Laboratorio Allegri (15): I lager di Sigmundsherberg e Harth bei Amstetten (29 ottobre - 16 dicembre 1917)

Telegramma inviato da Attilio Allegri
alla famiglia il 5 novembre 1917

5 novembre. Catturato il 29 ottobre, il viaggio che mi ha condotto al campo di concentramento di Sigmundsherberg è stato estenuante, un vero romanzo; basti dire che è durato quasi sette giorni (nota 1). Trascrivo dal mio diario le poche note appuntate nel corso del trasferimento: dopo Graz incontrammo un convoglio di ufficiali russi, fermo in una piccola stazione, intavolando una conversazione in francese, lingua che molti di loro conoscono. Ad uno di questi ufficiali donai un braccialetto di rame fatto da un mio soldato, che contraccambiò con 10 kopek. A Vienna distribuirono in vettura un salamino, che qui si chiama würstel, sotto l'arcigno controllo di un kaiserjäger il quale sfoggiando il suo italiano da interprete intimò: «Prego, ogni signore uno salame, due salami, abuso». I salamini puzzavano talmente che, nonostante la fame, non ne volli prendere, commettendo forse un diverso tipo di abuso (nota 2). Ci dicono che staremo in questo luogo circa due settimane, per la quarantena e la disinfezione degli indumenti, prima di essere spostati nel campo definitivo. L'atmosfera del lager è malinconica, fa freddo e si soffre la fame. 

«Così, nonostante il clima, esco nel cortile»
(illustrazione di Kataku, 2022)

Nella misera stanzetta dove dormo, sita in una baracca di legno marcescente piena di spifferi, siamo in sei. I compagni passano gran parte del tempo sulle brande, rannicchiati o distesi, ravvolti nelle misere coperte in dotazione, gli sguardi vacui, indirizzati al soffitto. Io cerco invece di stare alzato, per quanto possibile, anche perché gli indumenti di cui ho potuto fornirmi dopo la cattura (nota 3) mi permettono di non soffrire troppo il freddo. È stata davvero una fortuna trovarli, perché qui, anche disponendo di soldi, non si può comprare che poca roba. Così, nonostante il clima, esco nel cortile, unendomi ad alcuni soldati che passeggiano irrequieti. Cerco a lungo, inutilmente, qualche sprazzo d'azzurro nel cielo livido di pioggia. Quando rientro, un austriaco mi accoglie con grida che non so capire. Bisogna proprio che mi metta a studiare il tedesco, lingua indispensabile per interpretare gli improperi che le guardie ci rivolgono di continuo. Intanto, sono almeno riuscito a far partire un telegramma, in modo da tranquillizzare sulla mia sorte le persone che mi attendono a casa. Quando giungerà a destinazione?

Cartolina del 7 novembre 1917

Nei giorni seguenti invio ai familiari un nuovo telegramma, una lettera e qualche cartolina. In quella del 7 novembre scrivo quanto segue, istruito dai compagni più esperti, dai quali vengo a sapere che l'inflessibile censura austriaca elimina qualsiasi scritto contenente delle lamentele sulla vita del campo: «I comodi della vita qui sono molti, si dorme, ci si diverte, si legge ma è assai deficiente il vitto, specie il pane e sapete quale mangiatore di pane ero io. Ai prigionieri si può spedire, ve ne potete informare presso la Croce Rossa, un pacco di 2 kg di pane e un altro pacco di alcuni kg di commestibili la settimana, frutta secca compresa. Vi prego quindi di spedirmi qualche pacco. Biancheria e maglioni, come scrissi, li ho, mettete invece due asciugamani, due paia di calze, un pezzo di sapone». 

«La Scintilla» n° 1, 4 novembre 1917 

In ogni modo, c'è del vero in ciò che ho scritto a casa, perché qui, nonostante scarseggi l'essenziale, non manca l'accessorio, almeno per gli ufficiali, che possono praticare il gioco del pallone e del tennis, lo skating (nota 4) e, presto, il pattinaggio [sul ghiaccio] perché fa di già molto freddo. C'è inoltre una biblioteca e una rivista del campo di cui ho potuto leggere il primo numero, restando piuttosto colpito da un articolo un poco palpitante d'impeti dannunziani, ma non privo di interesse:
La melodia del dio Pane è triste: non più di Saturno egli dice il paterno dominio, non più degli uomini liberi le libere opere: Sic vos non vobis... (nota 5) egli canta agli uomini ormai schiavi, agli antichi suoi sacerdoti or servi de la gleba (nota 6).
Nonostante la mia viscerale antipatia per il latino (nota 7), non posso che concordare con questi pensieri, poiché se la vita del soldato (in trincea come nel lager) mi ha insegnato qualcosa, è che chi sopravvivrà a queste dure esperienze avrà il dovere morale di testimoniarle.

