La Grande Guerra di Federico De Roberto

Federico De Roberto (autore de I Viceré, membro ideale, assieme a Verga e Capuana, del gruppo che viene di solito denominato "triade verista siciliana") è scrittore troppo conosciuto perché si senta il bisogno di fare qui una sintesi della sua figura artistica e letteraria. Classe 1861, allo scoppio della Grande Guerra non poté (e al tempo stesso probabilmente fu ben lieto di non dovere) indossare l'uniforme. Come autore, questa volta per ragioni non solo anagrafiche, si manteneva convinto su posizioni antitetiche rispetto ai movimenti artistici più avanzati del tempo. Non mostrò, ad esempio, alcuna propensione per le istanze rinnovatrici delle avanguardie (futuristi, frammentisti vociani, espressionisti...), che dichiaravano a gran voce, assieme a un'attrazione famelica per la guerra e per la modernità, la morte di tutto ciò che veniva avvertito come "vecchio": in primis (morte per inadeguatezza a descrivere le inedite temperie del nuovo secolo) della prosa - in particolare della forma del romanzo - di stampo ottocentesco.
Il De Roberto condivise, con moderazione e non senza qualche iniziale tentennamento anti-interventista, le ragioni della guerra, dissociandosene solo saltuariamente e abbastanza tardi. Sugli eventi della Grande Guerra scrisse un certo numero di saggi e racconti, intesi a rappresentare con verità la vita che i soldati trascorrevano al fronte. Si tratta di narrazioni di altalenante valore e posizione, che non mostrano significative modifiche degli strumenti e dei modi che tanto egregiamente erano serviti allo scrittore per raccontare la vita più intima e segreta della sua terra, ma che in tale nuovo contesto (che minava alle radici le ragioni della poetica verista come delle verità positiviste) si mostrano spesso inadeguati.


E. Sacchetti, da L'ultimo voto di F. De Roberto
(«La lettura» n° 3, marzo 1923)
Cominciamo la nostra riflessione aprendo la novella L'ultimo voto, uscita nel marzo 1923 sulla rivista «La lettura». Nella prima parte di questo testo si narra il travagliato recupero, in un paesaggio fantastico e dai tratti quasi metafisici, del cadavere di un capitano, caduto nel corso di un'eroica azione di guerra e rimasto quindi sepolto sotto la neve nei pressi delle linee nemiche: 

La bella stagione doveva certamente sopravvenire, ma quando? Come la pace, pareva relegata in un favoloso avvenire. I giorni brevissimi, dalle albe fosche e pigre, dai torvi meriggi, dai rapidi e tristi crepuscoli, si susseguivano, interminabilmente. Spesso la caligine s'infittiva talmente che i lividi 
riflessi dei nevai erano la sola sorgente luminosa, come se cielo e terra, in quello sconvolgimento della natura, avessero scambiato le parti, e la luce, perdute le vie dell'aria, si fosse rifugiata tutta contro il suolo. Nei rari giorni sereni abbagliava sotto il sole rutilante ma assiderato, e Tancredi profittava dell'opportunità per spedire pattuglie di perlustrazione [...]. Allora, insaccati nelle cappe bianche, incappucciati di bianco per confondersi nella bianchezza universale, con le racchette ai piedi se la neve era tenera, o con i ramponi se rassodata, i soldati uscivano dai baraccamenti, dei quali gli zappatori avevano sgombrato con le pale le aperture, e dopo aver formato la cordata si dirigevano verso l'alto. Intinta nel rosso di fucsina, la cima della fune pendente dal fianco dell'uomo di coda rigava come sangue il candore delle nevi, affinché fosse possibile ritrovare la via, al ritorno; ma, guastandosi il tempo, le pattuglie correvano il rischio di smarrirsi; quindi se vedeva trascorrere l'ora assegnata, Tancredi si metteva egli stesso a capo di una battuta per rintracciarle. Provvisti di megafoni durante il giorno e di razzi luminosi la notte, i segnalatori chiamavano con la voce ingrossata dallo strumento o tiravano i fuochi per mettere sulla buona strada i fuorviati. Due uomini furono perduti, un giorno, sotto la valanga.
Talvolta, di ritorno alla linea, i soli sfiatatoi delle stufe, dai quali uscivano turbini di fumo solcati da faville, la rivelavano: la neve, nel frattempo, aveva un'altra volta otturato le entrate, mascherato le finestre, raggiunto e ricoperto i tetti: gli zappatori dovevano riprendere il loro lavoro per riaprire il passaggio.
F. De Roberto, L'ultimo voto

