"Vent'anni" di Corrado Alvaro

Pubblicato nel 1930, Vent'anni, secondo romanzo di Corrado Alvaro, è una delle prime opere potentemente antimilitariste apparse in Italia. "Vicenda di giovinezza e di deriva" come scrisse felicemente (con espressione che piacque all'autore) Geno Pampaloni, Vent'anni nacque in un momento di profonda crisi morale, politica e intellettuale del nostro paese (ricordiamo che la marcia su Roma si svolse nel 1922 e che il delitto Matteotti avvenne nel 1924), una situazione ambientale tanto nefasta e pericolosa da obbligare Alvaro, dopo l'aggressione ad Amendola del luglio 1925 (il deputato morirà a Cannes, dopo lunga agonia, nel mese di aprile dell'anno successivo), la chiusura del quotidiano antifascista Il Mondo e le molte intimidazioni subite, a trasferirsi a Berlino nel 1928. 
Nel 1930, anche per il probabile intervento di alcuni amici influenti (tra i quali una donna potente come Margherita Sarfatti), il clima ostile che circondava lo scrittore calabrese, avverso al fascismo «per temperamento, per cultura, per indole, per inclinazione, per natura» (C. Alvaro, Ultimo diario), sembrò improvvisamente allentarsi, tant'è che poté tornare in Italia senza doversi piegare alle tesi dominanti. La tregua tra scrittore e regime avrebbe avuto fasi alterne (tanto che il rapporto tra lo scrittore e il fascismo resta un capitolo ambiguo su cui molto si è discusso): in quel 1930, permise la pubblicazione di due libri importanti quali Gente in Aspromonte, che conquistò l'importante premio letterario «La Stampa», e, appunto, Vent'anni.

Perché mai, ad oltre un decennio dalla sua dolorosa esperienza al fronte della Grande Guerra, Alvaro si decise improvvisamente a mettere su carta un'articolata riflessione su quei fatti? La domanda è tanto più pertinente se si pensa che la scrittura di questo libro è avvenuta quasi di getto, sotto l'influsso di uno stimolo pressante, come ci dice lo stesso Alvaro nella nota posta in appendice a un'edizione di Vent'anni:

Questo libro fu scritto in poco più che trenta giorni a Positano, nell'estate del 1930. [...] Per anni io non ebbi molte simpatie per questo mio lavoro, sebbene il ricordo vivo che ne serba la gente della mia generazione mi consigliasse di continuo che sarebbe convenuto rileggerlo. 
Già in un articolo del 29 agosto 1923, pubblicato dal quotidiano Il Mondo, Alvaro aveva dato segni di insofferenza rispetto al modo in cui veniva trattata la memoria dei soldati della Grande Guerra: 
Guglielmo Noferi, nato a Fiume nel 1890. Impiegato in un'azienda di caffè al Brasile, s'imbarcava per l'Italia dove si arruolava volontario nell'esercito e chiedeva di essere mandato al fronte. Fu assegnato al 123° reggimento fanteria. Lo conobbi a Sacileto, e non si volle staccare da me ch'ero suo ufficiale. [...] Nell'ottobre e nel novembre 1915 alla trincea dei Sassi Rossi, guazzò nel fango per orribili giornate di pioggia fredda e maledetta e sostenne ogni privazione. [...] Il 10 novembre 1915 usciva all'assalto. Me lo presentarono spirante, trapassato da quattro fucilate ai fianchi, al petto, alle gambe, tenuto appeso per le ascelle come un animale macellato, con quella sua carne livida e nuda attraverso il suo vestito di fango. Siccome si preparava a morire, si raccomandò che non lo si proponesse per nessuna decorazione, giacché la sua famiglia era a Fiume, e doveva essere al riparo da ogni vendetta del nemico. [...] Spirò nei camminamenti tra il fango e le cannonate.
C. Alvaro, Vite parallele di eroi
L'articolo termina accostando, con graffiante effetto di contrasto, al precedente profilo (che è riferito al soldato dedicatario di Vent'anni, cui è stato solo mutato il nome di battesimo), la descrizione di un'altra assai diffusa tipologia di "soldato":
Tal dei tali, nato nel 1896. Studiò lettere, e ben presto si imbrancò in tutti i movimenti letterari che allora promettevano ai giovani fama a buon mercato. Fu futurista tanto alla Marinetti quanto alla Papini. [...] Scoppiata la guerra divenne soldato di cavalleria e fu imboscato, menando gran vanto di questa condizione. [...] Divenuto fascista [...] ebbe una missione ufficiosa dal governo. Ora è uno degli interpreti autorizzati del movimento fascista. [...] È vivo.
