Guerra del ’15 (dal taccuino di un volontario) di Giani Stuparich


Guerra del ’15 di Giani Stuparich è un libro formidabile; a nostro parere uno dei migliori testi italiani di memorie della Grande Guerra. Ed è triste constatare come una tale opera, uscita nel 1931, non venga più pubblicata da anni e risulti ormai reperibile solo sul mercato antiquario.

Il libro racconta i primi mesi di guerra dell’Italia, dal 2 giugno all’8 agosto 1915, e, in particolare, la I (23 giugno-7 luglio) e la II battaglia dell’Isonzo (18 luglio-3 agosto), cui Giani e il fratello Carlo partecipano come volontari, posizionati presso Monfalcone. La scrittura di Giani è piana e sensibilissima: i suoni, gli odori, i volti dei compagni, la natura straziata, tracciano un resoconto intenso e penetrante di queste giornate drammatiche. Poco più di due mesi di trincea, il breve periodo che racchiude l’intera narrazione, segnano la completa disillusione dell’autore che, da fervente interventista, comprende sulla propria pelle quanto illusori e letterari fossero i sogni guerreschi suoi e di un’intera generazione di giovani intellettuali:
Mi sveglio all’arrivo della posta. Un nuovo numero de La Voce: un mese fa l’arrivo delle Voci mi faceva ancora piacere, sentivo in questa rivista come l’espressione di qualche cosa che m’era vicina, ora invece la sento estranea, una rivista letteraria d’una città lontana; tutto mi par troppo lontano e inutile. Non ho voglia di leggere, ho una terribile sete.
Testo di un antimilitarismo deciso sebbene sottile (ed è sorprendente come possa essere uscito in piena epoca fascista), Guerra del '15 è attraversato dalla linfa vitale della triestinità dei suoi protagonisti, l’essere Giani e Carlo portatori di un’italianità di confine, spesso mal compresa dagli stessi compagni e superiori. A tale proposito citeremo un brano, breve ma assolutamente eloquente. Giani, che si trova alla Rocca di Monfalcone, a circa 30 km da Trieste, viene mandato dal capitano alla ricerca di un tenente. Non riuscendo a trovarlo, si attarda più del previsto nelle trincee e, al rientro, viene accolto con sospetto:
Per la strada mi viene incontro Brambilla, mandato in cerca di me. «Sei qua? Il capitano stava in pensiero.»Vorrei illudermi che il motivo sia stato soltanto affettuoso e paterno, come più volte ha dimostrato di essere con noi il capitano, ma dal tono con cui Brambilla ha pronunciato questa frase, sembrava che egli intendesse soggiungere: «tu sei triestino e non si sa mai…». Un’atroce tristezza mi serra la gola. La faccia del capitano si rischiara quando mi vede; il mio potrebbe essere un sospetto infondato, ma tuttavia non so liberarmi del nodo che ho nel petto. Non giustifico il mio ritardo, dico soltanto che il tenente verrà subito. «Ma cosa ha fatto lei tanto tempo?» Rispondo che m’è toccato uscire dalla trincea e cercare il tenente tra i piccoli posti. Carlo mi conferma il sospetto: ha inteso gli altri mormorare che il capitano aveva troppa fiducia in noi; non l’ho mai visto così agitato e addolorato. «Ma cosa dobbiamo fare ancora», mi dice con voce tremante di sdegno «per convincerli che siamo italiani? Come loro, come loro!» Lo calmo e provo un dolce sollievo nel sedermi accanto a lui, nel sentirmelo vicino, col suo grande cuore di fratello.
