Laboratorio Allegri (2): «Il trascorrere dei giorni ci trasforma» (27 ottobre - 7 novembre 1916)

Lettera di Attilio Allegri ai familiari (26 ottobre 1916)

Domani sera [27 ottobre 1916] non potrò uscire perché sono di piantone alla camerata; devo scopare, disinfettare, distribuire il pane e il caffè, e sorvegliare che nessun estraneo entri, mentre i compagni potranno godere di alcune ore di liberà nelle strade belle e malinconiche di Ferrara. In questo periodo sto imparando a stare a cavallo e a farlo trottare, ma quando rimetto i piedi a terra ho tutte le gambe indolenzite, inadatte, si direbbe, al semplice esercizio di camminare, attività resa ancora più esoterica dai gambali e speroni che mi infagottano, facendomi sembrare la brutta copia di un cavaliere del Cinquecento. Il trascorrere dei giorni ci trasforma e lo fa sottilmente, tanto da impedirci quasi di accorgercene. Ma non a tutto il mio corpo sembra voler accondiscendere se è vero che la vaccinazione per il vaiolo ha avuto esito negativo. Mi faranno però probabilmente un altro innesto, cui seguiranno le iniezioni antitifiche, antitetaniche e anticoleriche.

La signora Calabresi, tra una lamentela e l'altra per il prezzo della legna (che a a Ferrara a quanto pare si consuma in modo anomalo, dato che il primo quintale è di già bruciato e devo versarle altri soldi per evitare di morire congelato), mi ha fatto fare la conoscenza di un aspirante medico sottotenente, tale Gino Lampronti, convalescente di pleurite. Cordiale, d’eloquio prudente ed esattissimo, m’è sembrato fin da subito piuttosto simpatico, anche per lo humor originale e personalissimo che talvolta esibisce. Quando gli ho detto, quasi per caso, di dilettarmi talvolta nel gioco degli scacchi, m’ha fatto promettere solennemente che mi sarei recato l’indomani da lui per una partita. La sua famiglia (padre, madre, sorella e zie) m’accoglie benissimo quando, alle 6 di sera del giorno successivo, lo vado a trovare. Gino ha ventiquattro anni compiuti ed è iscritto al sesto anno di medicina. A febbraio è stato dichiarato riformato e s’è presentato alla Croce Rossa. A scacchi si rivela imbattibile, ma vedrò di trovargli qualche punto debole. I nostri incontri diventano presto un'abitudine quotidiana. Ogni sera, dopo aver trangugiato il rancio, che ci distribuiscono alle cinque e un quarto, esco a passo di marcia dalla caserma e alle sei in punto sono già da lui (sono infatti diventato alquanto svelto a mangiare ed a lavare la gavetta), restandovi sino alle 7 e un quarto, quando l'amico va a cena. Allora scendo per percorrere il breve tratto di strada che divide il suo appartamento dalla mia camera. Non mi ci reco subito, però, poiché non posso impedirmi di girovagare un poco lungo le strade umide della città, a quell'ora già quasi avvolte nelle tenebre, rischiarate talvolta da misteriosi bagliori o dal passo lieve e affrettato di qualche ragazza che l'oscurità e la distanza rendono immensamente desiderabile. Ma quasi sempre evito di seguirne le tracce e salgo invece nella mia stanza a studiare, finché la signora Calabresi non bussa alla porta della mia cameretta per portarmi una tazza di caffelatte assieme al fatidico chifellino, condito di mille cerimonie e a un numero non meno cospicuo di piccanti pettegolezzi e lamentele riguardanti persone a me del tutto ignote.

