Puisieux il 21 agosto 1918 |
All'orizzonte risplendono le rovine di Puisieux; alla vista di questi bianchi resti di mura scoperchiate e circondate di alberi scheletriti si potrebbe credere di essere sorpresi, al centro di un deserto, dal miraggio di un'oasi estinta e spettrale. Non c'è segno di vita, per quanto lontano possa spingersi lo sguardo, e sembra che la morte stessa sia andata a dormire [...]. Sembra che regni una pace profonda, solo la natura parla a se stessa.
Eppure l'occhio non può chiudersi davanti alla spaccatura che fende questa terra che sembra creata per la semina e per il raccolto. La taglia in due il confine tra la Piccardia e l'Artois, due ricche e antichissime contee i cui abitanti uniscono nella loro indole il temperamento gallico e il rigore fiammingo. [...] Adesso però tutto ciò è stato lavato via come effimero pastello, mentre la punta di un lapis d'acciaio è passata, da qui fino giù alle Fiandre e poi su fino ai Vosgi, sopra questa terra. Su questi terreni sono stati eretti baluardi e nei villaggi distrutti si sono appostati cannoni pronti a sparare. Sui campi dove adesso dovrebbero maturare le spighe dorate e gravide è calata una maschera alla vista della quale trema chi, solitario, la osservi. Anche chi venisse improvvisamente trasferito qui, ignaro di quanto è accaduto, anche costui dovrebbe presagire lo spirito della distruzione, i cui tratti sono incisi in questo suolo, il cui gelo penetra con il suo nero riflesso anche la luce scintillante del sole.
Tu, solare pezzo di Francia, dove ci hanno gettato forze più grandi di noi, non credere che restiamo a cuore freddo in questo deserto. E sarebbe del tutto insopportabile se non sentissimo che, sotto la distruzione, la nuova vita preme. Tu devi sopportare un destino che non hai meritato, come noi. Non sarai risparmiata, come nulla può essere risparmiato quando è in gioco la vita dei popoli. Perché in ciascuno dei tuoi muti, ignoti villaggi che oggi vengono conquistati nelle tempeste e il cui nome, domani, sarà annunciato in tutti i paesi del mondo, si gioca un pezzo di storia che può decidere di paesi e di regni. Dobbiamo perciò bandire la tristezza, perché i campi saranno nuovamente coltivati, i villaggi ricostruiti, e saranno generati più uomini del necessario - ma il tempo e il destino, inesorabilmente, ci chiamano.
Non saremo mai più legati al nostro dolce paese, come fummo un tempo. Non era già la conoscenza della sua bellezza né del suo carattere quello che ci attirava, ma un senso di comunanza, questa fraternità nostra con le cose e con gli eventi della nostra vita, che ci separava dal resto e ci rendeva un poco incomprensibile anche il mondo dei nostri genitori: perché, non so come, eravamo sempre e teneramente abbandonati, perduti in quell'amore, e la più piccola cosa ci conduceva sempre sul sentiero dell'infinito. Era, forse, il privilegio della nostra giovinezza? Noi non vedevamo limiti, il mondo intorno a noi non aveva fine, e nel sangue palpitava l'attesa, che ci faceva una cosa sola con lo scorrere dei nostri giorni.
Oggi nella patria della nostra giovinezza noi si camminerebbe come viaggiatori di passaggio: gli eventi ci hanno consumati; siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremmo forse vivere, nella dolce terra: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.
Le mani mi si raffreddano, la pelle rabbrividisce: e sì che la notte è tiepida. Ma è fredda la nebbia, questa nebbia sinistra che striscia sui morti dinanzi a noi e sugge loro l'ultimo segreto soffio di vita. Domani saranno lividi e verdi e il loro sangue ristagnerà nero.
E i razzi continuano a solcare la notte e a piovere luce implacabile sul paesaggio pietrificato, pieno di crateri e freddo come un mondo lunare. Il sangue a fior di pelle porta paura e inquietudine nelle mie idee, che si indeboliscono e si confondono, anelando a un po' di calore, a un po' di vita. I miei sensi non resistono senza un po' di consolazione, senza un po' di illusione, si smarriscono dinanzi alla nuda immagine della disperazione.
Un rumore di marmitte suscita in me la brusca voglia di qualcosa di caldo da mangiare; mi farà bene e mi tranquillizzerà. A stento mi costringo ad aspettare che vengano a rilevarmi.
Finalmente torno nel ridotto, e trovo una tazza d'orzo. È cotto col grasso ed ha buon sapore: lo mangio adagio adagio: ma rimango silenzioso, quantunque gli altri siano di buon umore, ora che il fuoco ci dà un po' di tregua.
E via, tutto il giorno, come segugi, investigando per la terra tormentata dei primi massacri.
Si ricostruiscono le passate vicende sui segni sparsi ovunque di una violenza irrompente che urtò qui contro le prime dighe: trincee addentano il terrapieno della ferrovia, arano le prime gibbosità del terreno: poi ecco, nell'infittirsi del bosco Cappuccio che sale su una moltitudine di trampoli verso l'altopiano vampante, i ragnateli arruffati di un reticolo e, poco oltre, un trincerone colmo di stracci, di rottami, di bossoli vuoti. E ovunque un seminato di croci, alcune anonime, altre con nomi ignoti, scarabocchiati a matita sui legni fradici, altre compiante da semplici parole d'affetto, altre vigilate da un bossolo di granata colmo d'acqua piovana ove qualche fiore gualcito si dondola in un'agonia infinita.
Il luogo, fatto teatro dal silenzio e dalla solitudine, evoca impeti di masse scagliate su per l'erta, vociferazioni d'assalto, oscura frenesia di strage.
La grande laboriosità silenziosa
e continua, il cannone lontano con i suoi boati lunghi e tristi; tutto,
all'inizio, pareva strapparci qualcosa dall'anima. Ora, invece, siamo posseduti
da un incessante spasimo nervoso che ci fa agire senza una vera coscienza. E
non percepiamo quasi più l’irragionevolezza di questa curiosa esistenza
guerresca né il rimpianto per le luci e l’animazione della città. Tanto siamo
diventati parte di tale vita di distruzione, che lo scoppio di uno shrapnel a pochi passi, ci lascia
insensibili con sulle labbra un sorriso diretto al tiratore incapace di
colpirci.
Dario Malini
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