Film europei e americani sulla Grande Guerra degli anni Quaranta e Cinquanta


Tra le pellicole inglesi degli anni Quaranta, essenziale è The Life and Death of Colonel Blimp (Duello a Berlino), del 1943, di Michael Powell e Emeric Pressburger. Tratto da un popolare fumetto satirico e antimilitarista, il film racconta, nello stile della grande saga drammatica e romantica, l'amicizia "impossibile" tra due ufficiali: inglese il primo, tedesco il secondo. Un rapporto che dura ininterrottamente dal 1902 al 1943, superando indenne due guerre e l'amore per la stessa donna. Una storia scomoda che subì incredibili censure e tagli produttivi, rappresentando un omaggio a valori  - capaci di superare le rigide barriere del nazionalismo - che la cultura del Novecento ha rimosso o contrastato: l’onore, lo spirito aristocratico di casta, il cameratismo, la solidarietà tra anime affini. Una grande lezione di cinema da accostare ad opere del livello di La grande illusione di Renoir (nota 1).


Le diable au corps (Il diavolo in corpo) di Claude Autant-Lara, film francese del 1947, adotta una prospettiva originale nel descrivere gli anni della Grande Guerra. Ambientato nel 1918, racconta la vicenda "immorale" di Marthe: mentre il marito ufficiale è al fronte, la ragazza diviene amante di François, un liceale di pochi anni più giovane di lei, morendo infine nel darne alla luce il figlio. La storia è riferita in flashback, a partire dai funerali di Marthe, celebrati mentre sono in corso i festeggiamenti per l’armistizio. Nonostante il sovrabbondante sentimentalismo, la narrazione, grazie soprattutto ai due bravi interpreti, conserva qualcosa dell’ardore iconoclasta dell'omonimo romanzo-scandalo di Radiguet, del 1923, assieme a efficaci note di dolorosa tenerezza di fronte all'orrore della guerra, la cui rappresentazione è qui tutta risolta in assenza (nota 2).


Tra le opere americane degli anni Cinquanta è da citare What Price Glory? (Uomini alla ventura) di John Ford, uscito nel 1952, rifacimento del film Gloria di Raoul Walsh del 1926. Racconta la vicenda di due vecchi amici, un capitano e un sergente dei Marines, facenti parte di un battaglione stanziato, a riposo, nelle retrovie del fronte francese. Il contemporaneo corteggiamento di una graziosa ragazza del posto verrà interrotto dalla partenza del battaglione per il fronte. Film piuttosto statico e opaco, da considerare un lavoro secondario nella importante filmografia di Ford. Il registra, che sembra mettere a fuoco a fatica la singolare mistura di arguzia e amarezza presente nell'originale, cerca di contrastare la tematica chiave della dissoluzione del mito di una guerra eroica, fornendo ai soldati i connotati di adepti - apostoli e martiri - di una sorta di causa trascendente (nota 3).


Da ricordare anche A Farewell to Arms (Addio alle armi) di Charles Vidor, del 1957, seconda pellicola - dopo quella di Frank Borzage del 1932 - tratta dall'omonimo best seller internazionale di Ernest Hemingway. Tentando di perseguire una linea di realismo e aderenza al romanzo, il film fu girato in Italia, fra Friuli-Venezia Giulia, Veneto e il Lago Maggiore, non lontano dai luoghi - scenari reali della guerra - descritti nel libro. Centrata com'è sulla storia d'amore tra i due protagonisti, resa in stampo smaccatamente hollywoodiano, l'opera lascia l'evento bellico sullo sfondo, perdendo molto del mordente della vicenda originale (nota 4).


Lafayette Escadrille (La squadriglia Lafayette) di William A. Wellman, uscito nel 1958, narra la storia - divenuta classica - del giovane Thad Walker, trasferitosi a Parigi dagli Stati Uniti, negli anni della Grande Guerra, per arruolarsi nella Legione Straniera. L'iniziativa si rivela fallimentare: nei campi di addestramento il ragazzo si scontra con addestratori rozzi, che non parlano neppure l’inglese, e, durante una lite, reagisce picchiandone uno. Fuggito a Parigi, si nasconde in casa di Renée, una bella ragazza francese conosciuta nel frattempo. La vicenda si sblocca con il fortuito incontro di un connazionale che presta servizio nella squadriglia Lafayette, una formazione aerea americana che combatte al fianco dei francesi. Entrato anche lui a far parte della squadriglia, Thad potrà finalmente dimostrare il proprio coraggio e tornare dall'amata Renée. Sebbene con questo film, l'ultimo nella filmografia di Wellman, il regista torni a trattare temi autobiografici (si ricorda che prestò servizio come pilota nella Grande Guerra), la narrazione risulta poco emozionante, andando ad annacquarsi in un prodotto che somiglia  più a una soap opera che ad un film epico.


