1917, l'anno delle decimazioni

Emanuele Filiberto di Savoia
Intendo che la disciplina regni sovrana fra le mie truppe. Perciò ho approvato che nei reparti che sciaguratamente si macchiarono di grave onta, alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi. 
(Circolare del 1° novembre 1916 diramata da Emanuele Filiberto di Savoia, comandante della III Armata). 
            “Abbandono di truppa, condannato alla fucilazione. Due carabinieri condussero il tenente colonnello verso la riva del fiume. Camminava nella pioggia, vecchio, a capo scoperto, con un carabiniere per parte. Non vidi la fucilazione, ma udii gli spari. Stavano interrogando un altro. Anche questo ufficiale si era allontanato dalle sue truppe. Non gli permisero di dare una spiegazione. Quando lessero la sentenza sul notes, pianse e quando lo fucilarono stavano interrogandone un altro”.  
Questo racconta Hemingway in Addio alle armi, il libro nel quale lo scrittore americano descrisse le sue esperienze sul  fronte orientale come volontario della Croce Rossa (l'esercito lo aveva scartato per un lieve difetto alla vista). Il romanzo, finito di scrivere nel 1928, non venne pubblicato in Italia che nel 1946, nascondendo, almeno letterariamente,  l'aspetto ancora oggi più angoscioso e amaro della Grande Guerra: la ferrea durezza con cui il Comando represse ogni più modesto tentativo di ribellione tra le truppe.
            Le esecuzioni, quasi sempre, erano scarsamente motivate. Bastava il malcontento di fronte ai mancati avvicendamenti, o al cibo cattivo per far parlare di sedizione e provocare draconiani provvedimenti. Era sufficiente che un soldato fosse sorpreso a rubacchiare in una cascina abbandonata, o rientrasse in ritardo dalla licenza, o non salutasse un superiore per scatenare assurde “salutari” sanzioni.
            Nel 1917 sul fronte carsico si verificarono alcuni episodi di insofferenza che tuttavia ebbero dimensioni tali da non giustificare la durezza delle repressioni che ne conseguì. A marzo alcuni soldati della Brigata Ravenna manifestarono malcontento. Cominciarono a protestare ed esplosero qualche colpo di fucile in aria. Il generale ed il suo aiutante di campo riuscirono però a convincerli a rientrare nei ranghi; la protesta poteva dirsi conclusa. In realtà non si era trattato di vero ammutinamento ma di un passeggero disordine causato dalla lunga permanenza in prima linea e dalla sospensione delle licenze. Senonché il comandante superiore, ossia il generale di divisione da cui dipendeva la brigata, volle verificare personalmente quanti soldati fossero stati fucilati. Avendo saputo che nessuna misura del genere era stata presa, pretese l' immediata esecuzione di due fanti trovati addormentati nell'accampamento e del tutto ignari dell'accaduto. Al ritorno dal turno in trincea altri uomini furono scelti a caso, processati sommariamente e condannati a morte.
            Anche il “generale fucilatore” Graziani dette in quei mesi il suo contributo alla giustizia militare. Cadorna lo teneva in alta considerazione in virtù della risolutezza con la quale reprimeva ogni mancanza d'indisciplina. La sua fissazione nel punire chi durante gli assalti indietreggiava era tale  che durante un attacco si rese irreperibile in quanto era andato lui stesso a sparare agli sbandati.(v. Angelo Gatti, Caporetto – diario di guerra, p. 83).
            Ma ancora oggi l'episodio più ricordato è quello di S Maria La Longa, protagonista la Brigata Catanzaro. I suoi due reggimenti, da tempo utilizzati nelle infernali trincee del Carso, ne avevano subito il consueto logorio, aggravato dalla scarsità delle licenze e dalla tragica consapevolezza di essere destinati al macello. La sera del 15 luglio 1917, al momento della partenza per il fronte, scoppiò una rivolta che trasformò il paesello della bassa friulana in un campo di battaglia. Pare addirittura che alcuni reparti tentarono di marciare verso una villa dove credevano di trovare Gabriele D'Annunzio, ritenuto il responsabile morale della guerra. La repressione fu violentissima:  i militari sospettati di attività sediziose vennero arrestati, una trentina fucilati sul posto, più di un centinaio mandati a  processo e quasi cinquecento allontanati dalla brigata.
