Autunno 1916 (VII, VIII e IX battaglia dell'Isonzo)

La cosa più demoralizzante, quello che ti abbatte, non è morire. La cosa peggiore è morire in modo così inutile, per niente. Questo non è morire per la patria: è morire per la stupidità di specifici ordini e per la codardia di specifici ufficiali al comando.
Dalle memorie di un tenente impegnato sul Carso nell'autunno del 1916 (Carlo Salsa) 

Mentre la battaglia di Gorizia era in pieno svolgimento, Cadorna, anziché essere operativo tra i vari comandi, pensava, comodamente seduto alla scrivania del quartier generale di Udine, ad infliggere un colpo decisivo ai “nemici” di Roma: “Chiedo all'alto senno dell' E.V. - scriveva al Presidente del Consiglio -  che abbiano a cessare tutte le missioni governative  in zona di guerra”.  Lo scontro dunque era sempre su due fronti: contro Vienna e contro le istituzioni della Città Eterna. E su quest' ultimo i successi furono decisamente superiori. A Boselli e ai suoi  ministri infatti venne imposta la fine delle visite non autorizzate al fronte. Si trattò dell'ennesima dimostrazione di prevaricazione del potere militare sul potere civile.
Terminata la sesta battaglia Cadorna pensò a liberarsi di due personaggi divenuti, a quel punto, per lui, molto ingombranti: il colonnello Douhet ed il generale Capello. Il primo arrestato e condannato a un anno di galera per aver denigrato il Comando Supremo (aveva sostenuto, in un memoriale consegnato a Bissolati,  che l'assurda tattica cadorniana era vecchia di quasi cinquant'anni e che i ripetuti ed inutili assalti frontali avevano spazzato via i migliori soldati;  il secondo esiliato sull'altopiano di Asiago perché il Capo  era convinto che potesse diventare, di lì a breve, la nuova guida dell'esercito).
D'altronde l'avvicendamento, anche senza motivo, di comandanti già esperti e in perfetta sintonia con la truppa fu un riprovevole metodo dello Stato Maggiore italiano. Un sistema che finì per minare il buon funzionamento dei combattenti i quali in poco tempo potevano subire numerose sostituzioni della loro guida.
La conquista di Gorizia significò il raggiungimento di una delle grandi “mete”  sponsorizzate dall'opinione pubblica. “L'Italia aveva tre obiettivi nazionali come espressione della sua futura grandezza: Gorizia, Trento e Trieste. Gorizia, ridotta a un cumulo di rovine, era stata felicemente conquistata (Fritz Weber -  Dal Monte Nero a Caporetto).             Militarmente tuttavia la vittoria non cambiò per nulla l'equilibrio strategico sull'Isonzo. Il generale Cadorna poteva vantare finalmente un successo ma non poteva dirsi soddisfatto, consapevole che le sue truppe erano entrate in una città ancora minacciata  dai cannoni austriaci. Il nemico era così vicino che lo si poteva sentir parlare.
Si doveva dunque ricominciare daccapo e con un nuovo obiettivo: Trieste la perla dell'Adriatico. E così la Terza armata del duca Amedeo d'Aosta si preparò all'ennesima “spallata”, sinonimo probabilmente coniato in questa circostanza e destinato a guadagnarsi una sinistra notorietà. Cadorna era convinto di cogliere gli austriaci di sorpresa perché ancora frastornati dalla loro prima sconfitta e con un nuovo nemico da combattere: la Romania. Gli imperiali furono dapprima tentati di spostare alcune divisioni verso  la regione della Transilvania ma, per loro fortuna, Boroevic ritenne più utile rafforzare le nuove linee sul Carso e scavare nuove trincee. Questa decisione fu determinante. Gli italiani nel corso delle tre battaglie sull'Isonzo, la VII, l'VIII e la IX si trovarono a sbattere contro quattro linee difensive, ben due in più rispetto a quanto ipotizzava il Comando Supremo. Dopo Gorizia il teatro delle operazioni si spostò oltre il Vallone trasformando ben presto paesi come Oppachiasella, San Martino del Carso, Castagnevizza, Loquizza e altri in veri e propri capolavori di squallore. L'ordine era di travolgere tutto e tutti. Cadorna gettò una vera e propria valanga umana contro le divisioni austro-ungariche. Il generalissimo era  convinto che sarebbe stato impossibile per i difensori uccidere tutti e che i superstiti sarebbero giunti inevitabilmente alle postazioni nemiche.  