I primi mesi di guerra negli scritti dei soldati italiani

Corriere della Sera del 24 maggio 1915
La mobilitazione arrivò, per l'Italia, alla fine di maggio dell'anno domini 1915, al termine di una intensa e pervicace campagna propagandistica, finalizzata a trascinare verso le ragioni dell'Intervento la parte più colta, recettiva e "rumorosa" del popolo italiano. La guerra aveva subìto un vero e proprio processo di mitizzazione, presentata di volta in volta come avventura eroica, momento di rinnovamento spirituale, espressione massima di modernità, tappa conclusiva dei moti risorgimentali e così via; il tutto condito con generose dosi di patriottismo, di nazionalismo, di odio austro germanico e quant'altro. Finché, in guerra, i soldati dovettero andarci davvero, trovandosi faccia a faccia, del tutto impreparati, con un mondo oscuro e violento; spesso noioso, talvolta disumano e insensato. Sarebbe probabilmente difficile, oggi, ricostruire con precisione il reale sentire di questi uomini se, al fronte, non ci fossero stati anche degli straordinari "cronisti" che hanno saputo tramandare le reazioni proprie e dei compagni alle vicende immani e quotidiane della prima guerra moderna. Sarà appunto la voce di tre di questi formidabili inviati speciali a guidare il nostro percorso senza mediazioni nei primi mesi della Grande Guerra italiana.

Molti sono i resoconti di guerra che iniziano con lo sferragliare di un treno carico di soldati. Comincia così, ad esempio, l'intenso diario di guerra  Ed ora, andiamo! Il romanzo di uno "scalcinato" del sottotenente livornese Mario Muccini, classe 1895. Si tratta di uno scritto di notevole interesse e di sorprendente qualità letteraria, oggi purtroppo quasi introvabile, anche nel mondo antiquario, nonostante la recente - e già esauritissima - ristampa curata da Sergio Spagnolo, studioso della Grande Guerra e socio dell’Associazione Cime e Trincee. Un testo diretto e coinvolgente, che può rappresentare, anche per il lettore dei nostri giorni, il necessario viatico per immergersi con cognizione di causa nella realtà quotidiana del primo conflitto mondiale.

Ho l'ordine di partire per la zona di guerra, quasi improvvisamente. Mattina di ottobre. Fatidico 1915. Servizio di prima nomina a Livorno.
[...] Per quanto una notizia come questa mi tolga quasi il respiro, pure, non appena in istrada col mio bravo foglio di viaggio in tasca, mi sento il cuore più leggero.
La mia sorte è ormai decisa. E finita è anche la mia insulsa vita di guarnigione. Venti giorni d'inferno fra guardie, picchetti, piazza d'armi, ispezioni. E bastasse!
[...] Le prime ebbrezze delle spalline e i facili amori non mi seducono più. Mi sento oppresso e quasi umiliato dalla vita di caserma, solo pensando che molti dei miei amici sono già in trincea.
Unico, sincero, fedele compagno di corso, il tenente Severino Carpi, ragazzo ingenuo ed ancora tutto preso dalle cure e dagli affetti della famiglia. Era giunto a Livorno con me e già si era pietosamente innamorato di una signorina conosciuta per caso, una domenica, a Quercianella.
[...] Alla stazione trovo Severino con cinque sottotenenti della «Cucchiari» anch'essi destinati a Cremona. Partono insieme con noi diversi soldati comandati da un sergente; fra loro un vecchio garibaldino con la camicia rossa, sotto la giubba grigio-verde, ostentatamente aperta.
[...] Collochiamo le cassette d'ordinanza in uno scompartimento vuoto. Il treno si muove.
- Addio, Severino!
- Addio.
[...] La pineta fugge, la stazione di Tombolo appare e dispare, i miei compagni parlano forte, ridono, fumano.


Dopo un tragitto piuttosto lungo e disagevole, il treno giunge a Palmanova. I militari possono finalmente scendere a terra. La guerra, relativamente lontana, sembrerebbe ancora cosa vaga e nebulosa, finché non si materializza all'improvviso - con un sapiente coup de théâtre - al passaggio di un convoglio carico di feriti.

