Film sulla Grande Guerra del ventennio fascista (II)


Proseguendo la nostra riflessione intorno ai film che, nel corso del ventennio fascista, elaborano un vero e proprio mito del volo e dell'aviazione, non si può dimenticare Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini, del 1938. Il film racconta, partendo dal 1921, la storia di Luciano Serra, già giovane capitano dell’aviazione, che cerca di sbarcare il lunario accompagnando i turisti in voli sul lago Maggiore. Le scene  in cui il protagonista va a trovare l’amico ed ex compagno d’armi Morelli, mostrano in modo eloquente le difficoltà di reinserimento nella società degli ex combattenti. La narrazione si sposta poi, con un salto temporale di una decina d'anni, negli anni Trenta: Serra è emigrato in Sud America e il suo giovane figlio, rimasto in Italia, è divenuto anche lui aviatore. Padre e figlio si ritroveranno in Africa Orientale, durante la guerra d’Abissinia: viene riaffermata anche qui, attraverso le vicende dei reduci, la sostanziale continuità tra lo spirito della Grande Guerra e  le conquiste dell’impero fascista (nota 1).


Passaporto rosso di Guido Brignone, del 1935, fa invece riferimento alla continuità tra Grande Guerra e fascismo con un procedimento ellittico: il film, ambientato tra il 1890 e il 1922, narra la storia di una famiglia italiana emigrata in Sud America. Il capofamiglia muore di febbre gialla, la figlia sposa un medico compatriota ed ha un bambino di nome Juan. Passano gli anni e quest'ultimo, ormai ragazzo, non si sente coinvolto dalla guerra europea, considerandosi cittadino americano. Siamo a questo punto oltre i due terzi del film. Alle nozze del giovane, quando arriva la notizia dell’entrata in guerra dell’Italia,  il padre  e gli altri emigranti si arruolano: ed ecco che il “buon esempio" del padre agisce sulla coscienza  del figlio, cosicché anche Juan alla fine decide di partire. L'azione si sposta quindi sul fronte italiano: si vedono reticolati e trincee, si sentono scoppi, appaiono due didascalie successive in sovrimpressione: «1915» e «1916», compare Juan, assieme a un compagno di trincea, ormai alla settima missione, che dice: «Solo qui si capisce cosa significa essere italiani». Nel successivo montaggio parallelo, vengono mostrati i genitori e la moglie di Juan, incinta; poi una mitraglia che spara e un elmo che cade; e una una tomba con una lapide: "Giovanni Casati, medaglia d’argento alla memoria, morto nel Carso". Dopo un breve stacco, compare la didascalia «1922»: la medaglia è appuntata sul petto di un bambino, il figlio di Juan, mentre il sonoro propone le note de "La canzone del Piave(nota 2).



Un'altra pellicola degli anni Trenta che mostra la Grande guerra come “matrice” del fascismo è Camicia nera di Giovacchino Forzano, film progettato per il decennale del fascismo del 1932, ma uscito l'anno successivo. Narra la vicenda di un giovane fabbro italiano, volontario durante la Prima guerra mondiale, che perde la memoria nel corso dei combattimenti. Alcuni anni la riacquista e torna in Italia, trovando un paese "rimodernato" (la bonifica delle paludi Pontine, l'inaugurazione della città di Littoria) grazie al fascismo. Il film mescolando costantemente brani documentari e di narrazione, fotografie, disegni, cartoni animati, carte geografiche, cartelli e tante (troppe?) didascalie, scandisce alcuni importanti avvenimenti della storia recente italiana: lo scoppio della guerra, la confusione «totale» del dopoguerra, la fondazione dei “fasci” e il recupero dello «spirito» della Grande Guerra, la bonifica delle paludi Pontine (e simbolicamente dell’Italia intera). Vengono proposti così molti dei temi portanti del fascismo quali il nazionalismo, il patriottismo, il mito della Grande Guerra e della “vittoria mutilata”, il reducismo e l'anticomunismo (nota 3).