C. Alvaro, Vite parallele di eroi
Nel 1930, mentre il regime fascista andava sempre più edificando una vera e propria mitologia della Grande Guerra, presentandosi come erede legittimo dello spirito delle trincee, Alvaro sentì forse che era giunto il momento di far risuonare anche la propria voce. Dice infatti lo scrittore, crediamo con segreta ironia, nella già citata appendice al suo romanzo di guerra:
Siamo in tempi di sconvolgimenti in cui le guerre hanno assunto un altro significato da quello che ebbero sino al 1914. Dunque questo libro si presenta al lettore come il ricordo di un'altra civiltà.
Corrado Alvaro che, nel 1917, aveva già affidato le proprie sensazioni personali sulla guerra alle Poesie grigioverdi, aveva ora in animo di produrre un'opera differente e ben più ambiziosa, qualcosa come (citiamo sempre dall'illuminante nota in appendice al romanzo)   
[un] documento d'uno stato d'animo collettivo di fronte a un avvenimento fondamentale della vita italiana.
Con un procedimento che era e resterà per lui abituale (accumunandolo ad altri scrittori contemporanei, la cui opera viene oggi considerata centrale nel processo di riedificazione della forma del romanzo; uno per tutti: Federigo Tozzi, amico del calabrese), Alvaro fonda la narrazione sulla propria esperienza autobiografica, senza che ciò però ponga vincoli alla libera fantasia, all'intima espressione e, in caso di necessità, persino alla rielaborazione della realtà storica. 
Ma veniamo finalmente al testo. Il romanzo prende l'avvio con l'arrivo a Firenze del ventenne Luca Fabio:
All'alba d'una mattina d'ottobre, Luca Fabio scendeva alla stazione di Firenze con una valigia di tela grigia mezzo vuota come un mantice. L'ora era pigra e nebbiosa. Attraverso la nebbia, chiese e palagi arretravano in una lontananza cinerea. Fabio era di un qualche paese dell'Italia meridionale, e di una contrada non illustre, nient'altro che pastori; dove la campana, tra un'impalcatura di legno, era, coi suoi bassorilievi, il solo oggetto d'arte della contrada; perciò, appena si imbatté, a un crocicchio verso Santa Maria Novella, in una colonna sormontata da una croce, si ricordò confusamente di alcune letture, e la prima che gli venne a mente, come la più elementare, fu quel capitolo del Manzoni in cui Renzo trova i pani a pie' d'una colonna.
C. Alvaro, Vent'anni
Incipit maestoso che evidenzia l'intenzione di costruire, attraverso una prosa colta e corposa, un romanzo di respiro europeo, degno della nostra migliore tradizione (e il riferimento al Manzoni non è certo casuale), superando gli angusti limiti del frammentismo e degli sperimentalismi. Si avverte il tentativo di costruire, parola dopo parola, una "lingua" non priva di ricercatezze e di notevole forza espressiva. Comincia così il viaggio di Luca Fabio, pastore di una contrada non illustre di un qualche paese dell'Italia meridionale, nella modernità, in quel Novecento pieno di orrori, che la Grande Guerra inaugura. Giunto nella capitale toscana, nell'ottobre del 1914, Luca Fabio, allievo ufficiale, si sottoporrà docilmente all'addestramento militare mentre i venti di guerra cominciano a soffiare, quasi inavvertiti, sempre più dappresso anche per l'Italia. La prima parte del libro (che sovente la critica, forse non del tutto a torto, ha avvertito come la meno riuscita) mostra la scoperta della vita cittadina da parte del giovane meridionale, evidenziando quanto difficile sia per lui (non tanto come singolo individuo quanto come appartenente ad un gruppo sociale) rapportarsi agli altri e alle cose su un piano di parità. Farà amicizia con un ragazzo settentrionale di famiglia borghese, il caporale Attilio Bandi, «giovanissimo, dall'aspetto dolce, quasi biondo; aveva una vaga traccia di barba sul viso, dorata, gli occhi celesti, il profilo affilato. Vedendolo, si pensava involontariamente alla parte femminile della sua famiglia; a scuola, in collegio, sarebbe stato un amico ricercato, come quello che serbava una certa dolcezza, e ingenuità. La sua voce era però maschia e sonora, era più forte di lui, e quando parlava gli s'illuminava il viso, si deformava la bocca sottile, era un uomo virile». 