Per i diciotto chilometri da Udine a Palmanova, abbiamo impiegato quasi tutta la notte. [...] Schiarisce appena quando entriamo in un baraccamento distante un centinaio di metri dalla stazione. Non si sa a quale reggimento saremo assegnati, né quando ci muoveremo. Si parla di una grande offensiva e si dice che dovremo andare a riempire i vuoti di un reggimento molto provato; alcuni dicono, invece, che saremmo rimasti ad attendere una Brigata che deve scendere a riposo. [...] Dopo il rancio i soldati si sparpagliano nel recinto: chi scrive, chi sonnecchia, chi si scalda al sole. Io me ne vado bighellonando verso la stazione. Arriva in questo momento un treno ospedale. Barelle con corpi immobili, feriti con lo sguardo allucinato, braccia al collo, gambe dalle fasciature enormi, teste bendate, visi smunti e barbuti, abiti laceri, stinti, macchiati dalle esplosioni, luridi di sangue e fango rossiccio.

Quindi il gruppo del sottotenente Muccini si avvia, sotto la pioggia, verso la prima linea. Si noti come anche il lettore venga lentamente accompagnato alla guerra, i cui effetti scopre via via, attraverso lo sguardo sensibilissimo dello scrittore-soldato:

Ci danno le mostrine del 147. [...] Un ufficiale mi avverte che nelle ore pomeridiane dovremo riprendere la marcia per essere a Sagrado sul far della notte. 

[...] Il cannone brontola sempre. Il cielo è fosco; pioviggina. I soldati cominciano a sfilare. Hanno la mantellina sullo zaino e sembrano bestie da soma. A Versa troviamo una Brigata di fanteria. Alla fontana, in piazza, soldati che riempiono le borracce: poco lontano un gruppo di generali.
Fuori del paese entriamo in uno stradone largo e comodo ove, chiari e tremendi, ci appaiono i primi segni della guerra. Case bruciate e squarciate, ville diroccate, qualche parete in piedi, le finestre vuote e, dall'altra parte, il cielo; soffitti sfondati e le canne del tramezzo fra l'intonaco rotto.

Per la prima volta Muccini e i suoi ragazzi si trovano in una zona battuta dal fuoco nemico. Il tono della narrazione diviene quasi solenne:

Notte. L'Isonzo. All'imbocco del ponte un carabiniere.
- I complementi del 147? C'è un ufficiale?
Mi faccio avanti.
- Signor tenente, li faccia passare in fretta e a gruppi. Il ponte è battuto. Poi a destra, alla conceria.
Avanza il primo gruppo con me. Il fiume gorgoglia sotto di noi in un vasto, pauroso silenzio. Sulle colline un rumore soffocato di fucileria. Giunge il secondo gruppo, poi il terzo, poi il quarto... Tutti, finalmente!

Raggiunta la posizione, è necessario prendere confidenza con i luoghi immobili e misteriosi della guerra, e confrontarsi con le riflessioni e i fantasmi che essi, inevitabilmente, suscitano:

Nella notte odo scoppi sopra di me, nel bosco. Ma in quel buio, ignaro del luogo e con il corpo contro la parete di terra, mi pare di essere riparato. Fuori rade voci basse, indistinte e uno scalpiccio frequente di passi pesanti.
La mia vita, le persone, gli affetti, tutto mi sembra lontano, fuori di me, quasi appartenente ad un mondo irreale, fantastico. Livorno, Cremona, la mia casa, tutto sfugge come non vissuto. Unica realtà, potente, formidabile: la guerra. E mi sento preso, trascinato inerte nei tentacoli di un mostro immane, spaventoso: la morte...

