"L'uomo nel labirinto" di Corrado Alvaro

L'uomo nel labirinto, primo romanzo di Corrado Alvaro, è un testo di vertiginosa sperimentazione, assolutamente sorprendente nel suo essere stato scritto nel 1921 (a Parigi, pubblicato a puntate l'anno seguente sullo «Spettatore» di Corrado Pavolini e quindi, in volume, nel 1926), quando nulla di simile era ancora apparso nel panorama letterario italiano, che faticava a tenersi al passo con le istanze più avanzate della narrativa europea:
«L’uomo nel labirinto reca dunque la data del 1921, l’anno di pubblicazione di Rubé di Giuseppe Antonio Borgese, e vuol rappresentare anch’esso la crisi post bellica della borghesia che andava divenendo il punto d’incontro e di maggior ispirazione di tanta narrativa europea. […] A questo clima europeo, l’Italia poteva contrapporre il Rubé appunto del 1921 e La coscienza di Zeno nel 1923; e si dovrà attendere il 1929 per veder comparire un libro determinante come Gli indifferenti, che tuttavia la critica del tempo avrebbe ignorato. Né sorte migliore ottennero i romanzi di Borgese e Svevo».
Walter Mauro, Invito alla lettura di Alvaro
Alvaro, che combatté nella Grande Guerra, rimanendo seriamente ferito in combattimento l'11 novembre 1915, avrebbe atteso ancora quasi un decennio prima di dare alle stampe una sua compiuta riflessione sull'esperienza del fronte (Vent'anni, uscito nel 1930), affidando invece le prime impressioni su quei fatti, quasi in tempo reale, alla forma poetica (a partire dal 1914 pubblicò infatti su varie riviste un cospicuo numero di versi - talvolta un poco ingenui - dedicati alla guerra, una selezione dei quali è confluita in Poesie grigioverdi del 1917). In quel 1921, a soli 25 anni, il ragazzo venuto dall'Italia del profondo sud, emigrato giovanissimo al nord per ragioni di studio, giornalista, frequentatore dei circoli delle più vivaci città italiane ed estere, portatore dunque, oltre che di una matrice popolare arcaica, di una cultura cittadina moderna di livello europeo, si apprestava all'impresa ambiziosissima di narrare gli esiti della Grande Guerra, di raccontare l'Italia dell'immediato dopoguerra. Aveva in mano le carte (artistiche e culturali) per farlo? A tale proposito, le voci critiche più rilevanti del tempo sembrerebbero avanzare qualche riserva, rilevando l'esistenza nella sua personalità di una sorta di infausta dicotomia. Scrisse ad esempio in quegli anni Pietro Pancrazi: 
«L'ansia di vivere nella babele cittadina e, a riscontro, l'idillio paesano. Questo, fin dal principio, fu il capitale di cui Alvaro disponeva. [...] E il secondo motivo dà frutti migliori, mentre l'altro finisce per rimanere un lievito che non fa pane».
Non troppo diversamente, Geno Pampaloni disse che Alvaro, a differenza di Verga, non riuscì a 
«colmare e a concludere quel periodo settentrionale che per Verga era stato milanese e mondano e per lui giornalistico ed europeo. [Restando dunque bloccato] fra due correnti opposte di nostalgia, per la sua terra e per la città, per l'Europa, per il mondo complicato e sfuggente che si dice moderno».
Parrebbe dunque che il nostro avrebbe dovuto limitarsi ai temi "paesani", lasciando le questioni "cittadine" a qualche penna meno tormentata. Come sappiamo, lo scrittore decise, fin da subito, diversamente, cosicché in quel 1921 L'uomo nel labirinto, scritto quanto mai "cittadino", vide inopinatamente la luce. Con quali esiti, cercheremo di capire.

