1914: la guerra dei soldati-scrittori

Come reagirono, nel 1914, i soldati quando, dopo la grande abbuffata di retorica e nazionalismo che aveva preceduto l'inizio del conflitto, dovettero scontrarsi con la realtà concreta della prima guerra moderna? Come si adattarono agli sconosciuti orrori che si trovarono davanti? In questo intervento cercheremo di avvicinarci alla vita quotidiana dei combattenti appena giunti al fronte, attraverso una ben ponderata selezione di scritti di soldati, scelti anzitutto per l'efficacia con cui elaborano il racconto di una guerra di inimmaginabili proporzioni, il coraggio (anche linguistico) con cui avanzano, parola dopo parola, nel cosmo inesplorato della Grande Guerra. 


Cominciamo riportando le righe iniziale del romanzo Nelle tempeste d’acciaio di Ernst Jünger, che ci trasportano alle fasi iniziali della guerra. Come avviene sovente nelle pagine dello scrittore tedesco (che pubblicò questo libro nel 1920, basandosi sulle sue memorie di combattente, registrate su un taccuino giorno dopo giorno), viene messo in evidenza anzitutto il lato dionisiaco del conflitto, quel fremito vitale che, al di là d'ogni altra considerazione, sembra afferrare il soldato costretto a sopravvivere. Diciamolo, la guerra di Jünger è anzitutto una grande avventura.
Il treno si fermò a Bazancourt, una cittadina della Champagne. Scendemmo. Con rispettosa incredulità tendemmo l'orecchio al rimbombo lento e ritmato del fronte, simile a quello di un laminatoio, una melodia che poi, per lunghi anni, ci sarebbe stata familiare. Lontano, la nuvola bianca di uno "shrapnel" si dissolveva nel cielo grigio di dicembre. Il respiro della battaglia aleggiava tutt'intorno, mettendo addosso a ognuno un brivido strano. Sapevamo noi allora che quel sordo brontolio dietro l'orizzonte, crescendo fino a diventare tuono ininterrotto, prima uno poi un altro, ci avrebbe inghiottiti quasi tutti? Avevamo lasciato aule universitarie, banchi di scuola, officine; e poche settimane d'istruzione militare avevano fatto di noi un sol corpo bruciante d'entusiasmo. Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità, tutti sentivamo l'irresistibile attrattiva dell'incognito, il fascino dei grandi pericoli. La guerra ci aveva afferrati come un'ubriacatura. Partiti sotto un diluvio di fiori, eravamo ebbri di rose e di sangue. Non il minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini: vivaci combattimenti a colpi di fucile su prati fioriti dove il sangue sarebbe sceso come rugiada. «Non v'è al mondo morte più bella...» cantavamo. Lasciare la monotonia della vita sedentaria e prender parte a quella grande prova. Non chiedevamo altro.
Poco dopo, le prime difficoltà del fronte suggeriscono al soldato Jünger considerazioni un poco diverse, senza che però la sostanziale attrazione dello scrittore per la guerra ne venga minata in maniera sostanziale:
Un breve soggiorno al reggimento era stato sufficiente a guarirci del tutto dalle vecchie illusioni. In luogo dei pericoli sperati, avevamo trovato il fango, la fatica, le notti di veglia, tutti mali la cui sopportazione esigeva un eroismo poco confacente alla nostra natura. Ma il peggio era la noia, più snervante per il soldato che la vicinanza stessa della morte. Speravamo in un attacco; ma avevamo scelto, per il nostro ingresso sulla scena, un periodo sfavorevole in cui ogni azione di movimento poteva dirsi cessata. Anche le piccole operazioni tattiche erano state sospese, mentre le posizioni venivano continuamente rafforzate e il fuoco di sbarramento delle due parti cresceva sempre più in potenza distruttiva.