L'impatto con la vita di città non sarà però facile, come evidenzia un pensiero che, non molto tempo dopo l'arrivo a Firenze, Luca Fabio espone durante una conversazione casuale con la famiglia dell'amico Bandi. Può essere considerato una sorta di manifesto di una generazione di giovani intellettuali meridionali:
Voi che vivete nelle città non vi accorgete di nulla. Ma per noi che veniamo da fuori questo mondo ci delude. Sarà stato magari un eccesso di fantasia da parte nostra. Io credevo l'Italia il più grande, il più ricco, il più potente paese del mondo. Lo dicevano i libri. E non è vero. Allora mi sono detto: [...] almeno ha degli uomini. Non è vero neppure questo. Siamo poveri, siamo piccoli, siamo vecchi. Allora non ci resta che saper morire. Se io fossi rimasto quello che era mio nonno, quello che è mio padre, un uomo della terra, sarei felice. Ma tutto quello che mi hanno fatto conoscere è entrato in me come un veleno. Ora niente più mi piace.
C. Alvaro, Vent'anni
La guerra si avvicina. Il viaggio di Luca Fabio e compagni verso il confine, attraverso i territori abbandonati dagli austriaci, diventa una finissimo e originale racconto corale dell'esperienza del distacco. Distacco dai luoghi conosciuti, dalle persone amate, da se stessi. Ma, soprattutto, dal significato tranquillizzante e vitale che le cose possedevano nel mondo precedente la guerra, che i soldati non possono evitare di cercare anche nei luoghi potenzialmente ostili che attraversano. 
Dal fondo degli anni e della memoria, risorgevano le abitudini primitive, come segni di vita dopo un distacco che pareva enorme, ed erano appena cinque giorni: c'erano i campi, le opere dei campi, il fieno da falciare e da accatastare, l'acqua da tirare dalle cisterne, le piante da legare al palo.
C. Alvaro, Vent'anni
Lo sguardo di Alvaro si poggia con particolare attenzione sui soldati, contadini e artigiani per la gran parte, di cui evidenzia pregi e difetti senza retorica né quel sentimento di paternalismo che caratterizza tante analoghe descrizioni in altri scrittori:
Ascoltando i discorsi di tutti quegli uomini si accorgeva che facevano conoscenza. Uno della provincia di Campobasso descriveva a un altro della provincia di Rovigo come vivevano al suo paese [...]. «Siamo tutti a un modo». Arrivavano a questa scoperta. [...] Per ora questo era l'esercito, una specie di squadra di manovali, una turba di emigranti con gli stessi rimpianti di sempre, stessero fermi o andassero, la stessa rassegnazione a girare il mondo e la stessa inquietudine di mettersi a girarlo.
C. Alvaro, Vent'anni 
E ai soldati il protagonista della narrazione si sente affratellato assai più che agli ufficiali, cui vengono spesso dedicate riflessioni di notevole acutezza sociologica:
E anche qui, lo stesso senso di distacco che aveva provato davanti alla borghesia della città, lo provava davanti ad alcuni compagni ufficiali, specialmente quando tutti erano adunati all'ora della mensa. Si vedeva chiaramente che gran parte di essi erano stati impastati fino a ieri di popolo. [...] Perciò affettavano abitudini complesse, i più scettici pensieri: erano fieri di far parte della borghesia, [] provavano, a comandare, una pericolosa e sottile voluttà [...]. I soldati avvertivano subito uomini siffatti; ubbidivano come a capricci della natura e della storia, e questa era ben l'Italia.
C. Alvaro, Vent'anni
E giunge il «giorno impossibile tante volte pensato e immaginato, su cui milioni di uomini puntavano le loro fantasticherie, il giorno dell'assalto. [...] Ecco la battaglia, ecco la guerra», preceduto da un notevole dialogo tra Luca Fabio e il suo capitano (che riporta alla mente non poche scene analoghe presenti in Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu, la cui pubblicazione risale però al 1937), che mostra senza mascheramenti quanto poco valore attribuivano le alte gerarchie militari alla vita dei fanti e, al tempo stesso, l'irragionevolezza delle vuote formule che, «lanciate da comando a comando, fino alla linea del fuoco», determinavano così spesso l'inutile morte di tanti giovani:
Il reticolato, diceva [Fabio] era forte e denso, le azioni dei giorni precedenti, non sapeva qual giorno, lo avevano appena intaccato. Il capitano lo guardò fermo e disse: «Gli ordini del comando sono questi: che i reticolati si rompono coi petti. Questa è la consegna. Diremo che facciano un po' di fuoco prima». [...] E siccome Fabio insisteva che era necessario aprirsi dei passaggi, che egli con venti uomini, con la compagnia di cento uomini appena, non credeva agli sforzi sovrumani, il capitano replicò duramente: «Non sta a me giudicare gli ordini; i reticolati si rompono coi petti. E del resto, caro tenente, questa è la guerra, e si è sempre combattuta così dal primo giorno. Nessuno la può modificare, le artiglierie sono poche, i colpi contati, e si sopperisce a queste cose col coraggio». Levò gli occhi e disse fissandolo: «Col coraggio, m'intende, col coraggio».