Apriamo ora direttamente le pagine del romanzo (in questo intervento ne verrà presa in considerazione la versione del 1926 e non quella più nota - snellita, corretta ma, a parer nostro, abbastanza algida - proposta da Alvaro, instancabile ri-scrittore della propria opera, nel 1934, all'interno del volume Il mare). L'uomo nel labirinto si apre nell'immediato dopoguerra (nota 1), con alcuni fantastici scorci di una città italiana non meglio identificata: 

La primavera arrivò improvvisamente. [...] Quando il cielo si oscurava, tutto, le fontane, le case, gli alberi parevano partecipare alla preparazione di un avvenimento. Era l'ora delle scoperte. Piante mai vedute, muriccioli che sembravano sorti improvvisamente attorno a giardini impensati, donne che guardavano la gente come i ragazzi che saltano fuori dal nascondiglio a gabbare chi non è riuscito a scoprirli. A qualcuno pareva di voler ripigliare il filo d'un discorso interrotto, ma così vago e lontano che l'unica cosa era di mettersi a cantare. Nasceva la luna sul cielo fresco che, ora che nessuno la guardava,se non i vagabondi e i disperati, era bianco, con poche stelle scialbe e ferme.
Corraro Alvaro, L'uomo nel labirinto
Si ha qui la sensazione di essere approdati in un universo del tutto nuovo per la nostra letteratura, dove incanto e disarmonia abitano fianco a fianco e il senso segreto delle cose pare essere divenuto ad un tempo manifesto e inafferrabile, vibrare d'inedite dimensioni inconsce. E il lirismo della prosa sembra scaturire dalla forza primigenia della realtà nella sua piena, misteriosa concretezza, come in alcuni coevi paesaggi urbani di Mario Sironi.
Poco dopo viene presentato il protagonista del romanzo. Alvaro lo introduce tramite una scena tanto semplice quanto evocativa: Sebastiano Babel, affacciato alla finestra, osserva la città e riflette. Noi, all'interno della sua scatola cranica, ne ascoltiamo i pensieri o almeno ciò che di essi ci riferisce l'autore. Ecco che si delinea un personaggio assolutamente novecentesco, impensabile prima della Grande Guerra, potentemente europeo, chiuso nel labirinto inestricabile che dà titolo alla sua storia.
Sebastiano Babel, in una di queste sere, era alla finestra. [...] Aveva gli occhi color nocciola, limpidi e interrogativi come quelli dei cani. Pareva che tutte le impressioni gli si fermassero nella pupilla senza andar oltre. Neanche il suo viso voleva dir niente, lustro, roseo, senza una ruga e senza un pelo. Benché lo si riconoscesse anche dopo averlo visto una volta, era difficile dire come era fatto: ogni volta che lo si rivedeva pareva cambiato, o che avesse quel che di nuovo delle persone uscite dalle mani del barbiere.
Corraro Alvaro, L'uomo nel labirinto 
Poche righe dopo, senza soluzione di continuità, il testo s'addentra nelle regioni interiori del personaggio. Tra il dentro e il fuori non esistono più confini certi:
In certi momenti gli pareva che il mondo gli dicesse i suoi segreti, e a guardarla come sapeva lui, ogni cosa indifferente stesse sul punto di fargli una rivelazione. Le forme delle cose contenevano segreti di sviluppo all'infinito, avevano una continuazione ideale, e addirittura pareva mantenessero un aspetto illusorio che nascondesse quello reale; la verità che doveva essere meravigliosa. Certe linee gli parevano mal riuscite e tracciate dall'operaio o dall'artista per colmare un vuoto, ma non erano precisamente quelle che dovevano essere, come parole dette in luogo di altre. A badar bene, in tutte le cose c'era una falsificazione, una declamazione , una stanchezza.