Cambiamo ora del tutto registro, passando a un altro soldato-scrittore tedesco, Erich Maria Remarque, del quale riportiamo alcune intense osservazioni, tratte dal noto romanzo Niente di nuovo sul fronte occidentale (pubblicato nel 1929). Pur riferendosi a un periodo successivo a quello iniziale (siamo alla fine 1917, sul fronte delle Fiandre), queste righe rendono assai bene l'alienazione e la perdita d'identità che afferrava sovente il soldato che giungeva in trincea (i protagonisti di questa vicenda in gran parte autobiografica sono degli adolescenti, volontari, strappati ai banchi di scuola), condizione psichica definita qui anzitutto da considerazioni di tipo sensoriale: la memoria delle sensazioni legate alla passata condizione da civile acquistava, nel corso della vita al fronte, un sapore malinconico e rivelatore.
[Al paese, seduti] sulla riva abbandonavamo i piedi all’onda chiara e rapida del ruscello. Il puro odore dell’acqua e la melodia del vento nelle fronde dominavano la nostra fantasia; li amavamo molto davvero i vecchi pioppi, e l’immagine di quei giorni lontani mi fa battere il cuore, prima di scomparire. Strano che tutti i ricordi che tornano abbiano due qualità. Sono pieni di silenzio; è questa anzi la loro virtù più forte, e rimangono tali anche se la realtà fu diversa. Le immagini sono silenziose, proprio perché il silenzio qui è inconcepibile. Non vi è silenzio al fronte, e il dominio del fronte giunge così lontano che non ci avviene mai di uscirne. Anche nei depositi arretrati e nei quartieri di riposo il ronzio, il sordo brontolio del fuoco lontano persistono nelle nostre orecchie. Non ci si porta mai così indietro che si arrivi a non sentirlo più. E il silenzio fa sì che le immagini del passato non suscitino desideri ma tristezza, una enorme sconsolata malinconia. Quelle cose care furono, ma non torneranno mai più. E se anche ce lo restituissero, questo paesaggio della nostra gioventù, non sapremmo più bene che farne. Non saremo mai più legati al nostro dolce paese, come fummo un tempo. Oggi nella patria della nostra giovinezza noi si camminerebbe come viaggiatori di passaggio: gli eventi ci hanno consumati; siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Sapremmo forse vivere, nella dolce terra: ma quale vita? Abbandonati come fanciulli, disillusi come vecchi, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.


Ancora diversa è la guerra raccontata dal giovane Otto (la cui vicenda è stata recuperata recentemente da chi scrive), soldato tedesco di religione ebraica. Siamo nell'agosto 1914,  poco dopo lo scoppio della Grande Guerra, mentre, lungo la frontiera orientale della Francia e nel Belgio meridionale, si svolgeva quella che viene chiamata la battaglia delle Frontierela collisione fra le illusorie strategie militari (che avrebbero dovuto essere entrambe vincenti in tempi brevissimi) elaborate negli anni prebellici dagli stati maggiori francese, "Piano XVII", e tedesco, "Piano Schlieffen". Il brano proposto, tratto da Taccuino di un nemico, è una cronaca spettrale, modernissima nella modalità espressiva, dell'imperturbabile stato mentale che doveva "indossare" il soldato, messo a confronto con - quasi soverchiato da - l'orrore della guerra. La considerazione con cui si conclude questo scritto è assai interessante per preveggenza e capacità d'analisi, riferita com'è alle fasi iniziali del conflitto.
La città [di Longuyon] sembra morta. In giro non si vede nessuno e le finestre sono in gran parte sbarrate. Perlustriamo il paese con estrema cautela, attendendoci a ogni angolo qualche sorpresa. Nei viali polverosi, segnati dalle ruote dei carriaggi, giacciono gli oggetti più disparati: materassi, lampade, vestiti, anche parecchi giocattoli e un grazioso ombrellino blu. Nascosti nel cortile di un palazzo scopriamo, ordinatamente disposti l’uno accanto all’altro, decine di cadaveri di civili: vecchi, donne e bambini. Di tanto in tanto veniamo raggiunti da muggiti e grugniti disperati: evidentemente i contadini sono scappati abbandonando gli animali nelle stalle. [..] È ormai notte, una tetra notte senza luna, quando ci avviamo verso le alture di Noërs, a circa 3 chilometri di marcia. Allontanandomi da ciò che resta di Longuyon, non posso evitare di girarmi, avvertendo nello spettacolo fantasmagorico della città sventrata, illuminata da alte fiamme, l’effetto di una forza distruttrice non semplicemente umana. Al buio, avanziamo con prudenza. Non siamo ancora arrivati a Noërs, di cui già scorgiamo le belle case di pietra, che un mezzo carico di obici ci esplode sulla testa. Veniamo investiti da un diluvio di schegge d’acciaio che, alzando montagne di detriti, vanno a conficcarsi, senza fare preferenze, nel terreno o nei nostri giovani corpi. Molti compagni cadono a terra con il petto o il ventre squarciato e una strana espressione sorpresa impressa in volto. In un attimo siamo avvolti da un fumo giallastro, acre e puzzolente che irrita la gola e impedisce di respirare. Questo attacco inatteso induce i più a fuggire o a gettarsi a terra. Io, pietrificato, sono incapace di muovermi e attendo in piedi, rassegnato, il colpo annientatore. In mente ho lo sguardo serio di Esther. Poi le esplosioni s’interrompono e gli ufficiali, tossendo e scatarrando, iniziano a latrare comandi. Ci riscuotiamo. Mentre alcuni si occupano dei numerosi morti e feriti, noialtri, il grosso del battaglione, riprendiamo la marcia. Mentre mi tasto il corpo, incredulo d’essere ancora tutto intero, non posso evitare di pensare che ci saremmo dovuti preparare meglio. Nonostante non ci sia un albero o un muro o una gobba di terra a proteggerci, arriviamo incolumi all’ingresso del borgo di Noërs, dove ci sfiora, innocuo, il fuoco della fanteria avversaria. Le viuzze anguste del paese, piene di rientranze e nascondigli, scoraggiano lo scontro diretto e rendono consigliabile una ritirata. Di lì in poi sono le artiglierie a parlare, vomitando per ore vampe, ferro e acciaio, mentre i soldati di entrambi gli schieramenti non possono che assistere passivamente all’esibizione della potenza delle macchine. Mi si mostra allora con assoluta chiarezza come, in questa guerra, gli uomini non siano i protagonisti ma delle semplici comparse il cui contributo, o la cui stessa morte, non può avere significati rilevanti.