            I soldati ormai vanno avanti “soltanto perché c'è la fucilazione”, riferisce un ufficiale ad Angelo Gatti. E sempre a luglio del '17 il parlamentare socialista Claudio Treves lanciò alla Camera l'accorato appello “il prossimo inverno non più in trincea”.
Luigi Cadorna            
            Cadorna cominciò a capire che forse il fattore umano, in una guerra così logorante, era tutt'altro che secondario. Così il 20 luglio  invitò i suoi collaboratori a mostrare “comprensione umana” per i bisogni dei soldati: 
“È necessario reagire contro il pericolo della depressione di tutti i valori essenziali umani del soldato, senza i quali non si combatte e non si vince. Perché il soldato comprenda che vi è in alto chi si preoccupa di lui, che egli non è abbandonato a tutte le correnti, che egli è un uomo trattato con comprensione umana”.
Ma, nonostante questo momentaneo cedimento, episodi simili di indisciplina continuarono ad essere considerati come vere e proprie diserzioni di massa. In un esercito che si era retto da sempre su principi di rigida separazione tra ufficiali e fanti non c'era spazio per considerare che si trattava pur sempre di uomini i cui sentimenti, dopo mesi interminabili al fronte, a volte prevalevano sul senso del dovere.
            Tra la primavera e l'estate del 1917 molti soldati, che avevano vissuto per quasi due anni in zona di guerra, vennero mandati in licenza. A questi uomini venne chiesto un ulteriore sacrificio: il silenzio.  “Tacete ! – era il duro ammonimento – Anche il vostro silenzio affretterà la vittoria”. L'intellettuale interventista Gaetano Salvemini consigliava addirittura di non mandare i feriti a passare la convalescenza in famiglia perché i discorsi sui pericoli, i disagi e le morti avrebbero avuto effetti psicologici disastrosi.
            In nessun esercito come in quello italiano i periodi di permanenza in prima linea furono così lunghi, minore il ricambio, altrettanto centellinate e rade le licenze.
            Significativa, a questo proposito, la testimonianza di Silvio D'Amico in Caporetto
“2 marzo 1917. Si torna a pensare alla fanteria in trincea, dentro il fango, sotto lo stillicidio. Per di più una disposizione ha prorogato da sei a dieci mesi il termine minimo della permanenza al fronte per andare in licenza. Così, molte centinaia di migliaia di soldati, che han compiuto i sei mesi ieri, e aspettavan di partire oggi, o che li compiranno fra un mese, e aspettavan di partire fra quaranta giorni, dopo essersi abbandonati ai più cari sogni, si veggono allontanati bruscamente il premio promesso ai loro disagi. Perché questa revoca? Cadorna come ha preso questo granchio? Non ha vagoni? I treni servono ad altro, a munizioni, a viveri? Ma la guerra si può vincere con munizioni più scarse, non si può vincere coi soldati scontenti..........La licenza è di soli quindici giorni, una volta l'anno mentre in Francia è frequentissima, ogni tre o quattro mesi. E ancora al 15 giugno: tutti i soldati francesi al fronte hanno una settimana di licenza ogni quattro mesi”.
            Chi poi rientrava oltre le 24 ore era trattato come un disertore. Anche in questo caso i francesi mostrarono più buon senso applicando il reato di diserzione dopo tre giorni di assenza. Giorgio Rochat ha scritto in Gli arditi della grande guerra – Origini, battaglie e miti
“Nella grande maggioranza dei casi i disertori erano soldati che avevano arbitrariamente prolungato una regolare licenza o si erano presi una licenza non autorizzata, ripresentandosi poi ai reparti. Non si trattava dunque di un rifiuto esplicito della guerra ma di insofferenza alle dure regole disciplinari, così come accadeva per la maggior parte dei reati di rifiuto d'obbedienza”.