Corraro Alvaro, L'uomo nel labirinto
Ancora più oltre, mentre rimane immobile, come cristallizzato, alla finestra,  Babel ragiona intorno all'impossibilità per lui di metabolizzare il passato (trascorso, viene detto, in un altro paese, dunque, come ogni lettore non può evitare di pensare conoscendo la biografia dell'autore, in Calabria) e, dunque, di riconoscersi nel presente, in modo da potersi rapportare agli altri su un piano di realtà:
Badando a queste cose gli tornavano in mente vecchi pensieri che non era mai riuscito a fermare, e che erano i pensieri della sua giovinezza trascorsa, rimasti intatti e nani. [...] Della sua giovinezza non gli rimaneva altra impressione che di aver perduto infinite occasioni e di essersi chiuso in una specie di guscio invulnerabile in attesa di qualche avvenimento che ne lo dovesse tirar fuori [...]. Siccome aveva cambiato paese quando era finita la gioventù, attribuiva a questo fatto la sua scontentezza e l'impossibilità dei rinnovi e dei ritorni. [...] E oggi, persino la città straripante sotto il sole gli appariva sotto una primavera illusoria, quella che scende alle pendici delle montagne spazzata di vento fresco. Perciò non gli interessava partecipare alla vita di tutti. [...] Se ne stava alla finestra sentendo queste cose, e a mano a mano si sentiva come divenire scuro e con pensieri sordi.
Corraro Alvaro, L'uomo nel labirinto
La riflessione termina, fissando il nodo centrale del romanzo, poiché l'impossibilità di comprendere la realtà e di rapportarsi agli altri, nella città in cui è emigrato, si concretizza in un pensiero specifico che tutto riassume:
Tutte queste cose egli non le pensava che oscuramente e confusamente, non come pensieri, ma come richiami e istinti; anzi era questo il fondo su cui si agitava un altro pensiero preciso che tutti gli altri riassumeva: il pensiero di sua moglie.
Corraro Alvaro, L'uomo nel labirinto 
Abbiamo riportato gran parte di questo brano perché lo riteniamo esemplificativo delle notevoli novità stilistiche e contenutistiche di cui lo scritto è portatore. Lo scrittore, senza evitare di introdurre autobiografismi (che, qui e altrove, non gli saranno sovente perdonati dalla critica), intendeva fare tutt'altro che dell'autobiografia; trattando personaggi specifici e ben calati nella realtà contemporanea egli indagava (come avrebbe fatto sempre nelle sue opere successive) non delle singole esistenze ma "le grandi idee universali il cui tema unico è la vita". Qui la difficoltà dell'essere umano di convivere con l'invadenza dell'industria, delle macchine, della vita di città, della politica, ecc., nel corso di un processo di modernizzazione (all'interno di una società italiana che era ancora in gran parte contadino - pastorale e dunque dei cui valori Babel è in qualche modo portatore) che la guerra aveva immensamente accelerato, si configura come crisi insanabile, evidenziandosi attraverso l'impraticabilità di un reale sentimento d'amore tra uomo e donna. Crisi affettiva e sessuale che non è tanto, e non è solo, malessere individuale ma conflitto psicologico, sociale e culturale indotto eminentemente dal progresso e dal nuovo rapporto che la vita moderna disegna tra gli esseri e le cose.

Le molte pagine successive della narrazione, che contengono non piccole ingenuità "giovanili", raccontano la confusa ricerca da parte del protagonista di una qualche soluzione alla crisi delineata nella prima sezione che si chiude non a caso con la morte di Anna, moglie del protagonista. A tale proposito, l'ultimo incontro tra Babel e la moglie morente è di brutale violenza, andando a delineare lo sfacelo finale che attiene alla loro unione:
Allora Babel entrò nella stanza. Ella si levò dal letto rigida e con gli occhi sbarrati:- Va fuori! Va fuori! Tu sei la mia rovina. Tu mi hai rubata la gioventù. Tu mi hai assassinata. Assassino! Assassino!
