"Le scarpe al sole" di Paolo Monelli

Scritto nel 1919 e uscito in prima edizione nel 1921, Le scarpe al sole (Cronaca di gaie e di tristi avventure d’alpini, di muli e di vino) di Paolo Monelli racconta la vicenda autobiografica dell'autore, ufficiale degli alpini a partire dalla fine del 1915. In circa 200 intense pagine vengono descritte la vita degli alpini al fronte, le terribili battaglie del Lagorai (1916) e dell’Ortigara (1917), la prigionia dell'autore, dopo la rotta di Caporetto, sino alle confuse giornate che seguirono l'armistizio che sancì il tanto agognato ritorno a casa.

Non è facile commentare questo testo caleidoscopico e variegato nella forma come nei contenuti, amalgama discontinuo di voci e registri differenti; ad un tempo, riflessione interiore, cronaca, romanzo, elegia, epopea… 
Ma questo libretto accusato di disfattismo da qualche eroe delle retrovie, accusato di cinica esaltazione della guerra da qualche utopista della pace, non è né inno né bestemmia, né celebrazione né imprecazione; né potrebbe esserlo, ché l'inno e l'imprecazione sono sempre iperbolici, nati da stati d'animo posteriori, quindi insinceri.
Paolo Monelli, Introduzione alla IV edizione
Riguardo allo stile, ampi squarci narrativi si affiancano a prose liriche, a inserti del più puro frammentismo, a frasi in dialetto, a citazioni latine, a canzoni di guerra, a poesie «ridondanti di echi dannunziani e campaniani» (secondo il giudizio che ne diede successivamente lo stesso autore), a espressioni gergali e a molto altro. Un magma pulsante in cui i registri "alto" e "basso" vengono sovente a collidere e in cui il tono della narrazione varia di continuo. 
Il libro ebbe un sostanziale apprezzamento critico e un notevole successo di pubblico all'uscita e nei successivi decenni (al punto che nel 1935 ne venne tratto un pregevole film diretto da Marco Elter), per poi essere quasi dimenticato.

Ma cominciamo, come si conviene, dal principio. Le scarpe al sole si apre con alcune pagine stilisticamente complesse, di profonda introspezione, che non possono non sorprendere, e sembrano rappresentare una sorta di portale dell'opera il cui scopo precipuo è d'avvisare il lettore che ciò in cui sta introducendosi non è un semplice "diario di guerra". Ne citiamo, come esempio, le righe d'apertura:

Esame di coscienza.
Ho sradicato l'anima ciondolona dalle vigliaccherie mattutine del letto, me la staffilo santamente secondo il consiglio di Santo Cherubino. Che orgoglio fino ad ora il mio, della penna d'aquila e del destino di portarla alla buona guerra, se m'indugiavo nelle blandizie della retrovia ? Ora nel mattino freddo parto per il battaglione. Cercherò negli occhi dei colleghi che mi hanno preceduto, dei soldati che mi saranno affidati che cosa vi segni l'avere indugiato ai confini della vita, ed esserne ritornati. E notomizzerò il mio cuore, per sapere con che purità si prepari all'olocausto.
Poco oltre, nella nota del Natale 1915, la scrittura si fa limpida e scorrevole, piegandosi docilmente alla "felicità di raccontare" le grandi e piccole vicende della guerra:
Natale 1915.
Stavolta si fiuta un'azione per aria.Grande sussurro, alla mensa, fra il maggiore ed il capitano. Poi è venuto quello della 264, hanno tenuto rapporto, noi subalterni siamo stati mandati a contemplare le stelle. Siamo andati all'osteria, invece, a salutare Maria la bionda e Giuseppa la bruna, ed a bere un chiaretto di Salorno che ferrava gli spiriti per la festa di domani.
Un po' d'orgasmo. Che si farà ? Dove andremo? Gli occhi luccicano, l'impazienza apre un vuoto nel corpo. Garbari dice: - Panarotta - la montagna che ruzzola ogni sera le sue cannonate sulla valle. Ed ecco, sono venute le istruzioni del capitano. Poi, a mezzanotte, partenza. Nel paese immerso nella chiarità lunare il groviglio, l'affaccendarsi dei conducenti, dei muli, dei soldati, casse di cottura e casse di cartucce. Battere di chiodi sul gelo. Pallore di stelle. E cammino come assorto per le strade lunari, pensando con ritegno alla dolce casa lontana, alla felicità di raccontare nel futuro la gesta che vivo. I soldati marciano taciturni: solo qualche bestemmia, qualche dialogo sommesso punteggiato di ostie. E la gavetta che suona e il fucile del vicino sono la sola preoccupazione.
A fare da sfondo alle gesta degli alpini, simili ai fondi d'oro delle antiche pitture, sono le impervie e innevate montagne della Valsugana, descritte sempre con toni "alti" ed elegiaci. Nel brano seguente, dell'aprile 1916, la prosa musicale di Monelli, tesa a descrivere il paesaggio, si muta all'improvviso, senza soluzione di continuità, in versi, seguendo la progressiva, prodigiosa trasformazione in femmina della stessa amata montagna:

