"Verginità" di Fausto Maria Martini (1920)

Nel romanzo Verginità, pubblicato nel 1920, Fausto Maria Martini riferisce la sua personale vicenda di "rinascita" dopo il grave ferimento alla testa subito in guerra. Un libro singolare, difficile da recensire come da leggere perché del tutto fuori dai canoni del genere. Non vi si cerchi un chiaro giudizio sulla guerra, che viene invece raccontata e decodificata solo indirettamente, attraverso il dato empirico delle sensazioni che sorgono dal corpo offeso del soldato. Nell'ospedale militare in cui il romanzo è in buona parte ambientato, le terribili menomazioni dei combattenti non trovano alcuna giustificazione: non l'amore di patria, non l'eroismo, non altri confortanti ideali. L'unico valore positivo è invece la nuova visione del mondo offerta inopinatamente ai convalescenti dal lento ritornare della vita: «Lo stato d'animo nel quale il redivivo meravigliato considerò, allora, il mondo che gli si apriva dinanzi come in una nuovissima alba miracolosa e del quale questo libro è la testimonianza diretta», «Un primo compenso: tornare dalla morte e rivedere il mondo con occhi di fanciullo» (nota 1).
Riguardo alle scelte formali che presiedono la stesura di questo scritto, riportiamo ancora alcune riflessioni di Fausto Maria Martini: «Gli è che il libro che rivede oggi la luce fu, quando uscì, un grido, non una composizione letteraria: un grido [...] dunque, dalla prima all'ultima parola; ed io so quanto qua e là quel grido sia disordinato e scomposto; e come queste pagine giustificano l'accusa che mi si fa d'essere uno scrittore il quale corre smanioso con la sua penna dal cuore alla carta (mai immagine di critico fu più esatta di questa, se poni mente al tono del libro) e nella febbre di vuotare se stesso e di rivelarsi a pieno, poco o niente si curi di distaccare da sé il suo pensiero e il suo sentimento perché l'uno e l'altro spazino in quella gelida estraneità nella quale, secondo i più, è chiuso il prodigio dell'arte completamente posseduta» (nota 1)
Ma il "grido" di cui parla l'autore non deve intendersi come atto liberatorio, spontaneo e istintivo, privo di ogni articolata struttura; piuttosto come contenuto - come folgorazione - da comunicare con urgenza a una società che non ha una chiara consapevolezza di ciò che ha attraversato. E non è dunque affatto casuale che il libro adotti - al posto della forma del diario, comune per questo tipo di narrazioni - quella, nobile ma allora desueta, del romanzo. Romanzo che, come cercheremo di chiarire nel prosieguo di questo intervento, oltre ad avvalersi di una lingua sorvegliatissima, è costruito attraverso una struttura narrativa attentamente pianificata.

Verginità prende l'avvio nell'ospedale militare dove il giovane protagonista (Paolo, trasparente alter ego dell'autore) è ricoverato, dopo essere stato gravemente ferito alla testa. Il fluire instancabile dei pensieri del moribondo  - tradotti in una prosa lirica e sensibilissima - ci fanno partecipi, in presa diretta, delle sue sensazioni. Ecco come s'apre il primo capitolo del libro:


Ho vissuto l'attimo della morte e non posso dire una parola su la morte. Sono stato ghermito dalla mano che straziò il laberinto molle del cervello, sono stato la preda designata, e quasi interamente posseduta; ma la mano che mi ha lasciato sfuggire mi ha suggellato la bocca. Devo tacere su la morte: non posso dire il suo volto. Eppure con questo mio cervello che, sebbene dilaniato, ancora pensa e rammenta, io cerco di rivederlo, quel volto. Cerco di raccogliere quei ricordi precisi i quali facciano rivivere l'attimo che non può essere detto da voce umana. M'illudo: ché poi, appena io tenti di esprimere questo mio assurdo possesso con le parole di cui dispongo, devo riconoscere che i ricordi che ho raccolto, appartengono ancora e soltanto alla vita. Sono ancora e soltanto vita: vita sul limitare dell'ombra, già bagnata dall'ombra; ma vita. M'addormento, nel mio ricordare di oggi, quando il sangue che sgorga dalla testa trafitta mi sgocciola giù lungo la guancia e il collo fino sulla tela della lettiga e sulla mano del portatore più vicino ai miei capelli: mi sveglio, nel mio ricordare di oggi, quando il siero che mi hanno versato nelle vene perché vi prenda il posto del sangue comincia a restituire al polso il suo ritmo, e il tepore della vita ritorna nelle palpebre sbiancate, che la mano d'un prete alza a tratti per spiare sotto di loro la luce delle pupille.