Corraro Alvaro, L'uomo nel labirinto
Dopo varie esperienze fallimentari, nel tentativo di sfuggire un destino che sembra ripercorrere incessantemente strade già battute, l'approdo cui Babel faticosamente accede è quello di un ritorno alle origini: decide infatti, dopo rocamboleschi spostamenti e vicende non sempre chiarissime, di trasferirsi al paese natio. Apparente scioglimento narrativo che, venato com'è di molte ambiguità, è più la constatazione di una crisi che non la proposta di una reale soluzione (nota 2), come il lettore avvertito intuisce già nel momento in cui Babel giunge a destinazione. Ecco infatti come viene descritto il suo arrivo al paese natio:
Il treno lo raccattò con la sua valigia come un carico inerte. La monotonia del viaggio lo addormentò tra rumori e suoni indistinti. La tromba e la campanella delle stazioni gli suonavano nel cervello con canti sovrumani. Si svegliò verso mezzogiorno. I suoi orecchi, abituati alle grida e ai rumori delle stazioni avvertirono un suono nuovo e voci conosciute. [...] Aprendo gli occhi vide fuori i paesi che conosceva. [...] Affacciandosi vide una forma umana presso il ponte [sul fiume del suo paese ], gittata come uno straccio in terra, sorvegliata da una guardia. Per il pendio riconobbe forme umane che non potevano essere altre che quelle del suo paese. Il treno rallentò la corsa. I viaggiatori si affacciarono al finestrino. Quegli uomini portavano sulle spalle una barella costruita con due rami d'albero e intrecciata di ramoscelli coperti di fronde. Uno di essi, presso il treno, lo guardò fisso. Una donna scalza e vestita di nero s'era inginocchiata presso la forma umana che, ora si vedeva, era un contadino che giaceva inanimato, col cranio sanguinante.- È uno d'un paese vicino - disse uno dei viaggiatori - che ieri arrivò dal reggimento in congedo. Appena vide le montagne del suo paese, credendo di far presto a raggiungerle, si precipitò dal treno in corsa. Ha battuto la testa contro le sbarre del ponte ed è rimasto là secco. È un brutto ritornare.
Corraro Alvaro, L'uomo nel labirinto
E questo "brutto ritornare" viene riverberato nel finale del romanzo, quando Babel si scontra con una realtà sminuita rispetto ai suoi ricordi. Rattrappiti sembrano i luoghi dell'infanzia:
Guardò il paese già destato, che gli parve più piccolo che mai. [...] Tutto era adesso infinitamente piccolo e rattrappito, e persino le montagne imminenti erano schiacciate, nient'affatto misteriose.
Corraro Alvaro, L'uomo nel labirinto
Tristi gli sembrano le persone, nonostante la fratellanza che sente per loro:
Nella faccia di tutti quegli uomini ritrovava i caratteri della sua razza con una insofferenza fraterna. Si aprivano davanti a lui le bocche che egli conosceva, gli sguardi che egli sapeva leggere. [...] Ridevano da tutti quei ceffi, coi denti grossi e bianchi fra le labbra spalancate. E guardandoli ridere Babel si ricordava del soprannome di ognuno: «Ecco Labbrodasino, ecco il Pecora, ecco Mezzatesta». Quella gente, nel sole, sembrava un ammasso di panni sudici. Toccandolo con le grosse mani sembrava che gli macchiassero il vestito e si sentì anche lui coperto di stracci. Le donne si affacciavano alle finestre come tartarughe fuori dal guscio.
Corraro Alvaro, L'uomo nel labirinto
Tutto ciò conduce alla scena finale del libro, che si svolge all'interno della carcassa di un antico palazzo, una volta ricca dimora piena di servi ora sterile ammasso di rovine denominate non a caso "la Stalla". Babel siede del tutto solo in questo luogo desolato, leggendo ad alta voce una lettera indirizzata a Mary (una sorta di fidanzata che egli aveva malamente sedotto e abbandonato qualche tempo prima): scritto futile e sterile come i vecchi giardini disseccati che lo circondano.