Notevole per immediatezza e capacità introspettiva - ma anche testo pieno di contraddizioni e di garbugli -  è il Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda. Il memoriale dello scrittore lombardo - interventista convinto, arruolatosi volontario il primo giugno 1915, assieme al fratello Enrico - è tutt'altro che fazioso o esaltato. È, al contrario, un resoconto palpitante, colmo di ideali e nevrosi, che racconta fatti spesso minimi, tesi a rappresentare la guerra dal punto di vista precipuo, necessariamente limitato, del singolo militare. Il diario prende l'avvio il 24 agosto 1915, quando lo scrittore, promosso solo pochi giorni innanzi sottotenente degli alpini, si trova a Edolo di Val Camonica.
Edolo, 24 agosto 1915
[...] Sto abbastanza bene di corpo, per quanto il troppo cibo preso ieri alla mensa e l'uso che vi si fa di vino e caffè, a cui io non ho l'abitudine, mi lascino un senso di odiosa sazietà e di intorpidimento intellettuale: ho anche un po' di sonno. [...] Inoltre uno strano intorpidimento dell'animo mi toglie di godere a pieno della vivissima emozione fantastica e sentimentale che per solito la montagna mi destava, e talora anzi mi lascia indifferente del tutto [...]. Anche le cattive notizie della Guerra dei Russi mi mandano a traverso questi giorni che potrebbero essere d'esaltazione.

[...] Penso raramente alla guerra, non per indifferenza, ma per timore di soffrir troppo nella preoccupazione e anche perché sono continuamente distratto dalla vita giornaliera.

Gadda, uomo chiuso, difficile e dai nervi non proprio saldissimi, mostra, fin da questa fase iniziale della sua esperienza militare, una forte insofferenza per i continui contatti e l'inevitabile promiscuità con i compagni, oltre che per la futilità di molte delle attività che gli vengono richieste:

In complesso la vita spirituale rimane un po' sommersa sia da ragioni di servizio propriamente dette, come la fatica, le occupazioni, ecc. sia da altre ragioni meno giuste, ma che pure si sommano a queste: la mensa lunga, chiassosa, e talora noiosuccia; il cibo un po' abbondante; l'andare e venire per tutte queste spesucce che non finiscono mai; un po' di caldo e di malessere, oggi; qualche bisticcio fra colleghi, qualche amarezza, qualche durezza che lascia male. Tengo però sempre contegno correttissimo, ossequioso ed evito come sempre ogni discussione.

Atteggiamento remissivo che avrà vita breve se, solo qualche giorno dopo, il 9 settembre, il diario riporta la seguente annotazione:

Adesso voglio inaugurare la politica dell'arabo e del siciliano: bando alla bonomia milanese, al mio ideale di bontà con tutti; il primo che mi ferisce si sente insultare a sangue, e se occorre la si vedrà a pugni, e peggio. Poiché in Italia non si impone il rispetto con le doti dell'animo, col riflesso d'una semplicità leale e cordiale, se pur ingenua; il rispetto si impone con la paura, con i modi viperei, magari con la minaccia. Adesso vado a letto.

Passano i mesi, mentre Gadda è sempre a Edolo: l'inazione, varie preoccupazioni personali, la mancanza di reali rapporti con la maggior parte dei compagni, gli rendono questo periodo malinconico, faticoso, quasi insostenibile:

[...] Dalla guerra brutte notizie, dai Balcani dico. Tristezza su tutta la linea, buio assoluto quanto al futuro, desiderio di scomparire, di finire. Nessun affetto presente, solo aridità negli altri (fuori che in Stefano [Castelli]). Solitudine nelle ore di raccoglimento, tetra e squallida.
[...] Certo per chi ama come io amo la patria, è difficile essere calmi, sereni, vedendo che le cose non vanno come dovrebbero andare. Gli egoismi schifosi, i furti, le pigrizie, le viltà che si commettono nell'organizzazione militare, la svogliatezza e l'inettitudine di molti, prostrano, deludono, attristano, avvelenando anche i buoni, anche i migliori, anche i più forti: figuriamoci me!

La nota del 31 dicembre 1915, scritta mentre si trova a Ponte di Legno (Val Camonica) , contiene un breve ma interessante resoconto dei primi mesi di guerra:

L'anno 1915 si avvia al trapasso: tirando le somme esso ha segnato un miglioramento nelle mie condizioni: nelle condizioni di tanti altri è stato quel che è stato: una spaventosa tragedia. [...] Il periodo di preparazione è stato da me vissuto come un seguito di angosce, di ansie, di speranze: il periodo di guerra, pur non avendomi ancora visto al fuoco, mi ha continuamente lasciato nella tensione d'animo del combattente: la vicenda è stata seguita con passione, cioè con spasimo, con entusiasmo, con sofferenza secondo i casi. [...] Adesso sento che non potrei più tardare, per nessun motivo, ad accorrere dove realmente si fa la guerra: perciò spero che, appena finito il corso e terminata la breve licenza, io sia destinato a un reparto che combatte.

