La macchina da presa sul campo di battaglia

Per entrare subito in medias res
Fin dall’entrata in guerra, in Europa e poi negli Stati Uniti viene sottolineata l’importanza e il ruolo sociale del cinema come un’«arma» difensiva per il rafforzamento e la mobilitazione ideale del fronte interno. Nel cinema si cercavano, oltre alla finalità di pura riproduzione realistica, funzioni più prettamente emotive, di “immedesimazione”, per rafforzare i vincoli ideali e sentimentali tra i combattenti, i loro familiari e i compatrioti, e favorire il consenso e l'unanime partecipazione allo “sforzo” bellico. La produzione cinematografica degli anni della guerra, di propaganda e non, diviene dunque un’arma e un valore aggiunto a sostegno del morale di milioni di spettatori, militari e civili, sparsi nei continenti e assieme un invito diretto al reclutamento (1).
In particolare, nei film di finzione prodotti in tutti i paesi europei nel periodo immediatamente pre-bellico e nella prima fase della guerra, il cinema viene mobilitato a sostegno delle cause nazionali, nelle diverse forme e generi che già differenziano le varie cinematografie, offrendosi come luogo eletto di celebrazione dell’eroismo individuale e collettivo. Solo successivamente il cinema sarà ammesso nei luoghi delle operazioni militari, ma anche allora eviterà il più possibile – e per tutta la durata della guerra – di offrirsi come testimone diretto e mediatore dell’orrore, della follia, delle stragi e dei massacri di milioni di persone, la maggior parte giovani soldati(2). Alle macchine da presa sarà infatti consentito di accedere al fronte solo molti mesi dopo l’inizio del conflitto e con precise restrizioni, limitando così la “potenza di fuoco” dei loro obiettivi e, dunque, l’ampiezza delle visioni e dei poteri dello sguardo cinematografico (3).
Pertanto, nei film dell’epoca si cerca, da una parte, di raccontare il più possibile la “normalità” della vita sia nelle retrovie sia al fronte e, dall’altra, non potendo evitare del tutto la rappresentazione delle armi in funzione, si crea l’illusione delle battaglie e degli scontri a fuoco tramite i primi “effetti speciali”. Tale modalità è utilizzata sorprendentemente (oltre che  nei film di finzione) anche nei filmati ufficiali: ad esempio nei documentari inglesi sulla battaglia della Somme del 1916 e in molta produzione documentaristica francese, nella quale si possono individuare facilmente i falsi combattimenti e i manichini che saltano per aria sotto i colpi sparati dai mortai(4)
Le fonti più disparate evidenziano come in tutti i paesi ci fu una chiara consapevolezza del ruolo decisivo del cinema sugli effetti della vittoria finale. A tale proposito si produsse presto una sorta di assimilazione dei film di finzione e dei documentari, una reciproca “ibridazione”, con scene ricostruite nei documentari e innesti di riprese dal vero nei film di finzione. Se questi film più o meno patriottici godettero inizialmente di grande successo, più tardi, non appena alla guerra di movimento si sostituì quella di trincea, dall’esito incerto e dalla fine imprevedibile, cominciarono ad interessare sempre meno i pubblici di tutta Europa(5).

Durante il conflitto non vi furono, se non negli Stati Uniti (si veda ad esempio  Civilization, di cui diremo a breve), film a carattere pacifista che manifestassero forti prese di posizione contrarie alla guerra, mentre, prima e già all’indomani della fine delle ostilità, cominciarono a circolare nei paesi belligeranti film di condanna per le inutili stragi di milioni di giovani soldati.
Nel 1919,  in Francia, esce J’accuse! di Abel Gance, regista che aveva realizzato già nel triennio precedente alcuni altri titoli importanti, avendo ottenuto appositamente un congedo dall’esercito per dedicarsi alla propaganda cinematografica(6). Il film  introduce una forte nota dissonante nel coro delle voci trionfanti e celebrative della vittoria, mostrando, tra l'altro, nel finale il risveglio dei giovani morti che sorgono dalla terra per rinfacciare ai vivi l’inutilità del loro sacrificio.