Non inganni la freschezza della scrittura o il procedere regolare della cronaca (giorno per giorno senza alcuna interruzione): questo non è un semplice diario scritto a caldo. È invece un testo lungamente meditato nel contenuto come nella forma narrativa. Raccontare la guerra (in questo scritto concentratissimo nel quale la ristretta porzione di due mesi di guerra bastano a svelarne il paradigma) rappresenta per l’autore una dura palestra che lo obbliga a una prosa controllatissima, lontana da ogni retorica e compiacimento. Con tutto ciò, come vedremo, questo scritto è molto lontano dalla mera cronaca e sarebbe riduttivo considerarlo soltanto tale. Se l’avventura della guerra mostra fin da subito il suo volto massificante, meschino e malinconico, acquisisce però, nelle parole dello scrittore triestino, un inedito afflato di viaggio ideale verso casa, di percorso insidioso di ritorno. E il desiderio di rivedere la madre e le strade bianche di Trieste assurge a simbolo, alla brama inestinguibile di un’antica Itaca lontana. 
Trieste viene evocata la prima volta, nella giornata del 16 giugno, con queste parole:
Ho portato un ordine del capitano al tenente del primo plotone. Il sole è appena tramontato. Cammino solo tra i pini; a un tratto, da una radura, mi si apre alla vista tutta la pianeggiante campagna friulana; sollevo lo sguardo con una certa trepidazione: il mare, il golfo, la lunga costa dell’Istria cinerina; dietro la punta di Salvatore immagino Umago; ed ora i miei occhi ripercorrono in su quella costa, con un’ansiosa speranza; mi sporgo fin che posso; no, Trieste, la s’indovina, ma non la si vede dal posto in cui sono. Silenzio tutto intorno, un silenzio pieno di sentimenti che mi si sgroppano dal fondo del cuore. Quanto sono rimasto così, dimentico persino dell’ordine che devo portare? Non so. Mi strappo da questo varco e affretto il passo, rimproverandomi la troppa sensibilità.
Qualche giorno dopo, il 21 giugno, poco prima dell’inizio della I battaglia dell’Isonzo, Giani può intravedere davvero la sua città, in un brano che ben rappresenta lo stile originale, ad un tempo lirico e realistico, di questo scritto:
M’affretto, giro, ritorno sui miei passi, temo di non trovarla, ma improvvisamente s’apre ai miei occhi il golfo di Trieste. Duino, Miramare, Trieste. La città si confonde con l’azzurro delle colline, ma ne riconosco ogni segno; vorrei esserle ancora più vicino, solo un attimo, per distinguerne le case e le vie. Nel palpito dell’aria che le sta sopra, immagino il respiro di mia madre. Sento con un senso misterioso che non è la vista e non è il tatto, ma un complesso dei due, la presenza della nostra casa che ci aspetta. Non mi sazierei mai di guardare. A destra, sotto di me, la pianura friulana violacea nella nebbia. Il mio orologio segna le quattro.
Carlo e Giani Stuparich
Poi, il 23 giugno, comincia la battaglia, che viene descritta in modo assolutamente antieroico:
Il cannoneggiamento è continuo. Questo non poter vedere, questo non saper nulla di preciso è umiliante e inquietante insieme. Esco di tanto in tanto sulla strada. Vengono giù i feriti, molte barelle. Interrogherei tutti quelli che possono ancora camminare, reggersi da sé, ma basta guardare le loro facce: non una che mostri coscienza di quel che succede; esprimono, ugualmente, una stanchezza cieca, una fatale passività; sono come delle bestie sfinite, vicine a morire, che non desiderano altro che un angolo appartato, per finir tranquille. […] Scende un gruppo d’artiglieri. Odo una voce grossa, con un timbro caratteristico e noto, che mi sorprende. Scendo sulla strada; ma sì, è Sallustio, un mio compagno di liceo. Siamo nelle braccia uno dell’altro. «anche tu qua? La va male; e a Trieste? Chi sa quando! Addio, addio. Tutti i pezzi della sua batteria di montagna sono stati sconquassati. Alle sei ritorniamo nell’edificio delle scuole. Desolato ritorno.