Verrà accontentato: trasferito in zona di guerra fin dai primi giorni dell'anno successivo, presterà servizio in trincee più o meno avanzate (il suo "battesimo del fuoco" viene diligentemente annotato, ascritto alla giornata del 6 gennaio 1916). Si evidenziano, nelle riflessioni sulla guerra dello scrittore - non solo di questo periodo -, assieme ad una critica sporadica ma convinta dell'operato dei soldati di classe popolare, una notevole resistenza a rilevare le molte inefficienze organizzative dell'esercito italiano, come ad avere piena cognizione della qualità delle disposizioni tattiche - spesso spietate e poco produttive - diramate dagli alti comandi nei confronti delle truppe («di Cadorna non dispero: credo sia uno dei migliori»). Citiamo, a tale proposito, l'importante nota del 14 giugno 1916:

Il gelato con cui esaurii le mie risorse, mi fu egregiamente avvelenato dalla lunga tiritera di un sottotenente alpino [...]. Me ne raccontò di tutti i colori, della nostra ritirata: poco bene e molto male, specie dei Comandi di Divisione: ma anche molto pessimismo di maniera, di quello che mi rende sanguinario [...]. Sull'inettitudine dei nostri comandi, sulla loro cinica indifferenza per quello che è, nella peggiore delle espressioni, il loro mestiere, ho già raccolto dati in ogni bocca di militare: ma questi dati possono essere per avventura falsi, e molte volte lo sono certamente, in causa della porca rogna italiana del denigramento di noi stessi.

Quasi un'arringa che si conclude con una sorta di autodifesa - significativamente non richiesta - della propria stessa capacità di giudicare con obiettività il comportamento dei «generaloni»:

Occorre molto diffidare dell'impressione di certuni: certo una cosa è palese: la mancanza di assiduità di questi Comandi alla fronte, l'inefficace o nulla sorveglianza esercitata sui comandi in sottordine. [...] Basta: spero di veder qualche cosa anche coi miei occhi, che credo siano quelli di un uomo ragionevole. Sfoghi contro i «generaloni» abbondano nella storia del mio pensiero [...]. Se Gobi e il Semenza hanno conservato alcune mie lettere dell'estate del 1914, credo che vi siano già dei cenni ironici sui nostri capi: io intuivo, con la diffidenza, che è la ventitreesima legge del mio spirito, l'insufficienza di molte anime porche anche nell'esercito. Basta di tutto questo, che troppo mi amareggia.

Conclusione che manifesta vistosamente quanto dispiacere produca nel giovane ufficiale constatare uno scarto manifesto - a tutti i livelli - tra la realtà della guerra e l'ideale letterario che gliel'aveva fatta desiderare.
Carlo Emilio Gadda verrà fatto prigioniero nel corso della battaglia di Caporetto; attraverserà infiniti patimenti fisici e morali (tra i quali, lo segnerà indelebilmente la morte dell'adorato fratello Enrico, avvenuta il 23 maggio 1918), ma sopravviverà alla guerra. Non riconoscerà mai i limiti di questa esperienza nazionale. Se le amare parole con cui chiude il suo diario, scritte in data 31 dicembre 1919, rappresentano un compendio ben meditato dell'intera esperienza guerresca, sembrano però riguardare più l'individuo Gadda in particolare (sempre pronto ad auto macerarsi) che l'intera generazione che alla guerra aveva creduto fermamente:

La mia vita è inutile, è quella d'un automa sopravvissuto a sé stesso, che fa per inerzia alcune cose materiali senza amore né fede. Lavorerò mediocremente e farò alcune bestialità. Sarò ancora cattivo per debolezza, ancora egoista per stanchezza, e bruto per abulia, e finirò la mia torbida vita nell'antica e odiosa palude dell'indolenza che ha avvelenato il mio crescere mutando le possibilità dell'azione in vani sterili sogni.
Non noterò più nulla, poiché nulla di me è degno di ricordo anche davanti a me solo. Finisce così questo libro di note.