Nel cinema italiano, tra oleografia tardo ottocentesca e traduzione dello spirito dei racconti deamicisiani (distacchi strazianti dei figli giovani dalle madri, episodi di codardia e riscatto), sembra esistere una volontà di riduzione dei casi della guerra a una scala molto ridotta, localistica: si sottolineano infatti anzitutto i legami tra il soldato, la famiglia, la casa, identificando, per metonimia, il focolare domestico con l’idea di patria(7). Nei documentari, dopo un primo momento in cui viene evidenziato l’aspetto ufficiale della guerra (le sfilate delle truppe, le riprese dei re, dei capi di stato e dei comandi militari, le rappresentazioni degli interventi della Croce Rossa), si sceglie di esaltare l’elemento umano: il sacrificio dei giovani soldati, la loro capacità di affrontare e superare il freddo, la fatica e ogni tipo di ostacoli. A proposito di questo tipo di filmati, volti a mostrare la quotidianità della vita del fronte, sono esemplificative le famosissime e sempre riutilizzate riprese di Luca Comerio in Tra le nevi e i ghiacci del Tonale e Adamello, guerra d’Italia a 3000 metri, del 1916, sul trasporto, prima coi i muli e poi a mano, di un affusto di cannone ad alta quota. Questa produzione mostra le sentinelle che sfidano i rigori delle temperature sottozero, le marce degli alpini sotto la tormenta, le messe al campo, la distribuzione del rancio e della posta, i momenti in cui i giovani soldati scrivono alla famiglia: scene in cui prevale l'uomo e in cui la potenza militare resta in secondo piano. Il soldato viene dunque mostrato lontano dai combattimenti e dalla linea di fuoco, con la volontà di rappresentarne anzitutto il perfetto adattamento all’ambiente, l’eroismo insito nella capacità di combattere ogni giorno contro gli ostacoli della natura(8).
Tra i pochi film italiani rimarchevoli e spettacolari citiamo Maciste alpino, del 1916, che punta a produrre identificazione tra gli spettatori e la figura dell’eroe e un’adesione entusiastica a una guerra rappresentata in un aspetto familiare. Avvalendosi della mescolanza dei codici romanzeschi e di momenti di notevole invenzione a livello visivo – vi sono alcune eccezionali riprese di alpini sospesi ad una corda nel vuoto – il film appare per alcuni tratti di eccezionale modernità, capace di offrire il massimo d’impressione di verità senza alterare gli stereotipi narrativi e conoscitivi del noto personaggio forzuto. Pastrone, che supervisiona, e i registi Borgnetto e Maggi, realizzano un tipo di spettacolo sospeso tra favola e propaganda, con Maciste che trionfa negli scontri e risolve il conflitto a base di sberle e calci nel sedere dalla potenza di un mortaio(9).
Interessante è anche  Civilization di Thomas Harper Ince  (1916), immerso nell’immaginario metaforico e fanta-politico del regista. In esso si assiste a uno scontro tra stati immaginari – che alludono apertamente ai paesi belligeranti – durante il quale il protagonista, il conte Ferdinand, un geniale inventore che progetta armi per il suo re guerrafondaio (il cui elmo chiodato richiama senza ambiguità la figura del Kaiser), si converte al pacifismo e tenta di opporsi alla strage in corso. Il film è intriso di classiche immagini religiose: si chiude infatti con l’intervento di un vero e proprio deus ex machina: Gesù Cristo che scende sulla Terra, si incarna nel conte Ferdinand e convince il sovrano a cessare le ostilità(10).
Terminiamo citando un vero gioiello del periodo muto del cinema: il breve Shoulder arms! di Charles Chaplin (1918): tre bobine in cui Chaplin mostra con tocco lieve la vita di trincea sul fronte occidentale, connotata da pericoli, privazioni, paura, nostalgia di casa, franchi tiratori, pidocchi, fango, pioggia. Un mondo duro in cui però non mancano rari momenti di gioia e dolcezza umana e in cui risuona nonostante tutto l’aspirazione alla pace e la denuncia dell’assurdità della guerra. Attraverso la leggerezza della sua comicità, Chaplin fornisce la prova definitiva che una “commedia” è tanto più solida quanto più sfiora il registro tragico. Gli orrori della guerra diventano motivo di riso e gli spettatori più entusiasti di questa pellicola saranno proprio i reduci che li hanno provati di persona.


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Note


  1. Per il rapporto tra il cinema e la prima guerra mondiale e il ruolo sociale di propaganda vedi, in particolare, il primo paragrafo “La nuova arma: il cinema e la propaganda” del saggio di Gian Piero Brunetta “Cinema e prima guerra mondiale” nel volume curato da lui sulla Storia del cinema mondiale. L’Europa.1. Miti, luoghi, divi, vol. I, Einaudi, Torino, 1999, pp. 251-ss e l’altro suo saggio “La guerra vicina”, in Renzo Renzi (a cura di), con la collaborazione di Gian Luca Farinelli e Nicola Mazzanti, Il cinematografo al campo. L’arma nuova nel primo conflitto mondiale, Transeuropa, Ancona, 1993, pp. 11-24.