Se i film appena trattati si occupano essenzialmente del prima e del dopo della guerra, i tre di cui parleremo ora, sempre degli anni Trenta, sono invece totalmente incentrati sulle vicende capitali della Grande Guerra, che viene presentata come una sorta di «gioco»: Le scarpe al sole di Marco Elter, 13 uomini e un cannone di Giovacchino Forzano e Piccolo alpino di Oreste Biancoli. 

Le scarpe al sole di Marco Elter, un documentarista, è tratto molto liberamente dal diario di guerra dell'alpino Paolo Monelli. Il film racconta le vicissitudini di guerra di tre montanari compaesani, arruolatisi negli alpini nel 1915. La vicenda si presenta come una sorta di discreta epica degli umili,  rappresentazione delle virtù dell’«ideologia alpina» intesa come etica dell'appartenenza solidale a una “piccola patria”, a un microcosmo pre-politico costituito dai valori tradizionali della famiglia e del “campo”. Emblema di tale comunità solidale nel contesto nazionale è la visione della partenza dei tre valligiani che discendono il monte mentre il loro contingente si ingrossa: brano montato con l’analogia visuale di piccoli ruscelli che si uniscono per divenire un fiume maestoso. Nel film, la guerra non è presentata in modo molto cruento, né viene caratterizzata con precisi accadimenti, date o luoghi topici. Gli attacchi e i contrattacchi avvengono in posti senza nome e senza data. Quando, ad esempio, gli austriaci attaccano e gli alpini si ritirano, non ci viene detto che si tratta dell'azione di Caporetto; quando vediamo gli alpini attestarsi e resistere, non si sa se ciò avviene sull’altopiano di Asiago, sul Piave o sul monte Grappa; e quando assistiamo alla grande controffensiva della vittoria, non si cita l’ottobre del 1918 e Vittorio Veneto; forse perché si tratta di fatti tanto conosciuti da non essere necessario rammentarli alla memoria storica di ogni italiano. In ogni caso, la guerra qui rappresentata sembra caratterizzata da una messa in scena più sportiva che bellica, e non solo per il tono poco violento delle azioni: citiamo ad esempio quella che è probabilmente la sequenza più spettacolare del film, nella quale gli alpini vanno all’attacco sugli sci al chiarore della luna che si riflette sulla neve, mentre la macchina da presa si sofferma a lungo sui soldati- sciatori che sembrano atleti intenti a gareggiare tra di loro. Nel finale, i montanari-alpini tornano al loro villaggio, non senza un moto di nostalgia per l’arma degli alpini e, forse, per l’evento irripetibile cui hanno partecipato (nota 4).


13 uomini e un cannone, film del 1936 di Giovacchino Forzano, racconta una storia minima ambientata nella Grande Guerra. Il cuore della vicenda si origina quando un obice austriaco di lunga gittata, posto sul confine russo, viene distrutto da tiri stranamente ben diretti e concentrati dei russi. Si pone allora la questione di scoprire chi ne ha rivelato la posizione al nemico. I possibili colpevoli sembrano essere i tredici soldati addetti al cannone. Se il traditore non confessa, all’alba i tredici uomini saranno tutti fucilati. Anche qui, come nella pellicola analizzata in precedenza, gli avvenimenti si svolgono su un “fondale” abbastanza neutro e indeterminato, rivelato solo dalla carta geografica indicante il confine tra Austria e Russia, che appare nelle scene iniziali. La guerra e le sue vicende di sangue sembrano qui elementi del tutto accessori, in quanto i 13 soldati conducono una vita quasi allegra sulla linea del fronte: davanti al loro nascondiglio hanno apposto la scritta “Grand Hotel”, un cartello con il disegno di una sirena indica il bagno, che è in realtà un ruscello in cui ci si lava, ci si rade e si conversa piacevolmente. La dispensa, inoltre, è ben fornita. Nei mesi di guerra, uno dei tredici fanti ha persino imparato a leggere e scrivere, tanto che è ormai in grado di inviare lettere a casa in completa autonomia. Ed in questo contesto tutt’altro che guerresco che si innesca l’episodio della distruzione del cannone e la conseguente ricerca del delatore. Da qui comincia la seconda parte del film, assai più tesa e drammatica, caratterizzata dal serpeggiare del sospetto reciproco e funestata dalla morte di uno dei 13. Ma ecco che il racconto si scioglie in un quasi lieto fine quando viene scoperto il colpevole, che non è uno dei soldati austriaci ma una spia russa. La "guerra lieta" dei nostri, dunque, può continuare (nota 5).