La montagna è tutta vestita di nebbia, e le figure dei soldati sembrano profili opachi di bonzi sopra una porcellana cinese. Lo sappiamo già. Fra poco la nebbia si condenserà in neve, un neviscolare granuloso e persistente; poi comincerà a soffiarci dentro il vento, e dal piano verde e oro si vedrà la nostra montagna allegramente arruffata d'una crinieretta bianca. A sera quella crinieretta sarà bionda, e se io fossi laggiù dove stanno i muli la paragonerei all'aureo caschetto di capelli della bambina diciannovenne lontana, capelli tagliati corti,
fili di sole tiepido
sciacquare succhiare dell'onda
pigra sulla spiaggia calda
piccoli seni compressi 
dalla tunichetta azzurra 
malinconia di non esserci 
che viene dalle lettere ardite 
dove tenta inutilmente la mia 
lontananza.
Nella costruzione del suo grande affresco, Monelli non dimentica alcun tassello. Lavora anzi ad ogni pagina senza parzialità e con il medesimo ardore. Numerosi, ad esempio, sono i passi che ritraggono da vicino qualcuno dei "suoi" alpini; e si tratta invariabilmente di squarci di prosa "bassa", freschissimi, colmi di una vitalità dirompente:
E se il tenente non postilla il suo discorso con un moccolo, perde tutto l'effetto oratorio - come è inutile affibbiare dieci di rigore se non si appoggiano con un buon calcio dato con tutta la pianta del piede – alla maniera del colonnello Ragni. Turin è dello stesso avviso, spalle come un armadio e un testone tondo sul collo corto (il testone glielo ruppe una scheggia a Sant’Osvaldo e ringrazi il cielo che aveva un elmo Farina se no andava al Creatore - adesso per riconoscenza l'elmo Farina non lo smette più). «Non ubbriacarti più, Turin.» «El me domanda l'imposibile, sior Tenente. »«Almeno non farti più vedere da me ubbriaco.»«Questo sì, sior tenente.»«E se ti vedo ubbriaco ti caccio dentro.»«Cossa vollo metarme drento! El me daga su la testassa, alora, ch'el ghe daga su la testassa di sto sucòn de Turin che no 'l sa gnanca farla franca!»
Ma i mutamenti di tono sono continui, così poco dopo la prosa ritorna a farsi elevata per delineare nuove visioni dello scenario crudele e fantastico della guerra montana, scenario che finisce per costituire uno dei fulcri della narrazione, prendendo via via la consistenza di un ambiente atemporale, sacro e inviolabile, accessibile solo ai protagonisti di questa storia, esseri sgangherati, avvinazzati ma coraggiosi e puri di cuore:
La realtà è ancora e soltanto qui, nello scenario attonito degli abeti curvi sotto il bianco, nel fluire in sordina di un filo d'acqua sotto il cristallo dei torrenti irrigiditi. Invitano con tepore d'accorata tenerezza le baite illuminate, confitte nei pendii grigi. Solo alpini e muli qua su, nell'austerità delle grandi montagne. E la serietà del nostro destino accettata con freddezza. Timori, speranze sono cose lontane e vane; lontana sei tu pure, bambina, e il tuo ricordo è vano. Questo morbido tedio di neve s'accumula nel cuore, anche. Non c'è futuro, non c'è passato: un presente che si prolunga uguale come una sciata su pendii agevoli, e la baracchetta illuminata dalla candela piantata nel collo del fiasco, odorosa di tavole umide, è la meta definitiva alla nostra ansia di ieri.
Un mondo sostanzialmente mitico in cui vengono in contatto, senza entrare mai in collisione, il banale e l'eccezionale, il quotidiano e l'eroico, la furberia popolare e la generosità, il grossolano e il prezioso. E talvolta, la definizione plastica dei curiosi esseri inavvicinabili e contraddittori che lo abitano, gli alpini di Monelli, necessita della lancinante concisione del frammento:
Non siamo puri nemmeno noi.
Blaterare, versare veleno da lingue biforcute.
Egoismo atteggiato a furbizia.
Paura di morirci velata da mille inganni. [...]
Prende, talvolta, il tedio.
Tedio del tempo che lento passa, che rapido assomma un tumultuoso passato in poche linee scialbe.
Tedio di non sapere esprimere un groviglio di imagini che solca la conca di neve-maiolica.
Tedio d'incoerenza.
Zaffate di dubbio, di timore, dal sedimento intatto e non scrutato nel fondo del cuore: se valga, dunque,
questo tradizionale concetto di patria tanto stento, tanta rovina.
Oggi vorrei imboscarmi.

