L'infanzia nella letteratura della Grande Guerra

Per i bimbi la Grande Guerra si configurò all’inizio come il più eccitante e fantastico dei giochi. Scrive a tale proposito Elio Vittorini nello splendido racconto La mia guerra, nel quale ripercorre un periodo della sua infanzia, nel 1915, trascorso a Gorizia:
Il giorno dopo, ai giardini, Francovic e altri compagni di gioco mi dettero la notizia straordinaria. «Sai?» disse un biondo lentigginoso di cui non rammento più il nome, «Anche noi avremo la guerra…»
Avere la guerra. Prima le parole mi ronzarono in testa, poi un alveare di gioia mi scoppiò dentro per tutto il corpo. Ricordo esattamente cosa provai per un minuto o due. Avevo perduto la coscienza di essere un ragazzo, di avere sette anni e di vestire i calzoncini azzurri, mio orgoglio, e il grembiulino nero, mortificazione, che vestivo ogni giorno per l’ora dei giochi. Mi sentivo una guerra io stesso, qualcosa come una pianta d’ortiche o una nuvola di cannone. Io avrei avuto la guerra. Stavo per avere la guerra, cioè quel fumo, quel fuoco, quella morte, quei soldati attraverso la campagna di cui si parlava tanto da un anno, ma come di una festa lontana, proibita per noi, una fiaba di Belgio e di Francia… 
(Elio Vittorini, La mia guerra, incluso in Piccola Borghesia)
Raymond Radiguet principia la sua storia d’amori giovanili di retrovie, ambientati nella Francia delle Somme, ostentando un cinismo tipico dell'età adolescenziale:
Sarò molto biasimato. Ma che farci? Non è colpa mia se compii dodici anni qualche mese prima della dichiarazione di guerra. Certo la crisi prodotta in me dall'eccezionale periodo che attraversavamo non fu di quelle che in generale si verificano a dodici anni; ma siccome, anche se pare il contrario, non c'è forza al mondo che possa invecchiarci oltre l'età, era fatale che mi conducessi da fanciullo in una avventura in cui anche un uomo si sarebbe trovato imbarazzato. E il mio non è un caso eccezionale. Anche i miei coetanei devono conservare di quel periodo un ricordo che non è quello dei loro fratelli maggiori. Coloro che già mi guardano in cagnesco ricordino quello che fu la guerra per tanti giovanissimi: quattro anni di continue vacanze. (Raymond Radigue, Il diavolo in corpo)
Ed ecco un breve brano de Il sorriso dell’obice in cui le parole del soldato Walter ribadiscono l’infatuazione dell’infanzia per la guerra:
Ripensando alle pagine fin qui scritte, m’accorgo di non aver detto nulla sulle volte in cui, nei rari permessi che mi sono stati concessi nel corso di questi mesi di addestramento, sono tornato a casa dai miei, a Roma o a Dogliani. In queste note dal fronte, non sento la necessità di dilungarmi intorno a quelle luminose giornate che nulla sembravano avere a che spartire con la guerra. A parte la divisa grigioverde, mi sentivo quello di sempre, allegro, disinvolto e ottimista. Era Giorgio, il mio fratellino, a osservarmi un poco esitante, sconcertato forse dal fatto che la guerra e il mistero insito in essa non riverberassero dalla mia persona in alcun modo. (Dario Malini, Il  sorriso dell'obice)
Più avanti, nello stesso libro, nel piccolo Giorgio l'attrazione per la guerra si scontra per un attimo con una sorta di timore reverenziale per ciò che essa ha di pauroso:
Dopo una settimana di riposo trascorsa a Visnjevich, sono di nuovo al mio posto e ancora vivo delle ore passate assieme al papà e a Giorgio. Questi, all’inizio, sebbene avessi tentato più volte di farlo ridere, «Frittello mio, lasciati dare un bacio, così, dove capita sul grugno», mi guardava con una sorta di strana soggezione. Il papà, invece, era straordinariamente ciarliero, s’informava di tutto e tutto lo interessava. Faceva molto caldo. Il baccano prodotto dai contrattacchi nemici e il gran numero di militari sudaticci che s’aggiravano inquieti per il paese, non ci permettevano di dimenticare la guerra neppure per un istante. Giorgio, pur interponendo alla mia la rassicurante figura paterna, osservava con curiosità la deferenza con cui i soldati mi salutavano. Intrapresa una lenta e complessa manovra d’aggiramento, arrivò a mettermisi vicino. Poi fece: «Walter, me la leggi?», e mi porse un foglio stropicciato dove aveva copiato una mia lettera di molti mesi addietro.

Carissimi Baby e Tina,vi scrive Smaccaro coi piedi sul fuoco, la schiena curva, la carta sulle ginocchia, nobilmente assiso su di un asse che poggia sopra una provvista di legna. La tana è semibuia, formata da tronchi di pini sradicati e ben fronzuti, contro la roccia, al riparo dalle granate.Da tale tana di lupi, da voi molto e molto lontano, vi manda tanti baci vostro fratello
Walter
«Non è che me lo fai conoscere Smaccaro?»
«Ma come, non lo vedi?»
«Dove?»
«Eccoooloooooooooo!»
E lo sollevai da terra, facendolo girare e sforzandomi di rivolgergli le espressioni più terrificanti. Riavutosi dalle risate, mi abbracciò. «Me la rileggi?». 
(Dario Malini, Il  sorriso dell'obice)
La grande avventura della guerra, con il procedere delle operazioni, si rivelò per i bimbi spesso una favola triste e priva di morale, divenne talvolta una vera e propria tragedia. A commento di ciò proponiamo un singolo brano tra i moltissimi possibili. Sin tratta di una pagina di Ernst Junger dell’estate del 1916, poco prima della battaglia delle Somme, nella quale il cadavere di una bambina diviene parte integrante di un desolato paesaggio di guerra.
Dopo essermi rifocillato feci il giro del villaggio. In pochi giorni l'artiglieria pesante aveva trasformato una pacifica cittadina di tappa in uno spettacolo orribile. Innumerevoli case erano state rase al suolo o spaccate in due dai grossi calibri, alcune camere rimaste sospese con i loro mobili sembravano scenari da teatro allestiti al di sopra del caos. Un insopportabile lezzo di cadaveri si levava da quei ruderi, perché i primi bombardamenti avevano sorpreso gli abitanti nelle loro case seppellendone un gran numero sotto le macerie prima ancora che avessero avuto il tempo di allontanarsi e mettersi in salvo. Una bambina giaceva davanti a una porta, in un lago di sangue. (Ernst Junger Nella tempesta d’acciaio)


Dario Malini

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