Terminiamo questo nostro breve viaggio nella prima fase della Grande Guerra italiana, sfogliando il diario di guerra del pittore soldato Walter Giorelli  (allievo del noto artista Giulio Aristide Sartorio ), riscoperto da chi scrive e pubblicato nel 2011 con il titolo Il sorriso dell'obice (nota 1). In questo testo la realtà della mobilitazione militare viene narrata con sensibilità, sottigliezza e non senza ironia. Nel primo brano che proponiamo, redatto da Giorelli nel settembre 1915, durante l'addestramento a Bologna, vengono osservati con tagliente acume alcuni comportamenti dei compagni d'armi. La difficoltà di convivenza con commilitoni grossolani e rumorosi rappresenta un motivo ricorrente nei diari dei soldati, soprattutto della classi più agiate.

La vita militare mi appare insulsa e insopportabilmente grossolana, e sono afferrato dalla tentazione irresistibile di trovare un modo, uno qualsiasi, per svignarmela: magari inoltrando domanda di congedo per gracilità.
Ma sono lampi di malumore passeggeri.
Qualche ora più tardi, sdraiato su alcune travi accatastate all'ombra dei grandi alberi del piazzale, ascolto invece con interesse le chiacchiere dei compagni, miscuglio eterogeneo di parlate dialettali che spesso stento a capire. I discorsi riguardano la politica, la guerra e, talvolta, argomenti più frivoli. A sentire le ciance di questi miei amici così risoluti e, a vederli, tanto persuasi di ciò che dicono, sorrido di quel sorriso che ho sempre sulle labbra e nell'anima, quando mi trovo in mezzo agli animali della mia specie.


La nota prosegue con quella che appare, a tutti gli effetti, una dichiarazione di intenti: una, considerazione di tono abbastanza sorprendente, considerando che risale alla fase iniziale della guerra, in un momento in cui gli ardori militaristi erano assai diffusi tra i giovani intellettuali:

Per quello che mi riguarda, ho notato che i pensieri più decisi mi giungono nei momenti di maggior debolezza, per lo più di sera, coricandomi, o di notte se mi sveglio. Quando mi sento forte, rido della guerra, degli uomini, di tutto, e mi accorgo che il mio compito sta nel mettere a nudo la vita qual è, in faccia al mondo che è pieno di malsane idealità e di vacui sentimentalismi.

Al contempo, il militare, consapevole come dimostra di essere della assoluta novità di questa prima guerra moderna , appare nelle migliori condizioni per descriverla. Annota infatti in quello stesso mese di settembre:

Io andrei, e andrò, volentierissimo al fronte, non fosse altro che per vedere. E varrebbe la pena di morire dopo aver visto.

Raggiungerà il fronte nell'ottobre 1915, inquadrato in un reparto di salmerie che provvede ai rifornimenti delle truppe sotto il Sabotino. Ecco il racconto della sua prima marcia in zona di guerra, in una descrizione palpitante e colma di oscure risonanze:


Procediamo lungo uno stretto sentiero mentre cupe deflagrazioni riecheggiano nella valle. Conducendo i muli per la cavezza, marciamo senza dire una parola e alzando solo di tanto in tanto lo sguardo dal terreno insidioso verso le maestose cime senza nome che ci circondano. Gli animali, carichi di munizioni, avanzano lenti, non meno malinconici di coloro che li guidano. Sono sorpreso di constatare come la sensazione che mi pervade somigli più alla tristezza che alla paura. Giù, in fondo alla valle, il bell'azzurro dell’Isonzo, col trascorrere delle ore, è andato mutando in uno spento verdecupo e poi nel nero più profondo. In una strada lontana, candida strisciolina serpeggiante, s’indovina l’ininterrotto incrociarsi di automobili, cavalli, soldati. Le parabole degli obici sibilano sopra le nostre teste, terminando con boati rintronanti contro i monti che ci sovrastano. Stretti fasci di luce scandagliano il cielo a caccia di aeroplani. Di tanto in tanto i cannoni tacciono tutti assieme: allora si produce un silenzio irreale, greve e impressionante. Dietro di me, l’equino respira rumorosamente, le umide e calde narici palpitanti. Nel buio, ne distinguo con chiarezza solo gli occhi sporgenti e rassegnati.
All'arrivo, ci accoglie un giovane robusto dalla mascella larga e l’aria malaticcia, che pare faticare a spiccicar parola. Mentre ci aiuta di malavoglia a portare al sicuro le munizioni, ne osservo gli occhi arrossati e le mani tremolanti, indovinando che è prossimo a un crollo nervoso.