L'accesso al lager di Hart
(illustrazione di Kataku, 2022)

Il 15 novembre ci caricano su un treno con destinazione Amstetten. Il trasferimento, credo di non più di 150 km, ci obbliga a stare quasi un giorno intero in vagoni freddi e piuttosto luridi. All'arrivo, ci avviamo a piedi verso il lager di Hart. Un'ora circa di marcia nel corso della quale attraversiamo la cittadina di Amstetten, sorprendentemente ridente con i negozi aperti e la gente che sembra occuparsi d'altro che di cose guerresche. Uscitine, abbiamo la prima visione del campo, ancora lontano, che ci impressiona per vastità e grigiore. Dopo averne superato il cancello sotto lo sguardo vigile e annoiato di alcune guardie, e atteso infreddoliti la fine dell'interminabile procedura di ingresso e l'appello, siamo lieti di poterci stendere in un letto, sebbene nella camerata faccia molto freddo. I termosifoni presenti in ogni stanza, infatti, sono gelidi. Il lager, così come appare osservandolo dalle finestre, non sembra avere nulla di speciale, simile ad ogni altro luogo finalizzato a privare gli uomini della libertà, con lunghe file ordinate di baracche rettangolari, strade sterrate disegnate lungo perfette linee rette, recinzioni metalliche cariche di filo spinato, riflettori posti su alti pali di legno, detenuti tristi ed emaciati, guardie rabbiose e spaesate, vento, gelo, assenza d'ogni speranza. 

Una cartolina della Croce Rossa,
inviata al padre Oreste Allegri

Passano i giorni. Il campo è situato su un altipiano e cinto da collinette che lo preservano dai venti che lo battono continuamente. Alla mattina ci si alza alle 9, alle 10 fanno l'appello, sino alle 12 si leggono i comunicati che vengono affissi, tradotti in un curioso italiano ancor meno comprensibile del tedesco, poi si pranza e, se possibile, si comperano delle mele. Nel pomeriggio si confabula tristemente tra noi, tremando per il freddo e la fame e sognando impossibili evasioni o l'ancor più inimmaginabile fine della guerra. Si cena presto e poi si va a letto. La mensa è in una baracca posta al centro del lager, con tavoli e sedie di legno solide e ben intagliate. I pasti che vi si consumano consistono però soltanto in una misera pagnotta di neppure 100 grammi, confezionata con farine misteriose; varie brodaglie acquose e senza sostanza; una razione di carne di poche decine di grammi; barbabietole, carote, rape o cavoli di contorno.

Cartolina del 19 novembre 1917

19 novembre. Invio a casa una cartolina della Croce Rossa, occupando una parte delle misere quindici righe a mia disposizione con richieste di cibo, avendo assoluta necessità di un'integrazione alle ridottissime razioni che ci dispensano. È anzitutto la fame, dunque, come l'angelo a San Marco, a dettare la chiusa del mio messaggio: «Vi prego [di] mandarmi salvietta, grammatica e dizionario tedesco, e roba mangereccia: fichi, castagne secche, salame. Abbonatevi alla Croce Rossa per [il] pane. Baci. Attilio».

Cartolina del 25 novembre 1917

Tutti i miei messaggi sono di simile tenore. Quello del 25 [novembre], ad  esempio, così si conclude: «Buon Natale e che Dino possa passarlo tra di voi. Mandatemi pane, quello di miglio se si conserva, fichi, castagne secche, Promessi Sposi, un paio d'occhiali con catenella. Abbonatevi».

«... dove non si vedono che corvi»
(illustrazione di Kataku, 2022)

27 novembre. È quasi trascorso un mese da quando fui fatto prigioniero e condotto in questo paese dove non si vedono che corvi.  Almeno passassero in fretta gli altri mesi che mi separano dal giorno in cui potrò finalmente tornare a casa!