Il luogo mentale (ché tale fu  il fronte per il nostro che da esso si tenne sempre a debita distanza) della "zona di guerra" viene qui descritto con notevole pertinenza e scrupolo per i dettagli, evidenziando un'accuratezza scientifica da verista: si noti, ad esempio, il particolare tecnico ricercato della fune intinta nel rosso di fucsina (nota 1). Ma la vera forza del brano sta - per contrasto - nel tono quasi favolistico che assume la descrizione del paesaggio invernale montano: intonazione tanto preponderante da forzare la natura stessa della narrazione e della realtà oggettiva che dovrebbe esservi rappresentata. Al punto che le stesse leggi fisiche (il comportamento della luce e del suono, lo scorrere del tempo...) sembrano piegarsi alla caratterizzazione poetica della vicenda. Tutto ciò va a modificare (in un modo che forse non sarebbe dispiaciuto a un Savinio o a un Calvino) la percezione del mondo innevato in cui vivono i soldati, che acquisisce un respiro quasi mitico. La seconda parte del racconto, segnata da una evidente finalità didattico-propagandistica, risulta invece abbastanza stucchevole (sebbene alleggerita da un'altra tipica caratteristica della scrittura del De Roberto, l'ironia): l'aristocratica ed algida consorte dell'eroico capitano, la cui salma è stata infine recuperata e identificata, si rivela del tutto indifferente al martirio del marito, interessata soltanto al riconoscimento della morte del congiunto al fine di poter richiedere la pensione spettante alle vedove di guerra.


E. Sacchetti, da L'ultimo voto di F. De Roberto
(«La lettura» n° 3, marzo 1923)
Il racconto La paura, uscito nel 1921 (nota 2), viene unanimemente considerato il più riuscito degli scritti che il nostro ha dedicato alla Grande Guerra: quello che più d'ogni altro ha valore di denuncia universale degli orrori della guerra, quasi un manifesto dell'antimilitarismo. Vedremo quanto di vero e quanto di di falso c'è, a nostro modo di vedere, in una tale valutazione. Anche in questo testo si evidenzia, sin dalle prime righe, la significatività che, nell'economia della narrazione, assumono le descrizioni paesistiche:

Nell'orrore della guerra l'orrore della natura: la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise, la forca del Palalto e del Palbasso, i precipizii  della Fòlpola: un paese fantastico, uno scenario da Sabba romantico, la porta dell'Inferno.
Non una macchia d'albero, non un filo d'erba tranne che nel fondo delle vallate: laggiù un caotico cumulo di rupi e di sassi, l'ossatura della terra messa a nudo, scarnificata, dislogata e rotta. Gran parte delle trincee s'erano dovute aprire spaccando il vivo masso, a furia di mine: il monte delle schegge aveva dato il materiale per i muretti e il pietrisco era servito a riempire i sacchi-a-terra.
L'acqua mancava del tutto e doveva essere trasportata a schiena di mulo, nelle ghirbe, insieme con i viveri.
F. De Roberto, La paura

Poco dopo appaiono i soldati e cominciano a delinearsi i termini precisi della vicenda.

