"Ognuno " di Ernst Wiechert


OGNUNO
Storia d'un senza nome
Vi dice qualcosa il nome di Ernst Wiechert? Probabilmente no, ed è un vero peccato perché si tratta di uno scrittore di notevole valore, la cui voce - ormai pressoché caduta nell'oblio - rappresenta un tassello importante per comprendere quell'universo sfaccettato che, al di là di letture semplicistiche e unilaterali, fu la Germania della prima metà del XX secolo.
Ernst Wiechert nel 1928
Nato a Kleinort, nella Prussia Orientale, nel 1887, Wiechert è autore di un'opera vasta e pregnante che si sofferma sovente, con notevole capacità di penetrazione psicologica, sulla generazione la cui vita è stata segnata da due conflitti mondiali. Lo scrittore partecipò direttamente alla Grande Guerra, restando indelebilmente segnato da quell'esperienza. A partire da ciò, elaborò un vero e proprio sistema filosofico caratterizzato da un pessimismo abbastanza radicale sul futuro della nostra civiltà. Si oppose fin dall'inizio con coraggio all'ideologia nazista, subendo anche un internamento di alcuni mesi a Buchenwald. Dopo il crollo del Terzo Reich, Wiechert, criticato aspramente in patria, si trasferì in Svizzera, dove morì nel 1950.