Dalla parte francese, la situazione non sembra migliore. Anche qui il povero poilu è un essere sperduto che utilizza le tattiche più disparate per adattarsi ad un mondo ostile. Henri Barbusse, scrittore straordinario, arruolatosi volontario nell'agosto del 1914, alla bell'età di 41 anni, è capace di ricreare sulla pagina scritta, con formidabile acume letterario, l'inedito mondo delle trincee. Ecco un brano, tratto dal suo capolavoro, Il Fuoco, che scava con ironia e  finezza nella psicologia del fante.
Aspettiamo. Stanchi di restare seduti, ci alziamo, con le giunture che scricchiolano come legna ritorta o come cardini vecchi: l'umidità fa arrugginire gli uomini come i fucili, più lentamente ma più in profondità. Poi ricominciamo ad aspettare, però in maniera diversa.In guerra si è sempre in attesa. Siamo diventati delle macchine da attesa. Adesso siamo in attesa del cibo, poi toccherà alla posta. Ogni cosa a suo tempo: quando avremo mangiato, penseremo alle lettere. Dopo quelle, potremo prepararci ad aspettare qualcos'altro. La fame e la sete sono istinti potenti, che accendono in maniera formidabile lo spirito dei miei commilitoni. Se il rancio tarda, diventano lagnosi e irritabili. Il bisogno di mangiare e bere gli prorompe dalla bocca: «Sono le otto, perché cazzo non arriva?»
Non meno efficaci sono le note che Barbusse dedica al momento dell'attacco. Il brano che proponiamo, tratto sempre da Il fuoco, possiede una prorompente forza dinamica, sembra voler ricreare davanti al lettore, in una sorta di sperimentazione modernissima, gli effetti e le sensazioni delle inedite condizioni della battaglia, attraverso accumulazioni di immagini che si susseguono senza soluzioni di continuità, quasi si sovrappongono. 
«Avanti!», grida un soldato qualunque. Allora tutti riprendono, con furia crescente, la corsa in avanti verso l'abisso. [...] «All'attacco! All'attacco!» Il fiatone si traduce in gemiti rauchi, mentre continuiamo a slanciarci verso l'orizzonte. «I crucchi! Li vedo!», dice all'improvviso un uomo che non riconosco. [...] Un nugolo di pallottole mi cigola intorno, moltiplicando gli arresti improvvisi, le cadute rallentate, rovesciate, scomposte, i tuffi a peso morto, le grida, le esclamazioni sorde, rabbiose, disperate, oppure i terribili e rochi «arg!», istantanea esaltazione estrema di vita. E noi che non siamo ancora stati colpiti, andiamo avanti, procediamo, corriamo, come in un gioco mortale che colpisce a caso nella nostra carne collettiva. [...] Ci stiamo avvicinando al terrapieno della trincea, dietro al quale non si vedono più elmetti. [...] In un lampo intravedo un intero rango di demoni neri che si china e si abbassa per scendere, sull'orlo del burrone, sul bordo della trappola nera. Una scarica terribile ci esplode in faccia a bruciapelo, sollevando sul perimetro un'improvvisa parete di fuoco. Dopo un istante di stordimento, ci scuotiamo e ridiamo diabolicamente delle detonazioni: la scarica ci è passata sopra. E senza meno, tra grida e ruggiti da parto scivoliamo, rotoliamo, crolliamo vivi nel ventre della trincea.



