La X battaglia dell'Isonzo


Ciò che forse più mi ha colpito è stata la difficoltà del terreno sul quale combatte il vostro esercito.......... (Dalla lettera che il generale inglese Robertson inviò a Cadorna il 5/04/1917 dopo una visita al fronte italiano)


Il 1916 terminò fra la totale delusione. Gli imperi centrali avevano fallito a Verdun e lungo il fronte  del Trentino, mentre tra gli stati dell'Intesa era forte lo scoramento per la sconfitta nella battaglia della Somme, per la debacle della Romania che aveva creato una sfavorevole situazione nei Balcani e per  gli scarsi progressi lungo il fronte isontino. Ma in quel momento la situazione era estremamente complicata anche e soprattutto per gli austriaci. Carlo, successore del vecchio sovrano Francesco Giuseppe morto a novembre, capì da subito che l'Impero  stava disgregandosi; in caso di vittoria sarebbe diventato uno stato vassallo della Germania, mentre una sconfitta, visti i fermenti rivoluzionari in Russia, avrebbe probabilmente innescato un'insurrezione delle nazionalità ungheresi e slave presenti sul territorio.
Dal 5 al 7 gennaio del '17 venne convocata a Roma una Conferenza interalleata. Lloyd George, da poco meno di un mese capo del governo inglese, era convinto che l'unico modo per neutralizzare la Germania fosse quello di concentrare un'imponente offensiva  sul fronte italiano con l'obiettivo di annientare il già traballante impero austro-ungarico; per i tedeschi sarebbe stato un colpo mortale. Il solo modo per attuare il piano era quello di intensificare dunque le operazioni contro l'Austria, “ la più stanca della guerra e ridotta ora veramente a mal partito”, sosteneva il premier britannico.
La proposta non venne accolta. I francesi ritenevano che l'attacco decisivo dovesse essere sferrato sul fronte occidentale, i comandanti inglesi  non sembrarono molto propensi ad inviare soldati a combattere su un territorio poco conosciuto, mentre la reazione italiana fu alquanto disinteressata: “[...] il generale Cadorna e il governo italiano avevano accolte queste proposte in maniera piuttosto tiepida” scrisse  Lloyd George. L'Italia dunque si lasciò sfuggire l'opportunità di ricevere un sostanzioso appoggio dagli alleati e  il generalissimo, temendo forse, in caso di aiuto, di perdere il totale controllo delle operazioni,  concluse: “Dobbiamo fare assegnamento per la guerra sulle nostre sole forze e mezzi”. È anche vero che Cadorna si rese immediatamente conto dell'occasione mancata. Il 22 gennaio un suo piano venne consegnato dal nostro ambasciatore a Londra nelle mani di Lloyd George; ormai era troppo tardi. Alcuni giorni prima una delegazione francese si era catapultata a Downing Street per convincere il primo ministro ad abbandonare il suo progetto e predisporre una nuova grande offensiva oltralpe.


Cadorna comunque a quel punto era abbastanza fiducioso di risolvere la guerra senza alcun aiuto. La pausa invernale era servita per migliorare l'equipaggiamento e l'armamento dei soldati ora, a dire del generalissimo, più disciplinati grazie alle “esemplari fucilazioni”. Il metodo continuò ad essere imperniato sullo sfondamento frontale con l'obiettivo di consolidare la conquista di Gorizia e penetrare nel cuore dell'impero. A metà maggio iniziò la X battaglia dell'Isonzo. Dopo  due settimane di scontri l'avanzata italiana si arrestò lungo il Timavo, il più breve fiume d'Italia.  In quel punto il terreno, privo di una vegetazione sufficiente  da assicurare una copertura, era talmente paludoso che fu impossibile avanzare e ai primi di giugno gli austriaci ripresero gran parte delle linee perdute. Qualche anno dopo la fine del conflitto l'ufficiale di Stato Maggiore Angelo Gatti, che dal gennaio del '17 era stato alle dirette dipendenze del Capo, sottolineò un aspetto nettamente negativo nell'azione di comando. L'uomo di fiducia di Cadorna non  mancò di evidenziare come il generale, una volta illustrata l'operazione, non aveva più alcun contatto con i reparti con la conseguenza che, iniziata la battaglia, a fronte di imprevisti, non poteva più intervenire in modo decisivo per evitare che la manovra fallisse. Quindi, Cadorna, una volta dato il via alle operazioni, rimaneva quasi spettatore ed interveniva solo per  elogiare le esecuzioni alla schiena dei fanti ribelli o per punire gli  ufficiali che non stavano ottenendo i risultati previsti. “Mi pare quasi certo, ora che ho visto con i miei occhi, che il gen. Cadorna non esercita un'azione di comando, nemmeno sulla fronte Giulia. Mi spiego meglio. Il generale Cadorna fa il piano, lo dà ai comandanti delle armate: tiene per sé una piccola riserva. Poi dà l'avanti: e da quel momento non è più il direttore... Sta il fatto, che se avesse potuto o saputo esercitare un attivo comando, non avrebbe dovuto succedere ciò di cui si lamenta: e, cioè, che un comandante di armata gli faccia fracassare un corpo d'armata, in modo che questo non possa più esercitare azione durante la battaglia [...] Ma il piano stesso iniziale di Cadorna aveva in sé il difetto. Ordinando che l'azione si svolgesse prima sul Kuk-Santo, poi a distanza di giorni, sul Faiti Carso, metteva l'VIII corpo nelle condizioni più disperate...” (27 maggio 1917 dal Diario di Angelo Gatti).
Nonostante i sanguinosi scontri, gli scopi strategici che il Comando Supremo si era proposto non vennero raggiunti: Il Monte Santo non fu completamente conquistato, l'occupazione di Gorizia rimase precaria, mentre sul Carso gli austriaci rimasero ancora padroni di Castagnevizza e dell'Hermada. Anche di questo ennesimo insuccesso Cadorna non si assunse alcuna responsabilità, anzi, tra giugno ed agosto del '17 in quattro lettere indirizzate a Boselli si giustificò puntando il dito sulla debolezza del governo, a suo dire troppo permissivo verso la propaganda pacifista, e sui soldati, accusati di essersi arresi troppo facilmente ai contrattacchi austriaci. Ancora una volta nessun tentativo per capire le cause di quei cedimenti. Si trattava pur sempre di uomini che da due anni subivano un pesante logorio fisico e mentale e che, come risulta dalle numerose testimonianze, non esitarono ad uscire dalle trincee con il solito coraggio. Ecco cosa scrive Fritz Weber nel libro  Dal Monte Nero a Caporetto a proposito di quei giorni: “I veterani del Carso non credevano ai loro occhi. L'attacco durava un'eternità. I pendii erano già coperti di cadaveri, le prime file di fanti erano già state annientate, eppure altri continuavano a salire, uscendo a centinaia e a migliaia dalle trincee e dalle vallette, avvicinandosi con uno slancio temerario. Perché questo non era più lo stesso nemico delle battaglie precedenti, era diventato tenace, ostinato e sopportava le perdite con eroica impassibilità.”  



Giancarlo Romiti




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