C. Alvaro,  Vent'anni
È interessante osservare come Alvaro, le cui corde espressive non sono certamente avvezze alle scene d'azione, descriva poco oltre l'inizio dell'attacco: 
Meccanicamente gli uomini furono in piedi; meccanicamente Fabio risalì d'un salto il muricciolo della trincea. Sottovoce, come un ricordo che tornava loro da un'abitudine di piazza d'armi, ma col tono di un augurio in una mattina solenne, mormoravano tra di loro: «Savoia, Savoia!»
C. Alvaro, Vent'anni
La prosa, dispiegandosi lenta, solenne e musicale, segue dappresso l'avanzare di Fabio e compagni sul campo di battaglia. 
Fabio si cacciò avanti a capofitto, per un attimo vide i suoi pochi uomini accanto a lui, ognuno con gli occhi fissi sul suo fucile, come se sentirlo sparare fosse un attestato di vita. Sul margine della trincea vide quei cento metri di terra davanti a sé, i sassi, i morti, le vecchie stoppie, una macchia di verde. Voci e rumori diventavano dispersi e musicali come nella conca d'un lago; molto più avanti di lui fuggiva avanti il suo cuore: era soltanto un corpo che cercava di riannodarsi a un palpito di vita che lo precedeva, con un senso di difesa e di protezione; l'anima era una cosa all'infuori di lui, messa al sicuro, immortale e invulnerabile: sulla terra si agitavano solo le membra della sua pianta animale.
C. Alvaro, Vent'anni
La guerra ha quasi sempre, in Alvaro, il passo ieratico di un cataclisma naturale, perciò anche nelle più vivide scene di battaglia il dramma dei singoli sembra diluirsi nella coralità di visuali più ampie. Ad esempio, il momento topico della morte di Attilio Bandi, il già citato amico inseparabile di Fabio, viene mostrato con un'inquadratura a campo lungo, irreale come una scena onirica; e lo stesso Bandi si muove scomposto sul campo di battaglia, simile a un automa o a un burattino, pietosamente trasformato dagli dèi (come in un racconto mitico), nell'attimo che precede la fine, in creatura vegetale:
Volgendosi un poco, [...] vide Bandi accennargli lontano [...]. Ma era come se qualcuno lo tenesse legato, non riuscisse a staccare i passi, pur facendo uno sforzo violento come accade di fare nei sogni. [...] «Forza, Attilio, forza!» In quel momento si accorse che qualcuno sparava sparava insistentemente su di lui, gli parve di vederlo, anche, a cavalcioni della trincea nemica, biondastro, con due baffi biondi e grossi. O forse era un'illusione. Bandi rispose scuotendo la testa. «Non posso più muovermi». Faceva difatti uno sforzo enorme. «Aiutami, Fabio!» Ma fabio era lontano, e volgendosi, e accennandogli, vide che il compagno si era mosso, brandendo il fucile. I suoi movimenti erano rigidi come quelli di un automa. Sulla fronte scoperta vide spicciargli un fiotto di sangue che ora lo accecava; ma seguitava ad andare avanti, sebbene un poco obliquo come un congegno di cui si fosse rotta una molla. Marciava, morto, volontà occulta, ultimo pensiero del cervello colpito. [...] Rimase in ginocchio, verso il nemico; non si mosse più. Una mitragliatrice lo batteva: infilava una pallottola dietro l'altra in quel petto, lo faceva tremare come un virgulto sotto il vento.