Cartolina del 27 novembre 1917

Ci hanno garantito che ci condurranno presto fuori, a fare passeggiate nei dintorni del lager, e inoltre che ci lasceranno talvolta anche uscire dal recinto per giocare a football. A tali notizie nessuno qui fa una piega, avvezzi come siamo tutti alle promesse non mantenute. Attendo invece con ansia crescente lettere da casa, temendo che ancora la mamma e il papà non abbiano avuto mie notizie, nonostante i due telegrammi e le innumerevoli cartoline che ho spedito loro. Cruccio continuo e martellate che, unendosi a quello della fame e dell'inerzia, rende tristi e penose le mie giornate.
8 dicembre. Sono ancora senza nuove da casa, e sì che telegrafai al papà di già da un mese. Starei alquanto meglio se potessi ricevere notizie di lì e qualche pacco di pane. Se fa sempre più freddo, null'altro pare mai mutare nella vita abbrutente che trascorriamo. Ci si alza alle 9, si legge un po', si confabula, si ascolta talvolta qualche concertino, si mangiano le misere carote che ci passa la mensa, si va a letto coi fringuelli poiché, siccome questo è un campo nuovo, non c'è ancora nulla di organizzato. Dormo in una minuscola stanzetta con due sottotenenti d'età, d'indole e parlata diversissime, entrambi però accumunati dalla forte debolezza e dalla ottundente malinconia: uno, Raboni, è un avvocato di Milano del '91, l'altro, un ragioniere fiorentino di ventidue anni. Come loro, trascorro  diverso tempo sdraiato sulla mia branda, ben avvolto in tutti i miei vestiti sovrapposti. Quando mi assale la nostalgia, leggo la vecchia corrispondenza con i miei, che fortunosamente avevo come me al momento della cattura, fingendola recente. 

In attesa della posta
(illustrazione di Kataku, 2022)

16 dicembre. Oggi l'incaricato alla distribuzione della corrispondenza, curioso animale quasi mitologico, emette improvvisamente il verso che attendevo da oltre 50 giorni: «a chil leal le gri», bruto insieme di sillabe, che echeggia lungamente nella camerata prima che il mio cervello malfidente possa trasformarlo in qualcosa di positivo che mi riguardi. Solo allora mi alzo. Gridando «Hier bin ich», mi avvicino con uno scatto alla benevola fiera, senza affatto badare agli ostacoli che s'interpongono tra di noi, ricevendo quindi, assieme agli improperi dei compagni travolti dalla mia foga, ben tre telegrammi. Gli scritti mi rassicurano sulla salute dei familiari, anticipandomi anche l'arrivo di cento corone che mi saranno certamente utili per integrare il sempre più magro vitto che ci viene dispensato. 
I termosifoni sono freddi e nevica ancora.






Dario Malini


N.B. L'autrice delle illustrazioni è Kataku, giovane e valente artista pisana. 

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Note

1. Attilio Allegri è stato fatto prigioniero degli austriaci la mattina del 29 ottobre nei pressi di Peuma (Piuma, frazione del comune di Gorizia), nel corso della battaglia di Caporetto. Il lager di Sigmundsherberg (Bassa Austria, distretto di Horn) è a circa 80 km da Vienna.  
2. Circostanze relative al viaggio di trasferimento verso Amstetten, riferite nella lettera datata 16 giugno 1918.
3. Nell'intervento precedente viene infatti precisato: «A un punto, del tutto indisturbato, riesco a entrare in una baracca, trovandovi diverse cose utili, abbandonate da un ufficiale d'artiglieria che se l'era data a gambe: anzitutto uno zaino, che riempio di maglie, camicie e mutande di flanella, poi degli indumenti quasi nuovi che indosso seduta stante: una divisa d'artiglieria, un paio di scarpe, dei gambali, alcuni paia di calze e un cappotto». 
4. Probabilmente il termine indica lo sci di fondo.  
5. Locuzione latina tradizionalmente attribuita al poeta Virgilio, da tradurre "Così voi, non per voi stessi", cui sovente viene dato il significato di esprimere lo sforzo e l'abnegazione di chi agisce non per il proprio utile ma per il bene comune.
6. Leo Leone, Sic vos, not vobis..., «La Scintilla», n° 1, Sigmundsherberg, 4 novembre 1917, p. 1.  
7. Il lettore forse ricorderà che Attilio Allegri, in Prima Ginnasio, era stato bocciato in latino, materia che egli stesso definiva la sua "bestia nera".

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