Caposaldo del cinema americano sulla Grande Guerra è Paths of Glory (Orizzonti di gloria) di Stanley Kubrick, uscito nel 1957. Basato su fatti realmente accaduti nel 1916, sul fronte franco-tedesco, il film rompe fin da subito il paradigma amici-nemici così tipico del genere, mostrando gli eserciti contrapposti divisi equamente tra giovani soldati laceri e feriti, e crudeli e ambiziosi ufficiali - adulti o anziani - agli ordini di generali senza scrupoli. Quando un sanguinoso attacco fallisce, tre soldati semplici francesi vengono processati per codardia e fucilati per placare le pressioni del “comando supremo”, mentre l'unico ufficiale che interviene in loro difesa, il colonnello Dax,  viene trattato con disprezzo dai superiori. In una tale visione antimilitarista, la guerra diviene, più che il contrasto momentaneo con un “nemico” occasionale, la manifestazione di un conflitto insanabile che separa due classi - sociali ma anche d'età - contrapposte, fatto che il film enfatizza mostrando una netta separazione spaziale tra ufficiali e soldati, chiusi questi ultimi nel cosmo labirintico di immani trincee. Emerge così la differente visione spazio-temporale degli alti ufficiali e dei soldati, disponendo i primi di un quadro complessivo dello scontro, incapaci i secondi di orizzontarsi – fisicamente e mentalmente – negli spazi sconvolti dalla furia delle armi. La reificazione degli individui viene portata alle sue estreme conseguenze nella scena della battaglia, che resta una delle vette drammatiche del film: è proprio l’anonimato dei combattenti che, rendendo impossibile ogni scappatoia sentimentale, amplifica e generalizza la portata disumanizzante del massacro. La stessa preparazione logistica dell’attacco è ridotta ad una fredda operazione di contabilità delle perdite prevedibili, cosicché la pianificazione della guerra diviene la partita doppia della morte, un mostruoso «giocattolo logico» che considera i giovani soldati come automi in divisa da combattimento (nota 5). Il messaggio di Kubrick supera così la specificità del Primo conflitto mondiale, divenendo ad un tempo metafora universale della guerra e spietata analisi dei conflitti di classe e dei meccanismi inevitabili del «potere».


