La tristezza negli scritti dei soldati della Grande Guerra

Vi proponiamo una breve ricognizione sul tema "guerra e tristezza", così come si delinea in alcuni diari, taccuini e scritti dei soldati della Grande Guerra. 
Partiamo da un'interessante annotazione di Paolo Monelli che, nell'introduzione alla IV edizione del suo Le scarpe al sole chiarisce come il soldato vivesse di norma in uno stato d'incosciente intontimento nel quale non aveva quasi consapevolezza degli orrori che lo circondavano, risvegliandosene solo a tratti, dolorosamente:
Abbiate quindi pazienza se in questo diario ci son bevute, muli, bestemmie, aneddoti di retrovia e di riposo, tanta nostalgia pulita di casa, tanto odore di terra e di bosco. Noi non si pensava ad altro. Le cartoline che mandavamo a casa il più delle volte erano ridotte a un "niente di nuovo" più laconico di quelli del Comando Supremo. Non dico che qualche volta non s'avesse anche noi i colloqui filosofici con l'eternità; che talvolta non ci abbagliasse una rivelazione nitida spietata dell'orrore della nostra vita; erano brividi che ci ghiacciavano d'improvviso, nell'uniforme torpore che ci faceva sempre buoni all'azione.
Questa torpida assenza di lucidità, che deriva anzitutto dalla consuetudine con l'orrore, viene ribadita dal soldato Giorelli in una nota risalente all'ottobre 1915 (Il sorriso dell'obice, a cura di Dario Malini):
La grande laboriosità silenziosa e continua, il cannone lontano con i suoi boati lunghi e tristi; tutto, all’inizio, pareva strapparci qualcosa dall’anima. Ora, invece, siamo posseduti da un incessante spasimo nervoso che ci fa agire senza una vera coscienza. E non percepiamo quasi più l’irragionevolezza di questa curiosa esistenza guerresca né il rimpianto per le luci e l’animazione della città. Tanto siamo diventati parte di tale vita di distruzione, che lo scoppio di uno shrapnel a pochi passi, ci lascia insensibili con sulle labbra un sorriso diretto al tiratore incapace di colpirci. 
Così, negli scritti dei soldati, la malinconia spesso non si rivela apertamente, ma lascia traccia di sé nei dettagli, in particolare nelle descrizioni di paesaggi. Come in questo breve inciso sempre de Il sorriso dell'obice:
La quota 188 e Oslavia hanno un aspetto tragico e impressionante. Gli alberi, qui, non danno neppure più l’illusione di chiedere pietà, come avviene in seconda linea, ma sono ridotti a tronchi rinsecchiti senza membra; e la terra stessa pare morta per sempre.
Utilizzando un tale approccio, possiamo scandagliare anche un carattere granitico e poco proclive alla malinconia qual è quello di Ernst Jünger. Ecco come, in  una pagina di Nelle tempeste d’acciaio, osserva con sguardo commosso un villaggio  nell'Artois, devastato dalla guerra e abbandonato.
La triste impressione delle distruzioni rendeva più sensibili l'abbandono e il profondo silenzio, interrotto di tanto in tanto dai colpi sordi dei cannoni. Zaini lacerati, fucili spezzati, brandelli di stoffa e in mezzo, contrasto orrendo, un giocattolo, spolette di granata, profondi imbuti di proiettili esplosi, bottiglie, attrezzi per la mietitura, libri strappati, suppellettile domestica, pertugi il cui buio misterioso rivelava una cantina dove forse i cadaveri degli infelici abitanti erano rosi da bande di ratti frenetici, un piccolo pesco che, privato del muro di sostegno, tendeva supplice le braccia, nelle stalle carcasse di animali ancora attaccati alla catena, tombe nel giardino inselvatichito e in mezzo, appena ravvisabile tra le erbacce, il verde di cipolle, assenzio, rabarbaro, narcisi, sui campi finitimi barche di grano con chicchi in germoglio sulla spiga. E tutto attraversato da una trincea semicrollata, avvolto dal lezzo della decomposizione. Pensieri malinconici investono furtivi il combattente in luoghi come questo, allorché egli pensa a coloro che ancora poco tempo prima li abitavano, sereni.
Ed è interessante affiancare ai precedenti, la seguente struggente descrizione di paesaggio di guerra tratta da  Il fuoco di Henri Barbusse, un soldato-scrittore che faceva della malinconia del poilu un vero tema portante dei suoi racconti di guerra :
Riprendiamo la strada, che a questo punto comincia a scendere verso il fondovalle, dove c'è Souchez. Laggiù, nel biancore della nebbia, ci appare una tremenda valle di lacrime. Un confuso ammasso di rottami, rovine e rifiuti è accumulato lungo la spina dorsale di questa strada pavimentata e ai suoi bordi fangosi. Gli alberi giacciono abbattuti, oppure sono scomparsi, fatti a pezzi, e ne resta solo qualche radice estirpata. I margini della strada sono sollevati e devastati dalle granate. E per tutta la sua lunghezza, quella strada dove sono rimaste in piedi solo le croci è affiancata da trincee venti volte crollate e riaperte, buche e camminamenti che le collegano, il tutto affondato nel terreno melmoso. Più si va avanti e più tutto è devastato, putrefatto, terremotato.

Concludiamo con un brano di Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, altro grande "poeta della malinconia", tratto dal famoso episodio della cottura dell'oca. Si noti come anche questo momento di caldo cameratismo (forse l'episodio più luminoso del libro) nasconda una nota amara, sorta di basso continuo che dona alla scena pregnanza e un particolare rilievo poetico, impedendo al lettore di dimenticare il destino di fatale annullamento che incombe greve sull'esistenza dei due giovani tedeschi.
Così ce ne stiamo l'uno di fronte all'altro, Kat e io, due soldati in panni logori, intenti ad arrostire un'oca nella notte alta. Non parliamo molto; eppure abbiamo l'uno per l'altro riguardi più delicati che una coppia d'innamorati. [...] Arrostire un'oca è cosa lunga, anche se è giovane e grassa: perciò ci diamo il cambio. Uno di noi a turno la fa rosolare, mentre l'altro dorme. A poco a poco si diffonde un odore delizioso. I rumori di fuori ci fasciano come un sogno: e tuttavia il ricordo non svanisce interamente. Nel dormiveglia vedo Kat alzare e abbassare il cucchiaio, e lo amo, lui, le sue spalle, la sua figura angolosa e china; ma al tempo stesso vedo dietro di lui una foresta, e le stelle, e una voce buona mormora parole che mi danno pace: pace a me, al povero soldato che coi suoi scarponi e con la sua cintura e col suo tascapane cammina sotto il vasto cielo, lungo la via che gli si stende dinanzi: pace al povero soldato che presto dimentica, e solo di rado ormai è triste, ma sempre cammina sotto il grande cielo notturno.

Nessun commento:

Posta un commento