Non diremo nulla intorno alla difficoltà che la critica (non solo italiana) ha sovente dimostrato nell'avvicinarsi senza pregiudizi all'opera di questo artista "controcorrente", la cui visione cristallina della società del suo tempo e delle contraddizioni insite nella "modernità" venne spesso avvertita come retrograda. Ci concentreremo invece, restando nell'ambito stretto dei nostri interessi, su un romanzo straordinario, oggi del tutto dimenticato: Ognuno - Storia d'un senza nomeUscito nel 1931, Ognuno (Jedermann, in originale) rappresenta il tentativo meditato, a oltre un decennio dagli avvenimenti che narra, di raccontare la trasformazione del mondo mentale di chi si dovette scontrare con la realtà feroce, squallida e priva di senso della Grande Guerra. Pochissime informazioni concrete di date e di luoghi fornisce questo testo, che intende invece seguire passo passo i pensieri ed il sentire - il flusso della coscienza, verrebbe da dire - dei suoi giovani protagonisti, la loro capacità non solo di sopravvivere ai pericoli della guerra, ma anche, e soprattutto, di resistere all'orrore, restando (o "diventando", poiché è questo, sebbene in un senso abbastanza speciale, anche un romanzo di formazione) uomini.
Quattro sono i protagonisti di queste pagine (i testi citati si avvalgono della traduzione italiana di Massimo Mila), tre dei quali presentati fin nell'incipit del romanzo:
Siedono sulla scala di pietra davanti all'ala della caserma, Giovanni Karsten, studente in legge; Klaus Wirtulla, professione: candidato all'esame di maturità; Percy Pfeil, studente in filosofia. Si sono messi i sacchi da montagna dietro la schiena e fumano sigarette. Unico rimedio contro l'attesa, l'eccitazione, la guerra. [...] Il sole sfavilla sulla sabbia del cortile. Tutte le porte sono aperte e da ogni apertura sembra che si precipiti fuori la guerra.
La guerra è appena scoppiata e i ragazzi, volontari, attendono di essere arruolati. Le pagine - riuscitissime - che descrivono le fasi del loro inquadramento nell'esercito tedesco, danno già il tono del romanzo, quel suo avanzare pensoso e intimo tra cose grandi e soverchianti:
Gran discorrere di patria, di parenti che sono lì fuori ad aspettare, di coraggio, di decorazioni. Tutto ad alta voce e senza ritegno, con un che di scolastico; tutto sa un po' troppo di offerta, di inaugurazione, di distribuzione di premi. [...] Giovanni è un po' a disagio, perché la moltitudine livellatrice lo opprime. [...] Strano che in tutti i discorsi ronzanti intorno, il passato è completamente spento. La vita non è una terra che si prolunghi molto indietro come un grande tessuto interrotto, fino a un principio. Essa ricomincia per la prima volta ad ogni battito del cuore, e il successivo già spegne ciò che pur ora riempiva tutta la coscienza. La vita è un presente compresso, che conta soltanto come soglia dell'avvenire, e l'attesa che afferra tutti questi giovani è qualcosa di più che una condizione momentanea, è il senso stesso della loro attività, come se una scala li sollevasse tutti insieme, un gradino dopo l'altro, senza che essi abbiano nulla da fare se non aspettare alla porta.
Non possiamo lasciare questa prima parte del romanzo senza citare le righe che introducono il quarto protagonista della storia. Ecco la sua prima, poco solenne, apparizione, nel corso di un'esercitazione:
Ci fu un'interruzione quando Oberüber, con un'allegra faccia aggrinzita, cui la mancanza di due denti anteriori prestava un che di irriverente e scanzonato, chiese il permesso di uscire dai ranghi. Interrogato senza tanti complimenti se fosse impazzito, ritornò ridendo nel gruppo, posò accuratamente a terra la sua scatola di cartone e ficcò ambo le mani, con una specie di legittima difesa, nelle tasche dei pantaloni.
Poco dopo il vivace Enrico Oberüber, di bassa estrazione sociale e spirito arguto, verrà accolto nel gruppo dei nostri, a far da opportuno contrappunto alla visione pensierosa e un poco idealizzata della guerra che appartiene ai tre studenti:
Anche Percy rise, e prima che i gruppi fossero separati trovò tempo di scambiare due parole col colpevole e di disporre le cose in modo ch'egli venisse nel loro gruppo: «Noi abbiamo due malinconici, camerata», disse colla sua maniera tranquilla e naturale, «e tu potresti esser loro utile. Oltre a loro ci sono io, conte Pfeil, e tu non te la passerai male con noi». Oberüber fischiò leggermente attraverso il vano dei denti, spiegò amichevolmente che questa era la prima volta in vita sua che un conte si dava da fare per lui, segno che anche in lui qualche cosa di buono doveva esserci, e senz'altro s'infilò nel gruppo.