Il servizio più penoso toccava alla vedetta posta all'imbocco del canalone che andava a finire nella conca del Corbin: poiché solamente di lì i nemici potevano tentare una sorpresa, gli ordini portavano che quel passaggio fosse continuamente esplorato dall'alto, e precisamente dal punto già designato per la postazione d'una mitragliatrice alla quale si era poi dovuto rinunziare non essendo possibile mascherarla.
La piazzola, quantunque lontana soltanto una cinquantina di metri dalla trincea, ne pareva remotissima essendone distaccata del tutto: un certo tratto della linea d'accesso restava bene o male riparato da due muriccioli formanti camminamento; ma più oltre, per la natura e la configurazione del terreno, non si era potuto improvvisare nessuna sorta di riparo, e l'uomo destinato alla fazione doveva avanzarsi carponi, insinuandosi tra le pieghe del suolo, fino a una radice di parapetto formato dalle sporgenze della roccia e rialzato alla meglio con sacchi e sacchetti. Lì, durante due ore, in una posizione incomodissima, sotto il sole dei meriggi estivi e al gelo delle notti, la vedetta aveva la consegna di non perdere mai di vista il fondo della forra.
F. De Roberto, La paura

La situazione di calma assoluta che viene descritta all'inizio del racconto (di cui il lettore viene informato attraverso il rimuginare del protagonista della storia, il tenente Alfani, comandante del distaccamento, insoddisfatto d'essere stato trasferito in quel settore dove la guerra stagnava) muta all'improvviso quando si sentono, per la prima volta dopo tanto tempo, esplodere dei colpi di fucile. Il cuore della vicenda prende l'avvio poco dopo, nel momento in cui è necessario dare il cambio al soldato di vedetta: è il turno del soldato Caletti.

[Caletti era] un ragazzo ancora imberbe, con un viso bianco e roseo che pareva una mela, con occhi chiari, pieni di stupore. Pochissimo amante dei lavori manuali, tutte le volte che bisognava adoperare la piccozza e il badile rispondeva invariabilmente: «Songo malato!» ma Alfani, che conosceva uno per uno tutti i suoi uomini, sapeva di poter fare assegnamento sulla prontezza e il coraggio dell’infingardo quando era il momento di affrontare i nemici.
F. De Roberto, La paura

Una caratterizzazione segnata da una buona dose di benevolo paternalismo. Ma seguiamo Caletti mentre s'avvia verso la piazzola:

Riportando lo sguardo sul terreno fronteggiante la trincea, Alfani vide il soldato uscire dal camminamento col fucile a bilanciarm e procedere fra le asperità del passo scoperto, curvandosi appena, con la sicurezza che gli veniva dalla lunga pratica e dalla tranquillità dei nemici.
«No! No!» voleva gridargli, poiché i nemici s'eran destati. «Più basso!… Copriti!»
E parve veramente che Caletti avesse udito le parole pensate dal suo tenente; perché, dinanzi all'ultimo tratto, il più pericoloso, si fermò un momento; poi si buttò in ginocchio, s’allungò e strisciò su per la breve erta, verso la piazzola. Giuntovi vicino, levò un poco il capo, forse nell'udirsi chiamare dal compagno che veniva a rilevare; ma allora, improvvisamente, al sinistro ta-pum d’una fucilata, il corpo s’accasciò.
F. De Roberto, La paura

Un cecchino nemico, appostato in luogo irraggiungibile con un fucile di precisione, tiene sotto tiro, con mira infallibile, la strada scoperta che porta alla piazzola. Si avvia così una sorta di macabro rituale che vede cadere uno dopo l'altro tutti i soldati che si vi avviano verso il luogo da presidiare. «Capoposto!» chiamò [Alfani] rivoltandosi. «Manda chi viene dopo.» La vicenda non ha un vero sbocco: termina con l'atto estremo dell'ennesimo giovane, il soldato Morana  (un prode, un veterano d'Africa), cui il tenente Alfani impartisce l'ordine di avviarsi lungo la via scoperta, presa di mira dal cecchino:

«A chi l’è che tocca?»
«Nummero uno d'a siconna squadra!»
Tutti gli uomini del secondo turno della prima giacevano a terra.
«Morana!» chiamò il capoposto.
Nessuno dei soldati ripeté il nome, mentre il nuovo chiamato si avanzava, pallido ma con passo fermo.
Era un prode, un veterano d’Africa: aveva il petto fregiato del nastrino azzurro per una medaglia di bronzo guadagnatasi in Libia con una motivazione degna di quella d’argento. Bel giovane, alto, forte, animoso: Alfani lo aveva esperimentato in molte occasioni, e sempre se n’era lodato, predicendogli che quel nastrino ne avrebbe presto figliato altri. Poiché l’atroce ingranaggio ricominciava a funzionare, poiché il destino inesorabile doveva compiersi meccanicamente, egli disse, studiandosi di dare fermezza alla voce: 
«Be’, Morana: questa è la volta di far vedere come si compie il proprio dovere.» 
Senza lasciare con gli occhi gli occhi del superiore, il soldato rispose: 
«Signor tenente, io non ci vado.»
Alla prima, Alfani credette d’aver frainteso.
«Cos’hai detto?»
Livido, Morana rispose, più forte:
«Signor tenente, io non ci vado.»
[...]
Alfani avvampò. Appuntandogli un dito contro il viso terreo e avanzandosi d’un passo, esclamò:
«Tu?… Sei tu che ti neghi?… Un valoroso come te?… O non sei più il Morana del Passo dell’Antenna e del Casello di Breno? O non sei più quello che ha visto a faccia a faccia i diavoli di Libia e li ha fatti scappare?»
Non rispose, ricominciò a tremare, arretrandosi come per istinto: e Alfani raccolse tutta la sua forza per riprendere ad esortarlo:
«Or via, non me lo far ripetere!… Vedrai che l’austriaco non tirerà… Aspettiamo un poco: crederanno che abbiamo rinunziato a staccar la vedetta… Farò riprendere il fuoco dell’artiglieria, finché non lo ridurremo a star zitto!»
[...]
Ma l’altro si traeva ancora indietro, quasi sotto la minaccia del colpo mortale; e non tanto il rifiuto quanto l’irragionevolezza dalla quale gli pareva dettato arrovellò l’ufficiale.
«Ma come?… Preferisci sei pallottole nella schiena ad una che può anche lasciarti vivo?»
Afferrato allora il riluttante con le due mani per le spalle, Borga lo scosse forte, e gli gettò in faccia:
«Di’, vôi, come l’è che femm?»
Improvvisamente gli occhi di Morana lampeggiarono, mentre il corpo si torceva per sottrarsi alla stretta:
«Ecco… così…»
E prima che nessuno avesse tempo di comprendere che cosa volesse dire, che cosa stesse per fare, corse lungo il fosso, fino al cunicolo, si chinò ad afferrare il moschetto, ne appoggiò al ciglio di fuoco il calcio, se ne appuntò la bocca sotto il mento, e trasse il colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del parapetto.
F. De Roberto, La paura