Sedeva là, nel più profondo segreto, tirava dalla tasca un foglio e leggeva ad alta voce. Erano le sue lettere a Mary. Dopo due giorni dal suo ritorno aveva cominciato a scrivere lettere a quella donna, nella città dove supponeva fosse tornata.[...] Leggeva declamando pateticamente. Gli pareva di non intendere il significato di quello che aveva scritto e rileggeva da capo scandendo le sillabe. Le parole gli si ripresentavano alla mente scomposte, con la successione inerte delle lettere come se fossero tracciate su una lavagna di scuole elementari. Perdevano quasi ogni significato e ne avevano uno che risultava dai suoni delle sillabe assolutamente lontano da quello reale. Era come vedere i cenni di un muto che si sforzi di parlare. Altre volte lo commuovevano solo a pronunziarle, destate dal profondo dei suoi ricordi, cariche di tutte le passioni del mondo che vi si erano affidate da centinaia d'anni.
Corraro Alvaro, L'uomo nel labirinto
In questo brano magistrale che chiude il romanzo, l'autoinganno, la frantumazione dell'io e l'alienazione si mostrano scopertamente (presenti anche nel luogo del ritorno), andando inevitabilmente ad investire anche la caratteristica più saliente dello spirito umano: il linguaggio. Non possiamo esimerci dal mettere in relazione l'annullamento del senso delle parole, come viene qui delineato, con il curioso cognome del protagonista di questa vicenda, cosa che ci induce a ritenere che Alvaro attribuisca la "malattia" di Babel (quell'impossibilità di vivere che attanaglia l'uomo moderno) a un nuovo peccato d'orgoglio della razza umana, che le immani facoltà fornitegli dalla scienza e dalla tecnica hanno reso possibile: l'edificazione di una sorta di torre-obice puntata verso il cielo. Da ciò la confusione del linguaggio, l'impossibilità di una vita degna d'essere vissuta e di un reale contatto tra le persone, condizione che per l'Alvaro venticinquenne parrebbe insanabile, appartenendo antropologicamente all'uomo moderno.
Comincia il Novecento: un labirinto che non prevede vie di fuga.


Terminiamo rilevando come, in un libro che racconta, e voleva certamente raccontare, il dopoguerra, di guerra non si parli affatto: nell'intero romanzo si contano appena due apparizioni di reduci (tra cui però quella importantissima del finale). D'altronde, lo scrisse lo stesso Alvaro:
Quello che forma l'aspetto particolare di un'epoca è la creazione di nuovi stati d'animo, di modi speciali di vedere, di sentire, di vivere, inconfondibili. Ed ecco, dopo la guerra, spuntare il secolo nuovo.
C. Alvaro, "La Stampa" (3/3/1920) 



Dario Malini



Note
1 La determinazione temporale è sottaciuta nella versione del 1926 de L'uomo nel labirinto, restando affidata a qualche rara apparizione di reduci qua e là nel romanzo; resa esplicita invece nell'incipit della versione del 1934: «La primavera arrivò improvvisamente; era l'anno dopo la guerra, e pareva non dovesse più tornare».
2 Siamo ben consapevoli che una lunga tradizione critica assegna un valore di redenzione al "ritorno" di Babel. Ad esempio, Maria Letizia Cassata scrive, a proposito de L'uomo nel labirinto, nel testo del 1974 Corrado Alvaro: «Solo quando entra nella regione della sua infanzia Babe assume una diversa personalità : è in piedi, nuovo, giovane, ridente, tra le cose familiari, tra profili noti. [...] Nella sua terra il dolore e la solitudine, lungamente rappresi e divenuti grumi nel suo cuore, si sciolgono nella gioia e nel pianto. Ogni uomo ha un senso, un valore, un ruolo se ritorna alle sue origini, se ritrova le sue radici che lo giustificano. Il paese è per Babe l'approdo, per questo i suoi compaesani lo riconoscono». 
Ma una lettura attenta del testo mostra come il "labirinto" di Alvaro non permetta una così facile via d'uscita.  

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