Terminiamo questa breve riflessione sugli effetti della Grande Guerra sul mondo mentale dei soldati, sfogliando un testo importante, Le croci di legno di Roland Dorgelès, uscito nel 1919. La forma scelta dall'autore per trattare il tema scottante della guerra, a conflitto appena terminato, è quella del romanzo d'invenzione, sebbene lo scritto si basi strettamente sull'esperienza diretta dell'autore al fronte, dal settembre 1914 al settembre 1915. 
Uno dei pregi di questo libro (considerato sin dalla sua pubblicazione - forse con qualche esagerazione - uno dei capolavori di tutta la letteratura antimilitarista francese e non solo) è la pacatezza del tono, la volontà di proporre al lettore delle verità più o meno scomode senza mai urlare, con la voce malinconica e misurata di chi descrive con partecipazione, ma senza enfasi, ciò che ha visto.
Di novembre, la notte scende presto. Coll'ombra, era venuto il freddo; e laggiù, nelle trincee, il fuoco di fucileria era cominciato, all'ora dei gufi. Avevamo mangiato il rancio della scuderia, accucciati nella paglia, altri seduti sulla greppia, colle gambe pendenti. [...] «È ora di dormire, ragazzi!» disse il caporale Bréval, slacciandosi le scarpe. [...] Ognuno andò al suo posto, colla docilità dei cavalli che conoscono il loro angolo.
Alcune scene appaiono particolarmente efficaci, come quella, famosissima, che vede come protagoniste le "croci di legno" che danno il titolo al libro, osservate con gli occhi attoniti di soldati appena arrivati al fronte. La spersonalizzazione della morte di massa, l'aleatorietà della vita del soldato, trova qui una rappresentazione potente quanto malinconica. La guerra moderna, nella quale la distruzione dell'avversario ha assunto l'efficienza e le dimensioni di un processo industriale, si carica così di tutto il suo terribile e profondo significato umano, senza che l'autore abbia avuto bisogno di mettere davanti al lettore scene truculente e corpi devastati.
In questa zona c'erano stati dei combattimenti, in settembre; e, lungo tutta la strada, le croci di legno si allineavano come sull'attenti, per vederci sfilare.Vicino ad un ruscello, era raggruppato tutto un cimitero; sopra ogni croce sventolava una di quelle bandierine che si danno ai bambini; e tutto l'insieme dava a quel campo di morti l'aspetto giocondo di una squadra in festa. Sull'orlo dei fossi, la loro fila s'allungava; croci umili e rozze, fatte con due tavolette o due bastoni incrociati. Talvolta c'era tutta una compagnia di morti senza nome, con una sola croce per tutti. «Soldati francesi caduti sul campo dell'onore». Ve n'erano dappertutto, intorno alle fattorie, in mezzo ai campi: un intero reggimento doveva essere stato falciato là. Dall'alto degli argini ancora verdi, i morti ci guardavano passare, e sembrava che le loro croci s'inchinassero, per scegliere, nelle nostre file, quelli che, domani, li avrebbero raggiunti.


Dario Malini

Nessun commento:

Posta un commento