Paesaggi di guerra del fronte occidentale in letteratura


In un conflitto caratterizzato dal fronteggiarsi di eserciti immensi, incapaci d’infrangere in modo decisivo le difese dell’avversario, le trincee rappresentavano il tipico habitat del soldato. Sul fronte occidentale, dopo gli iniziali tentativi di aggirare le protezioni del nemico e poi la cosiddetta precipitosa “corsa verso il mare”, lo spazio delle operazioni si cristallizzò nella cosiddetta guerra di trincea, si solidificò per anni, sino al 1918, nell’interminabile srotolarsi delle trincee francesi e tedesche, le une accanto alle altre, lungo un percorso di oltre 800 chilometri: dal canale della Manica alla Svizzera. Questo mondo sotterraneo, buio, fangoso e incredibilmente articolato, che stravolgeva la natura stessa del territorio (anche per effetto dei continui bombardamenti di potenza inaudita con cui gli eserciti preparavano gli attacchi della fanteria), diventò il luogo sconsolato in cui milioni di soldati trascorrevano i giorni e gli anni, trovandovi sovente la morte.
Nel primo brano che vi proponiamo, tratto dal romanzo Il fuoco, Henri Barbusse evoca il crudo mondo della trincea con straordinaria potenza espressiva. La descrizione, valendosi di un linguaggio immaginifico e musicale, prende il via da un’inquadratura a campo lungo, per poi stringere progressivamente verso lo straziante fulcro emotivo della scena, secondo una tipica modalità stilistica di questo autore.

Quando l’alba ci arriva addosso come un temporale serotino, torno a vedere i rapidi fianchi di quella nostra trincea sbrindellata che riemergono sotto la fuligginosa sciarpa delle nuvole basse; una trincea triste e sporca, infinitamente sporca, zeppa di detriti e pattume. Sotto quel cielo livido, anche i sacchi di sabbia rivelano la loro sconcezza, e i loro contorni arrotondati, vagamente risplendenti, sembrano gigantesche budella e viscere messe a nudo sul terreno.
In un anfratto scavato dalla parete della trincea che mi sta dietro c’è un mucchio di cose orizzontali, sembrano pezzi di legno. Tronchi d’albero? No, cadaveri.
Henri Barbusse, Il fuoco

 Le trincee tedesche non erano probabilmente granché diverse da quelle francesi, nonostante ciò, nella descrizione che ne fa il soldato Erich Maria Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale, sembrano perdere ogni parvenza di fisicità, divenendo una vera e propria costruzione astratta (qualcosa che esiste solo nelle mappe dei generali) in cui non è possibile rintracciare materia, struttura o regola: l’aleatorietà dei destini di chi vi deve vivere annulla ogni significato, motivazione o possibilità di riscatto, rendendo grottesca e vana ogni pulsione degli uomini, fossero anche istinti primari fondamentali quali il senso di conservazione, l’aggressività, la paura.

Siamo molto depressi. Due ore dopo che siamo in trincea, la nostra artiglieria ci spara addosso. È la terza volta in quattro settimane. Se dipendesse da errori di puntamento, non ci sarebbe niente da dire, ma il guaio è che i pezzi sono fuori uso: il tiro diventa così impreciso, che i colpi cadono fin nel nostro reparto: questa notte, ci rimettiamo due feriti.
La prima linea è una specie di gabbia in cui si soffre l'attesa nervosa di ciò che sta per avvenire. Viviamo sotto la traiettoria incrociata delle granate, nella tensione dell'ignoto. Sopra di noi pende il caso. Quando un colpo arriva tutto quel che posso fare è di rannicchiarmi; dove vada a battere non posso sapere, né influirvi. È appunto questo che ci rende indifferenti.
Alcuni mesi fa mi trovavo in un ricovero a fare una partita: dopo qualche tempo mi alzai e andai a trovare alcuni amici in un altro ricovero. Quando ritornai non trovai più nulla del primo, che era stato annientato da un grosso calibro. Tornai allora al secondo e giunsi in tempo per aiutare a dissotterrarlo, perché, nel frattempo, era franato.
Per puro caso posso esser colpito, per puro caso rimanere in vita. In un ricovero a prova di bomba posso essere schiacciato come un topo e su terreno scoperto posso resistere incolume a dieci ore di fuoco tambureggiante. Ciascuno di noi rimane in vita soltanto in grazia di mille casi; perciò il soldato crede e fida nel caso.
Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale

Ma la livida metafisica della guerra si estende, di là dal fango delle trincee, anche nel paesaggio devastato che le attornia, acquisendo, nei racconti dei vari soldati, intonazioni spesso diversissime. Nel seguente scritto, tratto da Nelle tempeste d’acciaio di Ernst Jünger, l’avvicinamento di un plotone di soldati tedeschi alla trincea e ai luoghi della battaglia diviene un attimo di pura eccitazione, un momento quasi esaltante. Come accade di consueto nella poetica di Jünger, la guerra, la stessa vita da talpe cui i combattenti sono costretti, acquista un che di grandioso e attraente; e il paesaggio sembra fare una congruente cornice a tale rappresentazione.

Quello stesso giorno, verso sera, giunse il tanto sospirato momento di metterci in cammino verso il posto di combattimento. Attraverso le spettrali rovine del villaggio di Bétricourt, che si stagliavano nella penombra, raggiungemmo un padiglione nascosto tra gli abeti.
[…] Dopo qualche tempo un comando secco echeggiò davanti alla porta di quella specie di capanna, adibita a nostro domicilio: «Tutti fuori!» Ognuno raggiunse il proprio plotone e, al comando: «Caricate, sicura all'arma!» provvedemmo con segreta voluttà a riempire il caricatore.
C'incamminammo in silenzio, in fila indiana, attraverso la campagna immersa nel buio della notte e coperta qua e là da cupi boschetti, in direzione del nemico. […] A un tratto qualcuno cade, tra squillanti rumori metallici: «Ma non sai aprire il becco, accidenti, quando inciampi in un fosso!» impreca qualcuno. Un caporale s'intromette: «Calma, perdio, credete che i francesi abbiano merda nelle orecchie?» La marcia si fa più rapida. L'incertezza della notte, lo sfarfallio dei razzi, il vacillare lento della fucileria provocano un nervosismo che mantiene tutti stranamente svegli. Di tanto in tanto una pallottola randagia passa sibilando, perdendosi lontano. Quante altre volte, dopo quella, ho camminato così verso la prima linea in preda a un'emozione malinconica ed eccitata, attraverso un paesaggio di morte!
C'infilammo infine in uno dei camminamenti che, a guisa di serpenti biancheggianti nella notte, raggiungevano, un'ansa dopo l'altra, il posto di combattimento. Mi ritrovai solo e infreddolito tra due traverse; lo sguardo fisso a una fila di abeti posta davanti alla trincea, sotto i quali la mia immaginazione faceva danzare ogni sorta di fantasmi, mentre, a tratti, una pallottola perduta crepitava attraverso i rami e cadeva con un lungo sibilo. […] Infine, per due ore, potei abbandonarmi nel fondo di una buca al sonno dell'esaurimento. Quando giunse il grigiore dell'alba, ero ricoperto di fango proprio come gli altri. Mi sembrava che quella vita da talpe durasse già da mesi.
Ernst Jünger, Nelle tempeste d’acciaio

Al brano precedente, contrapponiamo una descrizioni della zona presso il comune francese di Souchez, paese che, a motivo della sua posizione strategicamente rilevante, tra le colline di Loreto e Vimy, ha sofferto numerosi bombardamenti durante la Grande Guerra, finendo raso al suolo nella primavera del 1915. Il brano, tratto ancora da Il fuoco di Henri Barbusse, ci mostra in presa diretta la visione spettrale della natura ferita dalla guerra. La scrittura di Barbusse procede lenta e senza scosse, evidenziando, con malinconica imperturbabilità e grande capacità evocativa, la realtà tremenda della distruzione e della morte.

Riprendiamo la strada, che a questo punto comincia a scendere verso il fondovalle, dove c’è Souchez. Laggiù, nel biancore della nebbia, ci appare una tremenda valle di lacrime. Un confuso ammasso di rottami, rovine e rifiuti è accumulato lungo la spina dorsale di questa strada pavimentata e ai suoi bordi fangosi. Gli alberi giacciono abbattuti, oppure sono scomparsi, fatti a pezzi, e ne resta solo qualche radice estirpata. I margini della strada sono sollevati e devastati dalle granate. E per tutta la sua lunghezza, quella strada dove sono rimaste in piedi solo le croci, è affiancata da trincee venti volte crollate e riaperte, buche e camminamenti che le collegano, il tutto affondato nel terreno melmoso. Più si va avanti, e più tutto è devastato, putrefatto, terremotato. 

Dario Malini

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