La seguente annotazione, posteriore di solo qualche settimana, denota un sentire diversissimo, evidenziando drammaticamente quanto fossero devastanti per la psiche dei  soldati le terribili condizioni nelle quali erano costretti a vivere:

La grande laboriosità silenziosa e continua, il cannone lontano con i suoi boati lunghi e tristi; tutto, all'inizio, pareva strapparci qualcosa dall'anima. Ora, invece, siamo posseduti da un incessante spasimo nervoso che ci fa agire senza una vera coscienza. E non percepiamo quasi più l’irragionevolezza di questa curiosa esistenza guerresca né il rimpianto per le luci e l’animazione della città. Tanto siamo diventati parte di tale vita di distruzione, che lo scoppio di uno shrapnel a pochi passi, ci lascia insensibili con sulle labbra un sorriso diretto al tiratore incapace di colpirci. 

Il brano seguente, datato 31 dicembre 1915, mostra la peculiare capacità del pittore soldato di rendere con vivacità e immediatezza le sensazioni della vita al fronte. Qui, nel riferire una marcia nei pressi delle linee nemiche, riesce ad evidenziare con rara efficacia i sentimenti contrastanti che produceva talvolta nei soldati l'esposizione al pericolo:

È l’ultima notte del 1915. Stiamo procedendo in colonna, animali alla mano, quando dalla trincea austriaca a pochi passi parte un fuoco accelerato. Mi volto e chiamo i compagni, ma nessuno risponde. I nemici esplodono raffiche di colpi, favoriti dai razzi luminosi che lanciano a ripetizione. Mi getto a terra, nel fango, cercando riparo dietro a una cunetta alta non più di venti centimetri. Le pallottole ruggiscono, segnano l’aria sopra la mia testa, straziano gli alberi, si piantano nel terreno con violenza inaudita sollevando schegge di pietre e nuvole di polvere. Dopo una decina di minuti interminabili tutto s’acquieta. Senza più preoccuparmi degli altri, mi alzo di scatto e mi dirigo di corsa verso lo stradone. 

Accade qui qualcosa di sorprendente. L'aver sfuggito, ancora una volta, l'annientamento, permette una ristrutturazione completa della situazione, in un ribaltamento della realtà contingente che non è del tutto inusuale nei resoconti dei combattenti.

Per un po’ non riesco a pensare a nulla, mi limito a tastarmi ripetutamente il corpo cercando di assicurarmi d’essere ancora intero. Poi mi raggiunge il mulo, che evidentemente si era nascosto nei dintorni, e infine i ragazzi, sbandando come ubriachi. Ci abbracciamo con folle trasporto mentre le bestie festeggiano ragliando con voce quasi umana. Scampato un pericolo, si è increduli di vivere ancora, di non aver subito danno, e si viene colti come da un’irragionevole felicità. Dopo lo scoppio di uno shrapnel o di una granata si sentono sempre urla e grida di gioia, anche se la deflagrazione è avvenuta vicinissima: «Più a destra, Peppe, più sotto, sbagli tiro!».

Senza reali vie d'uscita, i soldati ne inventano una, e possono infine prendersi gioco e ridere anche della morte: ridere del pericolo e della loro inverosimile esistenza guerresca.


Dario Malini

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Note
1 Walter Giorelli è caduto a Plava la notte del 23 novembre 1916. Il Sorriso dell'obice rappresenta, a tutti gli effetti, il suo testamento spirituale.

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