            I fanti italiani dovettero dunque soggiacere ad una disciplina ferrea basata esclusivamente sulla costrizione e sul terrore della pena. Cadorna continuò ad esortare i tribunali militari a non perdersi in “laboriose interpretazioni di diritto”, invitando gli ufficiali ad estendere la disumana prassi delle fucilazioni sommarie e delle decimazioni. Quest'ultime non colpivano le responsabilità individuali ma consistevano nell'estrarre a sorte e fucilare un certo numero di appartenenti ad un reparto dove si fossero verificati incidenti. I comandanti erano autorizzati a procedere senza l'intervento dei tribunali e sovente non redigevano nemmeno i relativi rapporti. Per questo il numero delle esecuzioni avvenute in zona di guerra è difficilmente computabile.
            E' ancora Silvio D'Amico, al 9 ottobre 1917, a documentare quanto duro e spesso indiscriminato fosse il regime disciplinare e penale nell'esercito italiano: 
“Presso un reggimento di fanteria avviene un'insurrezione. Si tirano colpi di fucile, si grida: Non vogliamo andare in trincea. Il colonnello ordina un'inchiesta, ma i colpevoli non sono scoperti. Allora comanda che siano estratti a sorte dieci uomini e siano fucilati. Senonché i fatti erano avvenuti il 28 del mese e il giudizio era pronunciato il 30. Il 29 del mese erano arrivati  i complementi, inviati a colmare i vuoti prodotti dalle battaglie già sostenute: 30 uomini per ciascuna compagnia. Si domanda al colonnello: Dobbiamo imbussolare anche i nome dei complementi? Essi non possono aver preso parte al tumulto del 28: sono arrivati il 29. Il colonnello risponde: imbussolate tutti i nomi.Così avviene che, su dieci uomini da fucilare, due degli estratti sono complementi arrivati il 29. All'ora della fucilazione la scena è feroce. Uno dei due complementi – entrambe di classi anziane – è svenuto. Ma l'altro, bendato, cerca col viso da che parte sia il comandante del reggimento, chiamando a gran voce: Signor colonnello! Signor colonnello!
Si fa un silenzio di tomba. Il colonnello deve rispondere. Risponde: che c'è figliuolo?
Signor colonnello! - Grida l'uomo bendato. Io sono della classe 75. Io sono padre di famiglia. Io il giorno 28 non c'ero. In nome di Dio!
Figliuolo, risponde paterno il colonnello, io non posso cercare tutti quelli che c'erano e che non c'erano, La nostra giustizia fa quello che può. Se tu sei innocente, Dio ne terrà conto. Confida in Dio”.
            L'episodio ricorda quanto avvenne seicento anni prima con  protagonista Arnauld Amaury, ambasciatore di papa Innocenzo III. Nel 1209 fu bandita una spedizione militare in Francia che venne in seguito ricordata come la crociata albigese. Dopo aver messo a ferro e fuoco la città di Béziers al legato pontificio venne chiesto di distinguere gli abitanti eretici dai cattolici rimasti fedeli al papa. “Uccideteli tutti – fu la risposta – Dio riconoscerà i suoi”.
La fucilazione di un soldato
            Cadorna vedeva dovunque sovversivi da mettere al muro e, come disse Gioacchino Volpe,  con i suoi ordini “represse con la morte anche piccoli atti di insubordinazione”. Era convinto che solo  i metodi repressivi potessero inchiodare i fanti alle trincee. Ma al contrario quanto più si inaspriva il regime del terrore, tanto più aumentavano il numero dei renitenti e di chi si rendeva colpevole dei vari reati di indisciplina. Almeno fino all'autunno del 1917  il Comando Supremo continuò a non considerare il terribile logorio mentale e fisico al quale era assoggettato l'esercito, tenuto costantemente sotto una folle, quanto inutile, pressione distruttiva.



Giancarlo Romiti



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