La dimensione della guerra come gioco è esplicitata sin dalla prima sequenza di Piccolo alpino, in cui, dopo la didascalia “marzo 1915”, si vede il cortile di una scuola pieno di ragazzi che giocano alla guerra utilizzando delle pere cotte come armi, mentre il preside e un professore discutono sulla possibile entrata in guerra dell’Italia. Il sogno del giovane protagonista della pellicola, Giacomino, è di arruolarsi negli alpini, perché ha la passione delle vette e dell’alpinismo. Così per buona parte del film il ragazzino cerca senza successo di entrare nella sua arma preferita, ogni volta rispedito a casa per la giovane età. Alla fine, dopo aver scoperto due spie, riuscirà a diventare la mascotte di un reggimento di alpini in partenza e finirà davvero in trincea. Sorvoliamo sulle sue innumerevoli avventure, allegre e tristi, che termineranno con la consacrazione di Giacomino ad eroe e con la conseguente medaglia d'oro appuntata al suo petto. Il film racconta dunque una vicenda patriottica di formazione dominata dai valori dell'amor di patria, della dedizione ai propri ideali e dello spirito di sacrificio, e in cui «della guerra e delle armi rimane la sensazione dominante del gioco che prepara a prove più impegnative» (nota 6).

Stefano Cò

<== Pagina principale dell'intervento

-----------------
Note 
1) Per il dialogo tra Serra e Morelli con il richiamo alla guerra, e in particolare la delusione del dopoguerra – «Morelli: (…) Finché c’era la guerra aeroplani e piloti non bastavano mai. Ma adesso viviamo in un mondo … caro Luciano; Luciano: Sicché quello che si è fatto non conta niente?; Morelli: Ah, no. Niente. Lascitelo dire da me che le cose le vedo da vicino.»  vedi Gianfranco Miro Gori, cit., pp. 71-72. Per la trama seguente del film, la mitologia dell’aviazione fascista e la riaffermazione della continuità storica, resa esplicita nella finale motivazione della consegna di una medaglia d’oro alla memoria per Luciano, morto per salvare il figlio, definito «asso della grande guerra, arditissimo pilota civile, legionario nella conquista dell’impero», sempre Gianfranco Miro Gori, p. 72. Per la visione del reduce emigrato assimilato al combattente coloniale vedi Alberto Farassino, “Cosmopolitismo ed esotismo nel cinema europeo fra le due guerre”, in Storia del cinema mondiale. L’Europa. Miti, luoghi, divi, a cura di Gian Piero Brunetta, Einaudi, Torino, 1999, p. 505.
2) Per i brevi dialoghi e la sintesi della trama e delle sequenze di guerra vedi Gianfranco Miro Gori, cit. pp. 70-71. Per la piccola serie di film sull’emigrazione, che vede il ritorno in patria degli emigranti, tranne uno, vedi la nota di Gori a p. 70 e Valentina Ruffin, “L’Europa nel cinema italiano degli anni trenta”, in Storia del cinema mondiale. L’Europa. Miti, luoghi, divi, op. cit., pp. 622-23. Passaporto rosso che una frase di lancio presentava come “un contributo alla storia di questi umili sconosciuti emigranti che partirono verso l'ignoto e l'avventura con il ‘passaporto rosso'” e  che “raccoglie tutta una serie di realtà proibite in Italia e permesse solo se rappresentate altrove” (G.P. Brunetta, citazione trovata su internet), vinse la Coppa del Partito Nazionale Fascista al Festival di Venezia del 1935.