  2. Per i primi film di finzione delle vari cinematografie e le loro differenze nazionali vedi i saggi di Gian Piero Brunetta “Cinema e prima guerra mondiale” nella Storia del cinema mondiale. L’Europa.1. Miti, luoghi, divi, op. cit., pp. 252-254, e “La guerra vicina”, in Renzo Renzi (a cura di), con la collaborazione di Gian Luca Farinelli e Nicola Mazzanti, Il cinematografo al campo. L’arma nuova nel primo conflitto mondiale, op. cit., pp. 16-17, 22-23; e altri saggi sulle cinematografie europee e statunitensi nel libro curato da Renzo Renzi, citato prima.
  3. Per le condizioni degli operatori di guerra e i limiti e le disposizioni dei comandi militari, in primo luogo francesi e italiani, vedi il capitolo “Le forze in campo e la logistica della percezione” del saggio di Gian Piero Brunetta “Cinema e prima guerra mondiale”, op. cit. pp. 262-ss., l’altro saggio di Brunetta “La guerra vicina”, op. cit., pp. 17-18 e il documento “Nome del Comando Supremo italiano per i corrispondenti di guerra” in appendice a Il cinematografo al campo…, op. cit., pp. 142-48; per il fronte francese cfr. Françoise Lemaire “Cannoni, munizioni e… cineprese. La nascita del servizio cinematografico militare in Francia”, in Il cinematografo al campo…, op. cit., pp. 40-44 e Laurent Veray, “Una verità involontaria. Sedici fotogrammi al secondo, al fronte francese”, nell’opera cit,. pp. 45-51; per il documentario inglese e i riferimenti alle memorie dell’operatore Geoffrey H. Malins, Nicholas Hiley, ““Come filmai la guerra”. Gi sconosciuti eroi del War Office inglese per gli scoop del 1916”, idem, pp. 52-66.
  4. Per il documentario inglese vedi il preciso resoconto di Roger Smither, “Una meravigliosa idea del combattere. Il problema dei falsi in The Battle of the Somme”, in Il cinematografo al campo…, op. cit., pp. 67-75; per i documentari francesi, Laurent Veray, Una verità involontaria. Sedici fotogrammi al secondo, al fronte francese”, idem., pp. 48-49.
  5. Per il concetto che le ragioni ideali, e pure industriali, hanno un loro peso nella determinazione delle strategie della propaganda e la consapevolezza del ruolo sociale del cinema vedi Gian Piero Brunetta, “Cinema e prima guerra mondiale, saggio cit., pp. 255-256; sul fatto che agli occhi dei pubblici di tutto il mondo la guerra diveniva un vero e proprio «luogo visivo» frequentato periodicamente, uno spazio verso cui si orientano e polarizzano milioni di sguardi, sempre il saggio di Brunetta, p. 255; per i cambiamenti della ricezione verso i film patriottici da parte degli spettatori italiani, dalla ricerca e consenso, all’assuefazione molto rapida del pubblico alle immagini dal fronte, alla noia e al rifiuto, cfr. il saggio citato di Gian Piero Brunetta, p. 261 e l’altro saggio “La guerra vicina”, cit., pp. 18-20; per i titoli di alcuni di questi film, sia italiani che delle altre nazioni europee – tra cui si possono ricordare i film di registi francesi importanti al tempo come L’eroe dell’Yser di Léonce Perret, Celui qui reste, Herr Doktor e Union Sacrée di Louis Feuillade e Alsace di Henri Pouctal, tutti del 1915-16, melodrammi patriottici che vengono rifiutati dal pubblico e stroncati dalla  critica  per l’incapacità di competere col documentario nella rappresentazione della guerra e per l’anacronismo dei meccanismi retorici e propagandistici -, vedi i due saggi di Brunetta, “Cinema e prima guerra mondiale”, cit., pp. 257-258, 261, 263-264 e “La guerra vicina”, cit., pp. 19 e 22-23 e Vincent Pinel, “Inizi del cinema francese. 1895-1918”, in Storia del cinema mondiale. L’Europa. Le cinematografie nazionali, vol. III, tomo primo, Einaudi, Torino, pp. 26-27.