Facciamo un salto in avanti. Il 10 giugno 1917 Monelli annota:
Dall'alba bombardamento. Sul tamburo bigio del cielo chiamano adunata avanguardie di mostri. E verso sera, sotto la tempesta, alpini balzano alla conquista dell'Ortigara.
Comincia la terribile Battaglia dell'Ortigara che, in pagine intense, prive d'ogni retorica o mascheramento, viene descritta attraverso episodi minimi, dal punto di vista sensibile e inevitabilmente frammentario del singolo combattente:
E poi, via per il vallone dell'Agnelizza colmo di morti, gli scheletri delle battaglie dell'anno passato, i cadaveri gonfi della battaglia di quest'anno che dura da quindici giorni. Ed un teschio sghignazza, lucido, accanto alla maschera livida di un morto di ieri. […] E al di là del costone, d'un colpo, ecco la spaventosa scena dantesca, un girone di malebolge fatto realtà. Disseminati sui gradini d'un muraglione di roccia livida arsa lebbrosa, appiccicati al sasso, intramezzati dalle macchie rosse e bianche dei feriti, quel centinaio di uomini della compagnia; immobili, taciturni, nel tormento del bombardamento da cui non hanno riparo, nell'esposizione coatta al rischio che viene da quattro parti, con grandi occhi sbarrati sulla luce implacabile del mezzogiorno, - «Ch'el se tiri via da là, sior tenente, che i ghe spara. Ch'el vegna qua da me che se sta sicuri.»Un momento di irresolutezza: ed ecco, una pallottola spacca il cuore al bravo ragazzo che mi voleva al sicuro vicino a lui.
Ci avviamo a concludere, lasciando il resto alla curiosità del lettore (le pagine straordinarie che descrivono il momento della resa, quelle dure e modernissime dedicate alla prigionia, quelle amare e sarcastiche che tratteggiano non senza verve il ritorno a casa e l'incontro scontro con la corte dei molti millantatori di meriti guerreschi...), sperando che quanto detto sia comunque sufficiente a evidenziare la particolare poetica di questo scritto dalla natura straordinariamente composita che, a livello stilistico, nulla sembra rifiutare delle tendenze artistiche del suo tempo, in una proposta (nella proposta di una "lingua") che, pur non avendo avuto seguito nella narrativa italiana degli anni successivi (nel corso della grande stagione che segna la rinascita della forma del romanzo), denota una grandissima originalità e vitalità. Chiudiamo con una breve e malinconica considerazione, presa dall'introduzione di Monelli alla prima edizione di Le scarpe al sole (1921):
Quello che portammo di nostro alla guerra non lo riportammo indietro, più: fu veramente una vita che ci fu tolta come la pallottola la tolse ai mille compagni segnati di fiamme o di mostrine al colletto. La nostra giovinezza più ingenua e più prodiga ha messo anch'essa le scarpe al sole, sulle ultime rocce riprese al nemico, gli ultimi giorni d'un tempo che due anni di distanza hanno favolosamente slontanato.
L'epopea amara, tragica e allegra degli alpini di Monelli, sorta di mitici antieroi, si conclude così, mestamente, distante dagli squilli di tromba e da ogni enfasi di vittoria.


Dario Malini

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