Comincia quindi il periodo d'istruzione e di preparazione alla guerra di cui già si avverte il potere livellatore ed estraniante:
Accanto a sé, [Giovanni] sentiva il respiro di Klaus e di Percy, e un grande amore lo prese per la loro presenza, perché erano lì e non lo avevano lasciato solo di fronte al domani. E il domani era Hasenbein, la posizione dello sgabello, l'essere martellati sull'incudine dell'uguaglianza, di una collettività formata di gruppi, non di individui: questi non avrebbero più avuto nome, ma numeri sulle spalle. «La morte viene molto prima di quando si cadrà», pensò.
E arriva il giorno della partenza, accolta dai nostri ex studenti con quel misto di idealismo e di festosa malinconia che caratterizza sovente il loro sentire in questa fase, che - qui come altrove - la freschezza popolaresca di Oberüber sa dotare di un senso e convogliare in sfoghi liberatori:
Mentre gli altri discorrevano tra loro eccitati, essi risalirono la scala con visi tranquilli. [...] «Stavolta l'abbiamo finita di fare i figli di mamma!» disse Oberüber, e tirò un calcio al primo sgabello, che gli fece volare due pagliericci. Sentivano tutto ciò come normale, e quando Klaus, ancora un po' stordito, chiese se avrebbero marciato ancora nello stesso reparto, se lo issarono sulle spalle e lo portarono lungo il corridoio cantando la marcia trionfale di Oberüber: «Proprio ora vogliamo viaggiare... perché ora ci tocca viaggiar».
Anche il viaggio verso il fronte viene descritto senza alcuna retorica, in una cronaca che rifugge dai fatti oggettivi (si noti, ad esempio, come il lettore venga a sapere quasi di sfuggita che la prima destinazione dei soldati è la Polonia), prestando invece la massima attenzione alle leggi bizzarre e ai trasalimenti che appartengono al cosmo dell'interiorità:
Qualche cosa si accasciò in loro, come se fosse stato sospeso a fili, e ora i fili fossero stati tagliati. Il loro corpo era mortalmente stanco, e le labbra si rifiutavano alla fatica e all’asprezza di una parola. Sedevano ai loro posti, cogli occhi chiusi, e aspettavano che la nuova vita si muovesse in loro. Solo Percy stava al finestrino e guardava fuori con attenzione. E quando il treno, dopo una nuova serie di scambi, prese l’aire, leggero come se ora soltanto fosse sicuro della strada, egli chiuse il finestrino e rimise la bussola nella sua custodia.«Sud-est», disse tranquillo. «Polonia». Polonia, pensava Giovanni. «Polonia... questa è ora la nostra eternità... caduto in Polonia... non suona bene... un’assonanza... disperso.... no, non va.... scomparso.... scomparso in Polonia... non è ancora proprio quel che ci vuole, ma presto andrà benissimo... scomparso in Polonia...»*.
* Questo passaggio, in tedesco, sfrutta l'assonanza tra i verbi gefallen, gestohlen, verschwollen e il nome Polen.
A tale proposito è paradigmatico il brano che descrive il battesimo del fuoco dei nostri. Il soldato che incontra la guerra, qui, è una sorta di esploratore immobile che entra in contatto suo malgrado con un mondo inospitale e del tutto inadatto alla vita umana, mentre la distruzione e l'orrore avanzano - misteriosi e inconoscibili - verso di lui, andando via via ad occupare spazi sempre più vasti del suo essere. Fin da subito il lettore si accorge che, in questa guerra, ciò che accade "dentro" è assai più significativo di quello che accade "fuori".
Scrutano muti oltre l'orlo della trincea, con una angosciosa coscienza di ciò che accade. [...] E poi odono per la prima volta nell'aria l'alto sibilo con cui l'invisibile si approssima. Tutto a un tratto esso è là, improvviso, rapido eppure con una calma grandiosa, ponderato come se avesse scelto sorridendo il luogo dove abbattersi. Ma mentre ancora essi ascoltano trattenendo il respiro, ecco una furia irosa irrompe in questa calma sospesa, un ricercarsi urlando, un balzare in avanti a precipizio, un vorticoso abbattersi, durante il quale essi coprono l'elmo con le braccia, finché sprizzano crateri di fiamme con pareti precise, su cui volteggiano zolle di terra, travi, sassi, i tremendi colpi delle esplosioni concludono tutto, la raffica, il frastuono, l'invisibile, e soltanto gli oscuri imbuti ricominciano a ondeggiare in silenzio, tra cielo e terra, senza base, spettrali. [...] Giovanni guarda l'orologio a polso. Regolarmente fa il suo giro la lancetta dei secondi, e Giovanni la guarda come un essere di un altro mondo. «Beh! questo c'è ancora» pensa. Uno scarabeo si arrampica su un filo d'erba [...]. 