3) Camicia nera è anche e soprattutto una rappresentazione degli anni dello squadrismo e una rievocazione delle principali conquiste del regime: il risanamento della moneta, la lotta alla crisi economica e il ritrovato prestigio internazionale dell'Italia. Come ci si può aspettare per un film di regime, la critica all'epoca dell'uscita fu entusiasta, come per es. Matteo Incagliati, su “il Messaggero di Roma” del 24 marzo 1933, che scrisse: “un film italianissimo, le scene che maggiormente colpiscono e appassionano e che sono riprodotte con maggiore potenza di mezzi espressivi, sono principalmente quelle dei reduci della prima guerra mondiale ridotti allo squallore più duro e vilipesi per aver dato il sangue alla Patria.”. Successivamente questi giudizi furono drasticamente rivisti, vedi il Morandini, dizionario dei film, a cura di Laura, Luisa e Morando Morandini, Zanichelli, Bologna, 2002, che lo definisce un “balbettante film di propaganda, girato per il decennale della Marcia su Roma, in bilico tra l'insipienza e il guittume, con punte di comicità involontaria”, e cita un commento “icastico” del critico Pietro Bianchi per cui in Camicia Nera “la retorica si sposa alla presunzione, la convenzione all'enfasi, senza un attimo di tregua”. Comunque non si può non ritenerlo uno dei più significativi film-documentari del cinema italiano degli anni Trenta e Quaranta. Sui problemi di realizzazione del film e sulla divisione delle parti vedi Gianfranco Miro Gori, op. cit., p. 68-7. Sul richiamo al fatto che Mussolini fosse figlio di un fabbro e quindi il mestiere del personaggio fosse un “omaggio” del regista al capo del regime, cfr. tra gli altri la scheda del film su Wikipedia e i riferimenti nelle note di Gori a p. 68.
4) Le scarpe al sole è l’opera di due alpini, Marco Elter regista, e Paolo Monelli autore del soggetto e del libro Diario di guerra (1921). Monelli è un ex ufficiale degli Alpini, mentre Elter nel 1913 fu campione del mondo di sci alpino, pluridecorato nella guerra 1915-18, documentarista premiato a Venezia con la coppa del Ministero della stampa e propaganda per “il film eticamente più significativo”. Interessante la recensione del critico Mario Gromo: «Monelli ha inteso che al film fosse conservato il tono del suo fortunato e pregevole volume di bozzetti, dove istanti e figure della nostra guerra alpina sono rapidamente annotati come sulle pagine di un diario; così il film, dello spirito alpino, della guerra alpina, offre istanti ed episodi che hanno una unità da una loro particolare atmosfera. È l’atmosfera del pacato ricordo del reduce, che si vela nell’allegoria, in una visione folta di elementi ma serena, che sovente ha un suo impeto, quasi sempre una sua commozione; un complesso corale che ha molti pregi del bassorilievo» (“La stampa”, ripresa dalla scheda del film su MyMovies.it). Sull’ideologia alpina e i suoi valori in relazione al film, vedi Mario Isnenghi, “L’immagine cinematografica della grande guerra”, in Rivista di storia contemporanea, cit., pp. 345-347. Per la trama e le immagini della guerra nel film, Gianfranco Miro Gori, cit. pp. 64-65.
5) Per molti critici è sicuramente il meno “forzaniano” dei 7 film del regista, forse il migliore, comunque il più teso e spedito, il meno teatraleggiante. Ne furono girate, sempre negli stabilimenti di Tirrenia, una versione tedesca (Dreizehn Mann und eine Kanone, 1938) di Johannes Meyer e una britannica (Thirteen Men and a Gun, 1939) diretta da Mario Zampi. Per una breve sintesi della trama vedi Gianfranco Miro Gori, cit. pp. 65-66.
6) Gian Piero Brunetta, La guerra lontana. La prima guerra mondiale e il cinema tra i tabù del presente e la creazione del passato, Rovereto, 1985, p. 59. Piccolo alpino è tratto da un romanzo, del 1926, di Salvator Gotta, il libro più letto, secondo molti storici, durante il periodo fascista, ad esclusione dei testi scolastici. Per la trama, le immagini del film e la sua propensione al “gioco” vedi Gianfranco Miro Gori, cit., pp. 63-64.

Nessun commento:

Posta un commento