Finale a sorpresa, di notevole impatto emotivo, che evidenzia con forza l'impotenza del soldato rispetto all'atroce ingranaggio della guerra e al destino inesorabile che per lui si compie meccanicamente. Certo un potente monito contro la crudeltà della vita di trincea, ma che - come un'attenta lettura permetterà di notare - non riguarda tanto la crudeltà e l'insensatezza della prima guerra industriale nel suo insieme, quanto piuttosto alcuni dei suoi terribili effetti. Si noti ad esempio come l'ordine di presidiare costantemente il passaggio (poiché solamente di lì i nemici potevano tentare una sorpresa), elemento che rappresenta il vero propellente del congegno narrativo, non possa essere considerato - da nessun punto di vista - irragionevole. Nulla a che spartire, per citare solo un notissimo riferimento della letteratura antimilitarista, con le richieste deliranti del generale Leone di Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu. Inoltre l'incoercibile paura che si impossessa del soldato Morana (Gli occhi smarriti, le labbra paonazze dicevano di sì, che egli aveva paura, tanta paura, una paura folle, ora che non si doveva combattere in campo aperto, ora che l’orrida morte era accovacciata lassù), potrebbe in qualche modo andare a spiegare il suo gesto autodistruttivo, che verrebbe così privato di gran parte del suo valore di sovversione dell'ordine costituito. Allo stesso modo, il discorso condiscendente rivolto dal tenente Alfani al soldato per spronarlo ad uscire, non sembra trovare espliciti anticorpi nell'insieme del testo: «Vuoi proprio mettere con le spalle al muro il tuo tenente che ti vuol bene, che vi vuol bene tutti, che darebbe la sua vita per quella dei suoi ragazzi?… Gli ordini, li sai?… Lo sai, che io debbo eseguirli?». Qui come altrove, come abbiamo già evidenziato, i fanti sono tratteggiati con parole benevole ma non senza sufficienza, quasi non fossero che bambini capricciosi da tenere sulla retta via. Federico De Roberto, scrittore verista in trasferta nelle alienazioni del nuovo secolo, ancorato com'è alla terra quale generatrice di fenomeni sociali e di caratteri, non può che smarrirsi nel descrivere i combattenti al fronte: soggetti strappati alla loro propria esistenza e storia personale e dunque, dal punto di vista della poetica dell'autore, quasi fluttuanti nel nulla: semplici marionette prive di precisa caratterizzazione psicologica. Né l'utilizzo frequente della parlata dialettale smuove granché la situazione, rappresentando null'altro che un motivo di vivacità per il testo. Nonostante ciò non è possibile negare a questo scritto la volontà di comunicare un genuino orrore intorno alla sorte dei soldati al fronte. Un sentire che però, lasciando fuori la scena finale, non è mai pienamente espresso, urtando contro una sottesa visione - assai diffusa tra la borghesia moralista del tempo - che considerava invece il sacrificio del fante come un elemento doloroso ma inevitabile della guerra (nota 3). Anche nella dirompente scena che chiude La paurala manifestazione improvvisa di un moto d'opposizione alla coercizione e alla morte non sembra costituire una precisa, circostanziata e motivata denuncia di un cinico modus operandi tipico delle operazioni militari della Grande Guerra, quanto piuttosto un tentativo - letterariamente non del tutto riuscito perché non adeguatamente preparato - di superare d'un balzo ogni vincolo ideologico che avrebbe censurato tale espressione.

Si potrebbe dunque concludere, generalizzando quanto detto fin qui, asserendo che gli scritti sulla Grande Guerra di Federico De Roberto siano un amalgama disomogeneo di molte istanze, un insieme di tasselli, ognuno in se stesso anche ben delineato, ma che non possono - per quanti sforzi l'autore abbia fatto - aderire con precisione l'uno all'altro. Tale dolorosa impossibilità di ricomporre la realtà della Grande Guerra (così differente dalle guerre risorgimentali) in una visione unitaria documenta in presa diretta l'insanabile frattura verificatosi in quegli anni, che è assieme storica, sociale e letteraria. E gli ambigui e iridescenti riverberi che di tale crisi si mostrano in queste opere contribuiscono a farne dei testi vitalissimi che andrebbero maggiormente conosciuti e diffusi.


Dario Malini

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Note
1 Fucsina: sostanza colorante basica derivata dal trifenil-metano. Fu preparata da E. Verguin nel 1858. È la prima sostanza colorante artificiale che, dopo la malveina di Perkin, sia stata prodotta su scala industriale (Enciclopedia Treccani).
2 La paura è stato recentemente ripubblicato, assieme ad altri racconti sul tema della Prima guerra mondiale: Federico De Roberto, La paura e altri racconti della grande guerra, E/O edizioni, Roma 2014.
3 L'orrore per la guerra così rimosso, si rivela segretamente in elementi secondari; ad esempio, come abbiamo più volte suggerito in questo intervento, nelle raffigurazione dei luoghi, spesso straziati, che fanno da palcoscenico ai combattimenti.  

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