Ma presto anche l'orrore diviene spettacolo consueto e la patina dell'abitudine toglie ogni interesse a ciò che attornia il combattente. Lo spettacolo della guerra non possiede, nel racconto di Wiechert, alcuna attrattiva né intento drammaturgico, manca volutamente di qualsiasi meccanismo interno che lo giustifichi.
Marciano. Non cantano e sono avari di parole, ora. Il nuovo è già ridiventato vecchio, il paesaggio, la marcia, la meta. L'apatia ottusa delle marce li ha ripresi, il peso del sacco, del cinturone, del fucile. Mettono un piede davanti all'altro, e innanzi ai loro occhi i chiodi degli elmi ondeggiano su e giù, monotoni e senza speranza.
Ci portiamo ora d'un balzo al termine del lungo romanzo di Wiechert, mentre la guerra falcia senza sosta le sue messi. Nel nostro piccolo gruppo (che dopo la Polonia verrà spostato sul fronte francese),  il giovanissimo Klaus Wirtulla viene ferito gravemente - perderà entrambe le gambe - e il conte Percy Pfeil cade con onore, ricevendo infine "la ferita nel petto, la nota ferita, che egli attendeva". E poi la guerra finisce davvero. In essa l'ultima azione  di Giovanni Karsten ed Enrico Oberüber è quella, in barba agli ordini e ai regolamenti, di rispettare le ultime volontà dell'amico Percy, che aveva chiesto di essere sepolto «di là dal Reno».
Oberüber tornò con due vanghe, e sotto un oscuro pino scavarono la fossa. Donne li aiutarono a calare la bara, e poi essi vi ammucchiarono la terra. [...] Era completamente buio, quando si alzarono. Sgocciolavano gli alberi, per tutto il bosco, come quel giorno che essi erano andati per la prima volta all'assalto. Giovanni si fermò e si guardò intorno ancora una volta. La piramide dell'albero si ergeva ora minacciosa davanti al cielo stellato. «Che ne resta? Che ne resta, Enrico?» egli chiese disperato. Ma Oberüber gli passò un braccio lievemente sulle spalle tremanti. «Lascia perdere, caporale», disse tranquillo com'era allora presso il cadavere di Hasenbein. «La pioggia resta, e a primavera ritorneranno uccelli e fiori... qualche cosa resta sempre... anche per noi... lascia perdere, caporale».
Se la guerra è terminata, non ha però trovato alcun significato, mancando in queste pagine, come detto, di qualsivoglia interesse e giustificazione retorica. Neppure il risultato finale del conflitto conta nulla, in una tale visione, al punto che nessuno, all'interno del romanzo, sembra preoccuparsi della sconfitta (cui, infatti non si fa alcuna menzione). E se i protagonisti dello scritto possono dirsi "cresciuti" e "maturati", al termine del loro percorso, lo sono non "a motivo", ma "a discapito" delle esperienze terribili che hanno vissuto. La guerra, qui, è un dis-valore che non sembra permettere alcuna dialettica con l'interiorità dell'uomo. Che può infine solo tornarsene a casa e cercare di riannodare i fili della propria esistenza. Così lasceremo al lettore la scoperta delle pagine finali del libro, non volendo mettere alcuna enfasi (come da più parti è stato fatto) sul valore esemplare dello scioglimento del dramma proposto dall'autore, poiché esso non trae volutamente linfa dalle esperienze della guerra (neppure i rapporti di amicizia stabilitisi tra i protagonisti possono entrare nella battuta retorica del cameratismo, essendo antecedenti al loro arrivo al fronte). Così le pur efficaci e poeticamente riuscite figure femminili della madre (Gina) e della fidanzata di Giovanni non hanno, né vogliono avere, alcun valore taumaturgico universale. E neppure il ritorno alla vita semplice della campagna dei protagonisti costituisce di per sé una soluzione valida per tutti. La guerra di Wiechert è evento sommamente negativo che ha lasciato ferite indelebili e tranciato fili; ad ognuno (ai singoli individui come alle intere società) è destinato il difficile compito di riannodarli, ricostruendo se stesso e il proprio progetto di futuro.
«Torniamo a casa, signora Gina», dice [Klaus]. «Gruppo di Giovanni... due uomini e mezzo...»

Dario Malini

4 commenti:

  1. grazie della scelta tragica-ironica del grande srittore anna

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  2. Lo sto leggendo, ho trovato il libro in uno scatolone che stavano buttando. Molto nteressante direi.

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  3. Grazie per la presentazione del libro: è molto bella. Chi dice che Wiekert fu un retrogrado è di un'assoluta miopia e banalità. Perché non ripubblicano l'opera magari col testo a fronte?

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