili momenti non si sa noi stessi quello che si vuole. Sentiamo avvicinarsi le esplosioni delle bombe a mano. La nostra mitragliatrice spazza il semicerchio che ci sta di fronte. L'acqua di raffreddamento svapora tutta, facciamo girare rapídamente le cassette, ciascuno vi piscia dentro, e così abbiamo l'acqua necessaria per continuare il fuoco. Ma dietro di noi gli scoppi si avvicinano, fra pochi minuti saremo perduti.
Ma ecco una seconda mitraglíatrice entra furiosamente in azione, vicinissima a noi. È piazzata nella buca accanto; Berger ve l'ha portata; ed ora parte un contrattacco dalle nostre spalle, che ci disimpegna e ci ridà il collegamento coi nostri. Poco dopo, mentre ci troviamo in posizione relativamente coperta, uno dei portarancio racconta che a duecento passi di lì giace ferito un cane militare.
« Dove? » interroga Berger.
L'altro gli descrive il posto. Berger vuol partire per riportare la bestia o per finirla. Sei mesi prima non se ne sarebbe curato, sarebbe stato ragionevole. Noi cerchiamo di trattenerlo. Ma quando se ne va sul serio non possiamo che dirgli: « Sei pazzo! »
e lasciarlo andare; perché questi attacchi di delirio di trincea diventano pericolosi, quando non si è pronti a gettar l'uomo per terra e a tenerlo fermo. E Berger è alto un metro e ottanta, ed è l'uomo più robusto della compagnia. È proprio impazzito, perché ha da attraversare la cortina di fuoco: ma quel lampo di follia, che a un dato punto ci attende tutti, lo ha investito e ne fa un ossesso. Di altri avviene che comincino a strepitare o vogliano correre via; ci fu uno, una volta, che si sforzava a tutt'uomo, con le mani, coi piedi, coi denti, di seppellirsi entro terra.
Naturalmente in queste c
ose la simulazione è all'ordine del giorno, ma già la simulazione è, a guardar bene, un sintomo. Berger, che voleva salvare il cane, è riportato indietro con una ferita al bacino; di più, uno degli uomini che lo riportano si busca una pallottola nel polpaccio.
Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale

Lo sguardo verso i compagni di Henry Barbusse, arruolatosi volontario in fanteria all'età di 41 anni, è sempre empatico, carico di pathos e tenerezza. Nella scena seguente, tratta dal romanzo Il fuoco, viene tratteggiata con viva commozione la figura di un vecchio soldato ferito in battaglia, destinato a morire sul campo in attesa di soccorso medico. Una scena dalla forte valenza pacifista, lontanissima dalle immagini olografiche dei feriti diffuse dalla propaganda.

Qualcuno mi chiama dall'altro lato del camminamento: è un uomo seduto per terra, appoggiato ad un paletto. 
È Papà Ramure. Attraverso il pastrano e la giubba sbottonata si vedono le bende che gli fasciano il petto.
«Gli infermieri sono venuti a medicarmi», mi dice con voce cavernosa, flebile e ansimante. «Ma non possono portarmi via di qui prima di sera. Però so benissimo che sto per morire, creperò da un momento all'altro». Scuote la testa e mi dice: «Resta un po' qui».
Si intenerisce. Delle lacrime gli colano dagli occhi. Mi tende la mano e tiene stretta la mia. Vorrebbe parlarmi a lungo, come per confessarsi.
«Ero un uomo onesto, prima della guerra», mi dice tra le lacrime. «Lavoravo da mattina a sera per mantenere i miei. E poi sono venuto qui ad ammazzare i crucchi. E adesso mi hanno ucciso... Ascoltami, ascoltami, ascoltami, non te ne andare, ascoltami...»«Devo portare via Joseph, che non ce la fa più. Dopo, ritorno».
Ramure alza sul ferito i suoi occhi bagnati di pianto: «Non solo è vivo, ma è anche ferito! Scampato alla morte! Ah, ci sono delle donne e dei bambini fortunati. E be', portalo via, e ritorna... spero di esserci ancora...».
Henry Barbusse, Il fuoco

Chiudiamo questo intervento riportando due racconti di episodi simili, che assumono però significati del tutto contrapposti. Il primo è di mano di un soldato che avrebbe avuto un notevole ruolo nella storia d'Italia degli anni a venire. Il suo resoconto del ferimento e della conseguente morte di un fante è strumentale alla volontà di mostrare il valore del "soldato italico". Il brano è tratto dal volume, Il mio diario di guerra (1915-1917) di Benito Mussolini.

Le solite dodici ore di guardia alla trincea. [...] La neve è ancora rossa di sangue. [...] Il maggiore Tentori mi racconta [...] la fine eroica di un caporal maggiore che, colpito al ventre, è morto dicendo: «Mi za me moro, ma moro contento per l'Italia! Viva l'Italia!»
Nelle parole del maggiore - un uomo alto, dal portamento nobile e marziale - vibra ancora un intenso affetto per i caduti.
Benito Mussolini, Il mio diario di guerra

Ed ecco come un'analoga vicenda tragica  viene riferita da Carlo Salsa, tenente di fanteria, classe 1893, che nel suo libro di memorie Trincee (pubblicato nel 1924) riporta - non senza ironia - l'annuncio compiaciuto di un ufficiale della morte "eroica" di un soldato. Ed è interessante notare come tale erronea lettura della situazione avvenga, in questo caso, senza alcuna volontà manipolatrice, per quello che appare assieme un banale equivoco e un'esplicita dimostrazione dell'ambiguità intrinseca alla guerra:

Giunge un altro ferito, portato a braccia, che si lamenta con una cantilena mussulmana e dondola la testa senza tregua, tentando di tratto in tratto di divincolarsi con dei sussulti improvvisi. È stato raggiunto poco fa, mentre stava rientrando, da una scheggia frastagliata come un pezzo di carbone che gli ha sfondato la spalla. 
Lo faccio posare per terra, in attesa che Sangiorgi giunga con la sua borsa di sanità: in breve, il posto dove è collocato si trasforma in una pozzanghera di sangue. Improvvisamente il ferito si leva sui gomiti faticando e urla: 
«Se trovo chi grida ancora: “Viva la guerra!”»
Un tracollo lo ributta giù, sui suoi stracci inzuppati. 
«Ah, sì, viva la guerra!» ansa, con gli occhi inferociti di una bestia che tenti invano di riavventarsi. 
Giunge Sangiorgi di corsa e solleva il ferito, cercando di applicare le bende su cui sbocciano i fiori istantanei del sangue. 
«Viva la guerra!»
 Delira: sulla sua agonia, queste parole sono rimaste con la fissità delle frasi stolte degli allucinati, con la desolazione di un ultimo grido di naufragio. 
Il tenente colonnello sbuca dalla trincea e s’accosta. Osserva il ferito puntando le mani sulle ginocchia.
«Viva la guerra!» grida ancora il morente. Poi d’un colpo s’accascia e resta lì di schianto. 
«Morto!» borbotta Sangiorgi dopo un istante di ascoltazione. 
Il tenente colonnello si inalbera e dice: 
«È morto da eroe, gridando “Viva la guerra!”»

Carlo Salsa, Trincee




Dario Malini

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