  6. Titoli purtroppo non visti, visibili solo al pubblico degli specialisti e degli storici che li hanno potuti recuperare ai Festival specialisti sul Cinema Muto, come quello fondamentale di Pordenone in Italia: film come I gas mortali, 1916, La zona della morte, 1916, Le droit à la Vie, 1917, Mater dolorosa, 1917; vedi la scheda su Gance di Ester Carla de Miro D’Ajeta in Dizionario dei registi del cinema mondiale, a cura di Gian Piero Brunetta, vol. II, pp. 13-14 e il Castoro di Enrico Groppali, Abel Gance, La Nuova Italia, Firenze, 1986; il film Civiltà di T. H. Ince è un’allegoria della Germania bellicosa e degli orrori che il conflitto sta suscitando, con alte pretese filosofiche e religiose che sfociano spesso nella magniloquenza e il regista, senza muoversi dagli Stati Uniti, immagina i fronti delle operazioni belliche, riproducendo l’iconografia delle guerre napoleoniche e di quella di Secessione piuttosto che tentare di cogliere le caratteristiche del tutto inedite del conflitto, ma riesce comunque ad avere un grande impatto emotivo e spettacolare: vedi la scheda di Lorenzo Codelli sul regista nel Dizionario dei registi del cinema mondiale, op. cit., pp. 201 e i riferimenti in Paolo Chierchi Usai e Livio Jacob, “Thomas H Ince il profeta del western”, in Griffithiana, Genova, n. 18-21, 1981.
  7. Temi, e pure titoli di film, sono simili anche nelle cinematografie francese e tedesca, con il tema dell’«Heimat» e della sua difesa, ma meno localistica che in Italia, cfr. Gian Piero Brunetta, “Cinema e prima guerra mondiale”, cit., pp. 258 e 264.
  8. Per i documentari di Luca Comerio e le scelte della rappresentazione del fattore umano e non dei combattimenti da parte dei produttori cinematografici e dei comandi militari che visionavano tali film, vedi i saggi di Gian Piero Brunetta, “Cinema e prima guerra mondiale”, cit., pp. 264-6 e “La guerra vicina”, pp. 18-20.
  9. Sul film e il suo linguaggio cinematografico comico-romanzesco vedi Gian Piero Brunetta, “Cinema e prima guerra mondiale”, cit., pp. 267-68, e il fatto che è anche questo un modo per restituire alla guerra il volto umano e il suo è il linguaggio depoliticizzato della bravura individuale, il linguaggio del gioco cfr. Mario Isnenghi, “L’immagine cinematografica della grande guerra”, in Rivista di storia contemporanea, n.3, luglio 1978, Loescher, Torino, p. 341 e 347 e Gianfranco Miro Gori nel capitolo “Il film storico: una fonte per la storia” del suo libro Patria diva. La storia d’Italia nei film del ventennio, La casa Usher, Firenze, 1988, pp. 12.
  10. Per il non aver colto la modernità della Grande Guerra e il fatto che D. W. Griffith aveva visitato il fronte francese, rimanendo “deluso” dalla staticità assoluta del conflitto e dall’invisibilità degli eserciti nemici vedi Gian Piero Brunetta, “Cinema e prima guerra mondiale”, cit., pp. 263; sulle intenzioni della committenza britannica del film, Luke McKernan, “Bambini nella nursery. Il cinema inglese muto”, in Storia del cinema mondiale. L’Europa. Le cinematografie nazionali, vol. III, tomo primo, op. cit., pp. 132-133; sulle scene di guerra del film, sul loro autore, il regista-operatore Alfred Machin, le cui immagini mostrano una quantità di dettagli relativi alla vita di trincea di rado presenti nel cinema americano di quel periodo, in particolare di uno di essi che mostra una trincea distrutta da un bombardamento, dove il terreno sommerge letteralmente le truppe nascoste in essa, vedi Paolo Chierchi Usai, “Fiction o non-fiction. Il cinema americano durante la Prima Guerra Mondiale”, in Il cinematografo al campo. L’arma nuova nel primo conflitto mondiale, op. cit., p.89; sugli altri film americani del periodo, le pagine seguenti del saggio di Chierchi Usai, pp. 89-92 e Monica Dell’Asta, “Pearl White come una belva. Il filone bellico del serial e il trionfo del potere femminile”, in Il cinematografo al campo…, cit., pp. 99-107, sulla guerra dal punto di vista femminile.

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