Stefano Cò


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Note

1) Duello a Berlino è tratto da un popolare fumetto satirico e antimilitarista di David Low, del 1942, il cui protagonista è una figura pomposa di militare in carriera. Attraverso l’ampia tessitura narrativa di un'amicizia anglo-tedesca lungo cinquant'anni di storia europea, il film dispiega le sottigliezze psicologiche di Pressburger e il «lussureggiante immaginario visivo» di Powell, divenendo un modello per il cinema d’autore posteriore. Esemplari restano modalità narrative quali la struttura temporale - chiusa in un lungo flashback che non «teme» le ellissi né le pause -, le improvvise impennate della macchina da presa e altre caratteristiche stilistiche, contenente i mondi, gli eccessi, l’ironia e la tolleranza, l’umanesimo e il romanticismo dei loro film futuri, vedi la scheda di Emanuela Martini su Michael Powell nel Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. III, cit., p. 98; per una interessante sintesi sul film vedi ancora Emanuela Martini, M. Powell – E. Pressburger, Il castoro cinema/La nuova Italia, Firenze, 1988, pp. 42-48.
2) Il film Il diavolo in corpo è tratto dall'omonimo romanzo di Raymond Radiguet del 1923, sceneggiato da due grandi autori del cinema francese come Jean Aurenche e Pierre Bost. Nel 1949 fu inserito dal National Board of Review of Motion Pictures nella lista dei migliori dieci film dell'anno. Per approfondimenti in merito ad alcuni rilievi critici fatti al film (accusato di scandalo replicato, antibellicismo premeditato; come sulla più tarda accusa truffautiana di sovrapposizione indebita al testo di Radiguet, e sulla «luminosa vaghezza di Gérard Philipe che fa splendere l’oltraggio ai reduci, ai devoti, alle vedove di guerra»), cfr. la scheda sul regista di Michele Canosa nel Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. I, cit., p. 92.
3) Film tratto dalla pièce What Price Glory? (1924) di Laurence Stallings e Maxwell Anderson, qui scritta da Phoebe e Henry Ephron; l'imprevedibile innesto poi di due numeri musicali aumenta l’incertezza della regia e lo sconcerto dello spettatore: «Troppo leggero per essere serio e di una comicità troppo casuale per essere una buona commedia... simpatico (perché lo sono i due protagonisti), ma mai commovente o completo» (J.A. Place, citato nella relativa scheda in MY Movies.it).
4) Addio alle armi è tratto, più che dal romanzo di Hemingway, dalla sua derivazione teatrale, sceneggiata da un grande come Ben Hecht. La regia non ha tuttavia saputo tradurre in immagini detta scrittura, annacquando la tematica di guerra - raccontata nel copione teatrale non senza sferzanti rilievi critici - e soffermandosi invece, in maniera leziosa, sulla storia sentimentale. Nonostante la fama del regista, degli attori e del romanzo, e nonostante la buona ambientazione italiana, la pellicola (presentata all'uscita come l’evento dell’anno) non fu all'altezza delle aspettative. Peraltro gli attori principali, Rock Hudson e Jennifer Jones, avevano già qualche anno di troppo rispetto ai personaggi da interpretare. Buone, invece, le interpretazioni degli attori italiani (Vittorio De Sica e Alberto Sordi) che riescono a surclassare i loro colleghi americani, tanto che l'interpretazione valse a De Sica una nomination all'Oscar come miglior attore non protagonista. Tra i giovani attori italiani si possono ricordare: nel ruolo di un carabiniere Bud Spencer ed il padre di Kim Rossi Stuart, Giacomo. Nel 1957 il National Board of Review of Motion Pictures  ha inserito Addio alle armi nella lista dei migliori dieci film dell'anno (notizie tratte dalle schede dei siti Wikipedia, FilmTv.it). Sul film di Wellman e una più ampia disanima dei suoi altri film bellici, e sulla sua attenzione per i comportamenti dei gruppi maschili e una spiccata tendenza a caratterizzare tipi irrequieti e ribelli, vedi la scheda di Carlo Gaberscek nel Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. III, cit., pp. 617-19.
5Orizzonti di gloria: sul tema della problematica dei “nemici” e le differenze di classe sociale e di spazi e luoghi vedi gli spunti interessanti di Sergio Toffetti, Stanley Kubrick, Moizzi editore, Milano, 1978, pp. 18-19, Giaime Alonge, op. cit., pp. 202-203, 208 e 211-212 e Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro/La Nuova Italia, Firenze, 1983, pp. 45-56. Per le varie figure simboliche rintracciabili nel film vedi gli incisivi riferimenti di Giaime Alonge, cit., pp. 201-202 e 209-211, per quello eloquente alla logica del potere del macchinario militare in Sergio Toffetti, Stanley Kubrick, op. cit, p. 19; per un’analisi alle ultime immagini, Sergio Toffetti, op. cit., p. 22 e l’analisi dei calcoli matematici del generale e le diverse visioni della scena della battaglia in Giaime Alonge, cit., pp. 209 e 210-212. Sull'ironia di una ricostruzione minuziosamente realistica, ma costruita in modo da rivelare tutta l’assurdità degli eventi narrati, sulla maniacale ricercatezza linguistica, che culmina nella memorabile serie di lunghe sequenze al dolly fra le trincee e l’uso di ogni inquadratura, carrello e tagli di montaggio per servire a sottolineare l’«allucinante nonsenso del rituale», e per alcune immagini significative vedi Roberto Nipoti, op. cit., pp. 110-115. Sul riferimento all'uso della macchina da presa come una mitragliatrice e per una breve sintesi sulla rappresentazione della violenza e sulla follia della guerra, Claufio G. Fava, op. cit., pp. 98-99; sulla considerazione che Orizzonti di gloria non sia solo interessato specificatamente al primo conflitto mondiale, ma anche una metafora della guerra in generale, oppure un’analisi dei conflitti di classe, dei meccanismi del «potere», per cui nel film, messo in relazione anche con gli altri «di genere» che provavano a umanizzare la macchina militare facendo prevalere la ragione e la logica, è ancora la logica che prevale, quella fredda e consequenziale del potere la cui vittoria può affermarsi soltanto a prezzo dello scacco degli uomini, non «soggetti pensanti» ma «oggetti pensati», vedi l’efficace analisi delle sequenze filmiche, Sergio Toffetti, cit., pp. 20-21, Giaime Alonge, cit., pp. 205-207 e Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, op. cit., pp. 50-52.

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