C. Alvaro, Vent'anni
L'assalto prosegue. Fabio, divenuto come invulnerabile, pare trascinato in avanti da forze sovrannaturali (in pagine che evidenziano, più che l'adesione ai dettami del "realismo magico" di Bontempelli, quella vena fantastica presente nella scrittura del nostro fin dagli esordi):
Fabio, volgendosi indietro, vedeva la battaglia accendersi più violenta ai margini del campo, i cannoni nemici battere al rovescio le posizioni italiane e le vie d'accesso, e in quel fumo, in quello spolverìo, gente accorrere, file d'uomini arrancare, feriti tentare di mettersi al riparo; una cortina di vapori e di lampi copriva tutto e nello stesso tempo lo rivelava. Qui, dove egli correva libero e leggero [come in sogno], sentendosi invulnerabile, senza riuscire a fermarsi, vedeva scarsi uomini accorrere verso di lui, allontanarsene, gesticolare; superata la scarpata della trincea, il fuoco troppo alto fischiava al disopra della sua testa.[...] Aveva l'impressione di correre libero e sciolto da ogni laccio, da ogni pensiero, da ogni dovere, di toccare una riva remota e tranquilla dove si sarebbe seduto a contemplare il pericolo corso.
C. Alvaro, Vent'anni
E in questo contesto metamorfico, il nemico medesimo appare a Fabio, con chiaro valore simbolico, come un altro se stesso:
Gli caddero gli occhi su quell'uomo: la benda gli faceva una specie di turbante. Osservandolo, gli pareva una faccia nota; non era altro che una vaga rassomiglianza con lui Fabio: la stessa forma del naso, gli occhi a mandorla, una copia di lui stesso odiosa e nemica. Ne ebbe ripugnanza e compassione come d'un suo fratello.
C. Alvaro, Vent'anni
Terminato il «gioco serio» dell'assalto, da cui Fabio esce indenne, l'esistenza dei sopravvissuti riprende a scorrere, malinconica e dura ma non priva di nuovi, illusori fremiti vitali:
Fumavano sul greto del fiume le cucine da campo; chi sa come, si fece sentire la trombettina che suonava i comandi della giornata. L'aria era buona da respirare, il sole buono, la terra buona e odorosa. [I soldati ] respiravano tutti come gli alberi, la terra sotto i loro piedi li rinfrescava con la sua linfa giovane, sentivano i loro stracci sventolare, i sensi liberi e pronti; la terra era tutto un presentimento di donna amata che li aspettava forse a una svolta, dietro un albero, sulle soglie d'una casa. [... ] La terra era tutta un'avventura, vi si poteva camminare sopra da paese a paese, e creature coi sensi intorpiditi aspettavano l'amore come in un sonno estivo.
C. Alvaro, Vent'anni
Le pagine finali, alternando sapientemente toni elegiaci a passaggi lirici, suggestioni "magiche" a descrizioni di crudo realismo, tracciano via via il cangiante stato mentale di ufficiali e soldati, quei ventenni che danno il titolo al romanzo, cui la guerra ha tolto per sempre la possibilità d'essere giovani normali:
L'età non contava più. Chi poteva dire che età avesse Fabio? E se li sentiva lui vent'anni? [...] Tutti avevano vent'anni; ma tra quegli avvenimenti erano tutti rimasti col cuore di quindici, e i pensieri e i sogni e le nostalgie dell'adolescenza, quando non si è come tutti e lo si vorrebbe essere. E tuttavia senza illusioni.
C. Alvaro, Vent'anni
E il romanzo termina con una notazione malinconica sul ruolo che attende coloro che sopravviveranno alla guerra, sorta di esseri alieni, il cui regno è nei cieli e non sulla terra (come veniva detto in un passo, poi epurato, della prima stesura del romanzo, qui sotto inserito tra parentesi quadre), evidenziando il dramma di un'intera generazione di giovani destinati a rappresentare un corpo estraneo nel mondo ordinato cui verranno riconsegnati:
«Che ci resterà da fare domani, se torniamo nel mondo? Temo che tutto ci parrà un gioco inutile. Bisognerà assumersi grandi responsabilità, altrimenti tutto ci parrà ozioso e misero. Immagineremo il mondo più grande, più bello, più nobile, più avventuroso, e ci cacceremo in tutte le imprese più disperate, in tutte le cause sballate. Credo che verremo fuori più chimerici che mai, e il mondo sarà ben felice se potrà togliercisi di dosso. Se accettasse noialtri, si dovrebbe reggere su un ordine impossibile e inumano. Il nostro regno non verrà mai [perché è nei cieli, e non sulla terra]. È necessario che noi siamo esistiti, siano esistiti tutti quelli duri a soffrire e a morire, perché il mondo inorgoglisca d'essere stato capace di tanto. Eppure, se vivremo, ci sarà ben altro».
C. Alvaro, Vent'anni


Dario Malini


1 commento:

  1. complimenti sig. Malini, da anni stiamo sviluppando questo tema, Paolo Gaspari

    RispondiElimina