Certosa di Ferrara

Il clima è sempre più pestifero. Stamane sui bastioni v’erano, non esagero, almeno venti centimetri di fango e una nebbia fitta e cattiva che s’insinua nei polmoni. Dato che il 2 novembre ci hanno dato orario festivo, con Gino mi reco al cimitero della Certosa, un monumento alquanto bello con un elegante colonnato. Si chiacchiera. Il mio accompagnatore dice che le aule dell’università di Ferrara, chiamata “libera” perché non sovvenzionata dallo Stato, sono, di questi tempi, quasi vuote e assai tristi. E aggiunge con quel suo tono serio che impedisce di accorgersi se stia o meno scherzando: «Tristi soprattutto per le giovani studentesse che devono accontentarsi dei pochi maschi malaticci restati disponibili». Le lancette dell’orologio corrono, posizionandosi presto sulle due del pomeriggio, cosicché devo affrettarmi a tornare in caserma per l’iniezione anticolerica. Il giorno successivo, com’è inevitabile, sono un poco acciaccato, tormentato da inquiete visioni di scoppi di granate e attacchi alla baionetta, unite a quell’invincibile malinconia che, nel mio organismo, si accompagna immancabilmente alla febbre: non dura però che lo spazio di ventiquattr’ore. A rimettermi in sesto contribuisce un compagno tubercolotico e miope che, per la contentezza d’essere stato inviato in osservazione all’ospedale militare di Bologna, si esibisce in salti incredibili, quasi d’acrobata.

Caseggiato in via J. Rezia 10, Como
(foto moderna del curatore)

Ancora non ho detto nulla sul rancio, il cui insopportabile fetore e l’unta consistenza - tristi prerogative che rimangono costanti qualsiasi pietanza venga distribuita - rendono inequivocabile la terribile lacerazione che divide ciò che siamo da quello che eravamo. E ogni volta ripenso con struggimento ai deliziosi pasti che si servono a Como, in via Jacopo Rezia n° 10, piano secondo, presso la famiglia Allegri (nota 1).

Caserma Palestro a Ferrara

Come allievo caporale (14° Reggimento, artiglieria da Campagna) sono stato destinato alla caserma Palestro. Un edificio di severa bellezza architettonica, che però all’interno, nonostante la presenza di molti ufficiali e dell'inflessibile tenente colonnello Nagliati, mostra i più evidenti segni di degrado: scritte e graffiti sui muri, confusione dappertutto, frequenti zaffate d’odoracci d’ogni sorta. L’istruzione militare consta di lezioni insipide vertenti anzitutto sul maneggio e la nomenclatura di sua maestà il cannone. C’insegnano però, come ho già avuto modo di appuntare, anche ad andare a cavallo. E devo onestamente confessare che, col passare dei giorni, il quadrupede va obbedendomi sempre più e il cannone pesa un po’ meno a smuoverlo. In tutto ciò, non posso non notare l’effetto corroborante dell’esercizio fisico costante e della rigorosa disciplina, rilevando senz’ombra di dubbio come il corpo e la mente del soldato Attilio Allegri si stiano predisponendo, senza alcun intervento diretto della sua volontà, alla vita di guerra. Per quanto sta più propriamente in me, invece, cerco di non prendere nulla sul serio. I cori che facciamo in caserma! Sembra d’essere in un manicomio, ed io canto più di tutti. 

Firma di Attilio Allegri
Oggi è il 7 novembre, dopo quattro giorni di nebbia e freddo, splende finalmente il sole. Da Como m’arriva una cassetta colma d’ogni ben di dio: zucchero, conserve, fave dei morti e tanto altro. Vi trovo anche un bel coltello affilato che mi sarà utilissimo, poiché con il mio povero temperino non riuscivo in nessun modo a tagliare la carne dura e fibrosa che, con infinita parsimonia, ci dispensano qui: addentarla come se fossi un cane, anche in tempi bestiali come questi, non mi pareva bello. 



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Note

1. A questo indirizzo abitava la famiglia Allegri, composta da Oreste, il padre di Attilio, Edvige Monghisoni, la madre, Olga, la sorella, e Claudio (detto Dino), il fratello.

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