Ma la realtà fu ben diversa. Si trattò di un suicidio di massa. Le schiere di soldati, che avanzarono spalla a spalla, compatte come blocchi, vennero massacrate dall'artiglieria. Lo sciame di uomini in movimento era talmente fitto che gli ufficiali austriaci “ non avevano quasi bisogno di dirigere il tiro. Non c'era che da caricare e sparare”. E chi riusciva a superare il fuoco di sbarramento non trovava la salvezza, come aveva ripetuto il Comando Supremo, ma era investito dai proiettili delle mitragliatrici, dalle bombe a mano, dai lanciafiamme e dai gas.
Ecco l’eloquente descrizione del territorio fornita da una Relazione Ufficiale Italiana, ennesima prova della scellerata tattica cadorniana: Il Carso, ad oriente del Vallone, accentua le proprie caratteristiche: panorama monotono e quasi privo di punti di riferimento; suolo brullo, pietroso, arido, soltanto qua e là coperto da rade macchie boscose; superficie mossa da numerosissime doline e rotta da profonde buche, intersecate da una fittissima rete di muretti a secco, costruiti per disciplinare le acque di dilavamento e creare piccoli appezzamenti coltivabili, generalmente nel fondo delle doline. In quei muretti gli austriaci trovavano già pronti gli elementi per organizzare rapidamente robuste linee di trinceramenti e per costituire una compartimentazione che, mentre permetteva alla difensiva la più tenace resistenza, spezzava la compagine delle formazioni di attacco, scrollava la coesione tra i reparti, deviava, rallentava, imbrigliava l'impulso dell'attacco. Le doline e le grotte erano altrettanti preziosi ricoveri per le riserve a immediata vicinanza delle prime linee.
Dopo circa un anno e mezzo dalla dichiarazione di guerra i soldati del Bel Paese cominciarono a non credere più alla favola della marcia trionfale. Fritz Weber, tenente di artiglieria dell'esercito austro ungarico, fu testimone della stanchezza e del disappunto che esplose nelle fila italiane: “Vi è un limite a quello che gli uomini possono sopportare senza ribellarsi alla disciplina e agli ordini. E il fante italiano aveva toccato questo limite con la IX e ancora una volta inutile, battaglia dell'Isonzo”. Non c'era nulla di che stupirsi se gli uomini, mandati continuamente all'attacco in imprese disperate, finivano loro stessi con il disperare e scoraggiarsi.     
Le tre battaglie autunnali sull'Isonzo non riuscirono a rappresentare quella continuazione e quello sviluppo che il successo di Gorizia aveva lasciato sperare. Ogni attacco venne interrotto il 4 novembre quando Cadorna si rifiutò di impiegare in prima linea le ultime riserve. Non si rese conto che era vicinissimo allo sfondamento. “La situazione  peggiorava di ora in ora per i difensori – ha scritto Fritz Weber – Una sola speranza infondeva ai comandanti e alle truppe la forza di resistere: che anche il nemico non ne potesse veramente più”.
Cinquantatré giorni di duri scontri e pochi chilometri quadrati di pietra carsica conquistata significarono per gli italiani oltre 10.000 morti, 50.000 feriti e 18.000 dispersi. Nonostante le decine di migliaia  di caduti lo smentissero, il generale Cadorna nei suoi libri di memorie riversò la colpa dell'insuccesso sui fanti, accusati di aver dimostrato uno scarso spirito aggressivo. Furono esattamente gli stessi argomenti che il Capo di Stato Maggiore utilizzò un anno dopo per spiegare la rotta di Caporetto.
Nessun generale austriaco, tedesco, inglese o francese  mai incolpò i propri soldati. Cadorna,  massimo responsabile della condotta di guerra e autore di ogni disposizione repressiva e punitiva nei confronti dei suoi uomini, si rese colpevole di un atto così ignobile da azzerare qualsiasi merito (a dire il vero nel suo caso veramente pochi) fino ad allora acquisito nel corso della sua carriera. 


Giancarlo Romiti


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