Quindi Paolo rivive i momenti immediatamente successivi al suo ferimento:


Poi, la neve... Nevica sulla barella. Due, tre volte il prete che m'accompagna ha distolto la mia mano dalla ciocca insanguinata e l'ha ricondotta lungo il fianco. Ma la mano s'agita ancora e cerca di raccogliere sulle coperte da campo che mi seppelliscono fin alla gola la neve che cade e portarla alla bocca.
Portare un po' di neve alla bocca!
È questo il primo ricordo preciso il quale segue l'attimo che non si può ridire. [...]
«Un sorso d'acqua, un sorso che beva può ucciderlo!» ha detto il medico.
il prete vigila; e io sento sul braccio desto smanioso che a tratti sguscia di sotto le coperte per ghermire una, almeno una, delle farfalle di neve che si posano sulla lana e non si sciolgono subito perché le mantiene vive la peluria della stoffa, sento la morsa delle sue dita... Ma spasimo di sete, ma muoio di sete; e la mano si agita sotto la coltre. [...]
Tutte le vene mi chiedono da bere, ché si sono vuotate di sangue e ogni parete della vena è come una bocca dischiusa a suggere l'altra; e tutte le sento, le mie vene vuotate, attorcigliarsi in questo spasimo come cordame intriso di fuoco. [...]
Datemi da bere! Un braccio è legato, un altro è morto! E io agito tra il fasciame che mi costringe sulla lettiga il mio corpo di moribondo: lo sollevo verso i fiocchi che cadono giù. Ma c'è un inferno tra il mio corpo esagitato e quell'elemosina di neve: un inferno che non posso varcare!

Infine il soldato giunge all'ospedale dove gli vengono praticate le prime cure:

I medici pensano che morrò fra poche ore. La coscienza è quasi interamente sommersa. Affiorano a tratti sensazioni e spasimi che non sono più pensiero: sono ancora e appena riflessi dell'angoscia della mia sete. [...] Sono ormai più di là dal limite che di qua: più nella morte che nella vita. [...] Poiché devo morire da un'ora all'altra non mi hanno messo nella corsia degli altri feriti, ma in una stanzetta accanto alla corsia. La porta è socchiusa: e io vedo dallo spiraglio una fila di letti separati fra loro da una pausa d'ombra; quell'ombra si riempie a quando a quando d'una figura bianca che s'avvicina a ogni letto a vigilare la fiamma di vita che è in ognuno di quei rifugi: che non si spenga.[...]
È passata tutta una notte e ancora non m'hanno lasciato bere un cucchiaio d'acqua. Solo, il medico a quando a quando mi bagna con una pezza umida gli occhi e la bocca, ma sfiorando così l'epidermide delle labbra sbucciate dall'arsura che, per quanto io protenda nella forma smaniosa del bacio la bocca, non posso suggere le gocce del lino bagnato. [...] 
Tre giorni e tre notti ho dormito questo sonno che è quasi la morte. Poi una mattina apro gli occhi e mi sveglio... Mi sveglio come un bambino trentenne! Mi sveglio come il primo uomo.

Di qui in poi inizia la lenta e dolorosa guarigione di Paolo, che sarà parziale lasciando immobilizzato un braccio e claudicante una gamba. Così seguiamo il soldato tornare lentamente e faticosamente alla vita, lungo un percorso segnato da varie tappe: la riscoperta della luce e del mondo dopo il buio... i primi passi... sino ai primi sussulti di desiderio, ispirati da Elena, una giovane visitatrice che poi ricomparirà in funzione di infermiera. Situazioni che, nella narrazione, vengono cadenzate da capitoli riguardanti le prime esperienze amorose di Paolo adolescente, ponendo «in raffronto questo fanciullo di trent'anni, rinato dalla guerra, col fanciullo autentico di un tempo» (nota 2). Di seguito, trascriviamo uno di questi passi estremamente lirici, che mostra Paolo adolescente e Leonia passeggiare abbracciati in una Roma languida e crepuscolare (nota 3):