La guerra procede, giorno dopo giorno, e Trieste, che pareva all’inizio quasi a portata di mano, manifesta sempre più la sua essenza di città-metafora, e, proprio per questo, inevitabilmente irraggiungibile. Scrive infatti Giani, il 18 luglio:
Non spero più, come nei primi giorni, di poter arrivare d’un balzo a Trieste: quelle erano illusioni che abbiamo scontate; ma già la speranza di poter avvicinarsi anche di pochi metri alla nostra città, di giungere almeno sulle prossime colline, mi consola e mi rianima.
Anche il resoconto di un episodio della notte del 21 luglio, durante la sanguinosa II battaglia dell’Isonzo, risuona del leitmotiv della ricerca, questa volta condotta a buon fine:
Il capitano manda Brambilla e me a prendere contatto col primo plotone; toccherebbe a Brambilla, ma ci manda in due, perché uno potrebbe esser ferito o morire per la strada o perdersi nell’oscurità. Fuori dalla trincea è un inferno. Il terreno ci è completamente ignoto; sappiamo soltanto che il primo plotone è alla nostra destra: per trovarlo dobbiamo camminare lungo il ciglio. Da una parte si sprofonda la valle, illuminata dai razzi e riecheggiante ogni sorta di rumori, dal crepitio dei fucili alle grida umane: laggiù si combatte; dall’altra parte, vicino a noi, si stende la pietraia e si levano i massi rocciosi, rischiarati di tanto in tanto dai lampi delle esplosioni, tempestati dalle pallottole che sprizzano tutt’intorno scintille: nell’aria scoppiano i globi rossi degli shrapnels. […] E il plotone non si trova, per quanto a ogni passo, chinandoci verso terra, chiamiamo a gran voce: «primo plotone, primo plotone». Brambilla bestemmia, brancola, si sgola; in una sosta forzosa, essendo caduti dentro una gran buca uno addosso all’altro, mi dice che quelli del primo plotone sono capaci di non rispondere anche se ci odono: «stavolta ci lasciamo la pelle tutti e due», aggiunge. Su di nuovo. Ma quanto tempo è che giriamo, tornando sempre negli stessi posti? È impossibile che il plotone sia lontano: quando la compagnia si mise in linea, era il primo alla nostra destra. Brambilla piange di rabbia e m’annuncia che si butterà a terra, perché non ne può più. «Aspettami qua», gli grido, «vado fino all’orlo a vedere e torno. Ho fatto pochi passi che frano dentro un fosso, cadendo tra corpi molli e caldi. «Ohi!» - «Chi ohi?» - «Primo plotone.» - «Ah, finalmente!»Orientatici, come meglio possiamo, per riconoscere il posto e saperlo descrivere al capitano, ritorniamo alla nostra trincea sulla cima. Carlo mi dice che non sperava più di rivedermi: «sei stato via quasi mezz’ora». Soltanto mezz’ora? A me pareva l’intera notte. Il vento soffia forte e m’agghiaccia il sudore sulla pelle; tremo per tutto il corpo e batto i denti; alzo la testa per dire qualcosa a Carlo, ma il sonno mo prostra, violento e pesante come la morte.
La battaglia prosegue sanguinosa e terribile, nel corso della quale Giani viene lievemente ferito alla spalla. Non si fa ricoverare e, il 28 luglio, mentre è ancora a Monfalcone, può rivedere Trieste: il coraggio, la capacità di soffrire e la dedizione devono pur essere ricompensati. L'apparizione, abbagliante e vicinissima, nonostante il punto d’osservazione non sia cambiato granché rispetto alle volte precedenti, evidenzia il valore metaforico del viaggio immobile di Giani Stuparich:
Dopo la lezione, a pochi passi di distanza dall’edificio, usciamo a vedere l’ultimo tratto di trincea che verso il mare difende Monfalcone. Meglio d’una trincea, è un osservatorio, costruito con sacchetti a terra, alto non meno di quattro metri: vi salgo per una scala mobile e, dietro di me, Carlo. La vista di quassù e tale che vorrei sciogliermi in quello che vedo, non esister più. È la seconda volta che mi si stende davanti agli occhi la mia città; ma questa volta così vicina, così tutta chiara, che mi par di potere, con un salto, ritrovarmi fra le sue case, per le sue vie, nelle sue piazze. Due mesi di pena, sempre così vicini, e non poterla raggiungere! Gli altri ci chiamano, se ne vanno, e Carlo e io siamo ancora quassù, che non sappiamo staccarcene.
E il 30 luglio, in un crescendo quasi geometrico, Trieste si fa ancora più concreta:
Con lo Zeiss del tenete Latini, abbiamo distinto le rive ei i moli deserti, il torrione di San Giusto con le due finestre e gli occhi sopra di esse, e, con le mani tremanti, abbiamo scoperto le guglie bianche della chiesetta evangelica che sorge a pochi passi dalla nostra casa.
Il 7 agosto, dopo un estenuante periodo di permanenza nella trincea del Lisert, ai fratelli Stuparich viene comunicata la nomina a ufficiali della territoriale. Giani dovrà presentarsi al comando di Vicenza, Carlo a quello di Verona. Sebbene abbandonino i compagni a malincuore, accettano di buon grado la nomina che gli permette di lasciare l’inferno della trincea. Il loro viaggio verso Trieste, per il momento, è finito. Ecco che, nella pausa di tranquillità che viene a prodursi , la favola triste della guerra lascia intravedere infine la sua crudele morale. E la scena conclusiva del libro, ambientata l'8 agosto in un’osteria di Udine, è percorsa dai tremiti di una consapevolezza sconsolata e improvvisa:
Siamo seduti su soffici sedie, davanti a una bianca tovaglia, infiorata e spendente di vetri, di porcellane, d’argenteria: circondati da una famiglia affettuosa, tutt’occhi e premure per noi. Carlo e io siamo di fronte; i nostri sguardi s’incontrano, ma dobbiamo subito abbassarli sui piatti. […] Devo comprimere dentro di me un impulso che mi farebbe balzar su, correre via, nascondermi in qualche angolo solitario, per pensare, senza questo nodo alla gola che mi soffoca, alla nostra famiglia. Forse era più facile pensare ad essa in trincea che in mezzo alla vita dove, ritornati dopo due mesi di fronte, non abbiamo il conforto di riabbracciare nostra madre, lontana, irraggiungibile.
Mesta conclusione che sembra riflettere sull'irraggiungibilità dei sogni giovanili e abbracciare già il dolore che attende l'autore negli anni successivi: la prigionia, la morte del fratello Carlo, gli orrori di una guerra interminabile, la tanto desiderata annessione di Trieste all'Italia, agguantata infine e subito immiserita dalla politica repressiva della dittatura fascista. 

Dario Malini

2 commenti:

  1. Una aggiunta alla bibliografia su Giani Stparich. L'autore ha pubblicato un anno prima in Nuova Antologia nel 1930 :guerra 1915 e successivo 1931:taccuino di un volontario, suddivisi in 6 numeri. La guerra 1915 il 16 luglio 1930,16 agosto 1930, 1 settembre 1930,1 ottobre 1930. Il successivo: Dal taccuino di un volontario nell'anno 1931 il 16 maggio 1931 e il 1 luglio 1931. Spero che sia gradita l'informazione porgo cordiali saluti paolo

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    1. Gentile Paolo, La ringrazio per la precisazione. In effetti il testo apparve inizialmente sulla rivista «Nuova Antologia», diretta da Giovanni Gentile, con il titolo "Dal taccuino di un volontario", pubblicato a puntate nel 1930 e poi, dopo un'interruzione, nel 1931, finito d'uscire appena prima della pubblicazione in volume, in quello stesso 1931, con il tutolo definitivo: "Guerra del ’15 (Dal taccuino di un volontario)".

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