È sera quando usciamo dalla chiesa. Nella strada, già tutta un brivido notturno, si è perduto l’ultimo cicaleccio dei ciechi. Si è sentita chiudere la porta dell’ospizio sull'ultimo di loro: come la pietra di una tomba. Ora il silenzio è inviolato. [...] In silenzio Leonia e io scendiamo adesso verso la città. Piazza dei Cerchi s’illumina proprio ora; e se io guardo di quassù, a ogni lume che si accende sulla piazza, mi pare che la lama rossa d’un coltello squarci il velluto notturno di cui già s’erano vestiti i muri delle case e che la sùbita luce rivela nell’attimo stesso che lo lascia cadere giù a terra. [...] Ho paura…. paura…. paura…. Ma in questa paura è tanta infinita delizia! La femmina lo sente questo mio languore. Sente altresì che ella può perdermi, perché sto per diventare non più una cosa sua, del suo desiderio, ma una cosa in dominio di questa febbre umana che agita e gonfia l’ombra della strada nascosta…. E allora, prendendomi sotto l’ascella, la femmina che ha sentito quasi mancare il fanciullo, lo sorregge, lo porta come un suo segno di conquista in mezzo agli accoppiamenti eguali e difformi che si allacciano e si snodano incessantemente attorno a noi....


Ugualmente sensuale, della primigenia sensualità degli amori giovanili, il rapporto che si delinea via via tra Paolo convalescente - fanciullo di trent'anni - e Elena. Un amore che l'esperienza quasi mortale della guerra rende però ambiguo e tormentato:

Ma adesso, Elena, lasciami vivere questo mia spasimo, lascia che io m'impauri di te come di una sùbita luce che appare e abbaglia; che io mi impauri come un fanciullo mentre tu lentamente, senza parlare, dritta accanto al mio letto, spogli il tuo corpo da queste tue vesti che sono come la notte intorno a un convegno di gigli. Lascia che io tremi, Elena! Lasciami in questa mia ansia oscura! Lasciami vivere questo mio necessario tormento. È in quest mio tremore, è in questa mia ansia, è in questa mia sùbita paura tutto l'orgoglio della mia nuova verginità: è uno spasimo che tocca il vertice della gioia. [...] Sei nel mio letto come un'immota profonda ombra di luce: ma io non oso ancora toccarti. Una verità io debbo sapere prima ch'io possa avvicinarmi a te. Elena: chi mi offre, appena uscito dalla morte, questo sfolgorante fiore di vita? Che cosa si chiede alla mia audacia? Ch'io carezzi il tuo corpo con la mia unica mano superstite? Elena, fu anch'essa, questa mia mano che ti cerca, fu anch'essa flaccida come l'altra che non ritroverà mai l'impeto della sua vita. Come posso osare toccarti con le dita che sentono ancora il viscidume dell'ala della morte e agitano ancora ombre intorno alle loro nocche scarne? [...] Se oblioso di essere quello che sono, un detrito della morte, io osassi fare questo, mi parrebbe di scatenare intorno al tuo corpo come un volo di pipistrelli...


Scorriamo ora velocemente le restanti pagine del corposo volume, osservando il "bambino trentenne" riconquistare compiutamente la vita, non senza che i fantasmi dalla guerra si mostrino di tanto in tanto al suo sguardo vergine, sempre in bilico tra orrore e meraviglia. La luce sembra infine prevalere sull'ombra: Paolo lascia l'ospedale, si sposa con Elena e i due vanno a vivere nella casa - pregna di vitali ricordi - dei genitori di Paolo, non lontana da Assisi. Nasce un bambino. Ma le ombre della morte sfiorata tormentano ancora e sempre il nostro. Giungiamo così all'ultimo capitolo del romanzo, intitolato significativamente - e sorprendentemente per una narrazione nata dalla guerra e dal dolore - «Il mondo è fatto d'uomini e di luce». Capitolo che si apre - analogamente al primo - con una tormentata scena di "afasia", riguardante in questo caso la tematica (meta-narrativa) dell'inconcludenza della scrittura e dell'incapacità delle parole di descrivere il reale: dunque, - per lo scrittore - di comunicare la propria esperienza di morte e rinascita:

Da qualche ora sto curvo sulla carta a tormentare questo mio cervello malato. Ho poco più di trent'anni e sembro un vecchio di sessanta. [...] Sto curvo sulla carta e la mia fatica è vana. Non creo che oscure cancellature sulla chiarità del foglio: ogni parola è torpida d'ombra, è stanca del mio sonno ancora, è oscura ancora della mia morte. Somiglio un perfido mago che susciti sortilegi di fumo su un cerchio di neve incorrotta. [...] Ogni parola che cade dalla penna è un'inutile cosa morta che si stende sul foglio di carta come su un lenzuolo funebre. [...] Ogni parola è una vanità che si gloria d'una vita effimera. È impossibile con questo mio cervello trafitto e dubbioso crearla, una parola che ripeta la vita delle cose! [...] Penso: «Non si può beffare la morte quando essa ci abbia tenuti come sua preda. Questo mio tormento di oggi è un nuovo e più profondo richiamo. Io l'ho usurpata, questa vita che vivo, l'ho usurpata; dall'attimo in cui la mano adunca straziò il laberinto molle del cervello. [...] 
Mesi e mesi, lunghi mesi di spasimo, di dubbio, di affannosa riconquista del mondo sbocciano oggi in questa vanità mia senza confine!»

Arriva infine l'alba. E accade qualcosa. Dalla stanza attigua a quella dove Paolo si arrovella, giungono dei rumori: «E dà... e dà... e dà...». Non sono che i vaghi balbettamenti di suo figlio Giorgetto, che Elena accudisce amorevolmente. 

 E dà... e dà... e dà...
Non sono parole, non sono gridi neppure; sono come singhiozzi che si compongono ora in un suono. Io l'ho colto, nel suo formarsi [...]. 
 E dà... e dà... e dà...
Null'altro! È mio figlio! Io vedo sua madre che lo protende ora verso il miracolo della luce. [...] E vedo il piccolo tendere la mano rosata verso quegli splendori che atterriscono suo padre. [...] Mi alzo [...]. Lentamente, trascinando la mia gamba di paralitico, entro nella stanza dov'è Giorgetto con la madre. [...] Il bimbo mi volta le spalle. La sua nudità mette una macchiolina bianca sulla vestaglia rossa di mia moglie. [...] Mi avvicino piano per non sorprendere mio figlio. Giorgetto non si è stancato ancora di tenera la mano protesa verso il cielo:
 E dà... e dà... e dà...
Lo vuole tutto per lui quello sconfinato mare di luce. Chiederlo per lui è come dargli un nome. [...] Io considero mia moglie e la mia creatura in un silenzio stupefatto. Sento che qualcosa di divino sta per compiersi: sento che la mia squallida angoscia sta per essere dissipata da una nuova esperienza di vita. [...] 
Tutta la mia vita forse tendeva verso questo prodigio e io non lo sapevo: sorprendere i primi suoni umani che diventano parole, sorprendere l'impareggiabile canto di un fanciullo che dice - a frammenti di parole più che a parole - la sorpresa dei suoi occhi, della sua bocca, di tutta la sua carne di fronte al miracolo dell'alba. [...]
Guarda il cielo e la gente che passa qui sotto, Giorgio! Un giorno mi racconterai che il mondo è fatto d'uomini e di luce!

E questa epifania finale, che illumina  (a ritroso) un libro edificato tramite un susseguirsi ininterrotto di epifanie (anche quando parla di morte e di orrori), pare possedere il potere di ricostruire la vicenda dell'autore, segnando forse anche un possibile percorso per una società-fenice, disseccata dalla guerra, alla ricerca di una possibilità di rinascita (nota 4). 
Lo sguardo del "bambino trentenne", unito a quello dell'infante vero che egli stesso ha creato, rintraccia infine il senso segreto delle cose: «Il redivivo sentiva (se non proprio sapeva) d'essere uno strumento in altre mani e che - attraverso la sua bocca deformata ancora dal gesto rapace ma incompiuto della morte - questa intendeva parlare alla vita: la morte che quando parla alla vita non la delude»(nota 1).



Dario Malini


Cliccare qui per leggere un breve profilo di Fausto Maria Martini

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Note
1 Dalla Prefazione di Fausto Maria Martini ad una riedizione di Verginità, 1927. 
2 Riviste di lettura, "Profili: Fausto Maria Martini", maggio 1931, articolo siglato "GM"
3 Qui è riportato un più ampio stralcio di questo episodio.
4 Queste ultime pagine del libro, in cui il narratore si pone davanti all'opera da compiere, avendo infine l’illuminazione che gli permette di scriverla, non può non far venire in mente il finale di un capolavoro della letteratura come À la recherche du temps perdu di Marcel Proust, il cui volume conclusivo, però, uscirà solo nel 1927: cosa che la dice lunga sulla attenta e aggiornatissima strutturazione di Verginità, come sull'incomprensione di cui è stato oggetto questo romanzo da parte della critica italiana.

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