Benito Mussolini, "Il mio diario di guerra (1915-1917)"

Benito Mussolini
Il mio diario di guerra
1915-1917
Il 24 maggio 1915 l'Italia dichiarò guerra all'Impero austro-ungarico. Si era giunti al termine di un percorso intricato e confuso fatto di trame segrete, della potente spinta propagandistica dei media, di pressioni d'ogni genere esercitate su un governo e su un Parlamento fermo a lungo su posizioni neutraliste. Macchinazioni che avevano coinvolto anzitutto la classe intellettuale, in prevalenza interventista, mentre la voce dell'opposizione alla guerra, certamente maggioritaria ma incapace di forme organizzate, non aveva avuto modo di farsi sentire ed essere determinante in un paese composto in gran parte da contadini e operai. Il Popolo d'Italia, giornale fondato e diretto da Benito Mussolini, era stato uno degli attori di questo percorso, sebbene non il protagonista, come venne poi sostenuto dalla storiografia fascista, poiché «a orientare l'opinione pubblica borghese verso l'intervento avevano contribuito certo di più altri quotidiani come il Corriere della sera» (Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario). 
In ogni caso, incamerata l'entrata in guerra, Mussolini attese con trepidazione di partire per il fronte, cosa che avvenne infine nel settembre 1915. Dal dicembre di quell'anno sino al 13 febbraio 1917, pubblicò su Il Popolo d'Italia quindici corrispondenze che raccontarono in tempo reale agli italiani (esempio primigenio di "guerra in diretta") la vita di un soldato della Grande Guerra. Riuniti in volume, compongono Il mio diario di guerra (1915-1917) che può essere considerato uno dei primi (se non il primo) diari di guerra pubblicato in Italia.

Ma veniamo al libro. Abbandonati i proclami, le asserzioni recise, la violenza verbale, gli slogan, che avevano caratterizzato la campagna dell'Avanti! per la neutralità assoluta, come quella, antitetica, de Il Popolo d'Italia per l'intervento,  la scrittura di Mussolini "semplice soldato dell'esercito italiano" si fa programmaticamente dimessa, piana, priva di ogni ampollosità e"cianfrusaglia retorica".

In queste paginette di Mussolini non c'è merletto di frase, non c'è lenocinio di immagine; son pagine di vita vissuta che danno l'idea di ciò che è l'esistenza in trincea, in tutte le trincee, che tutte s'assomigliano, della guerra mondiale.
Dalla Presentazione de Il mio diario di guerra

Dunque, il racconto della "nuda verità". Un approccio solo apparentemente schietto e genuino, la cui artificiosità, il cui sotterraneo progetto (un progetto che, lo anticipiamo, non reggerà completamente alla realtà del fronte) può sfuggire anche a lettori avveduti quali, ad esempio, Pierre Milza che, nella sua biografia del Duce, dedica questa riflessione al Diario di Mussolini:

Quale immagine si faceva del dramma nel quale il suo paese era stato gettato, l'uomo che tanto aveva fatto perché entrasse in guerra? A leggere il suo diario, per altro destinato alla pubblicazione e di conseguenza passato al vaglio della censura, vi si trovano pochi voli trionfalistici, e ancor meno apologie della carneficina. [...] La guerra che descrive e i combattenti che mette in scena non appartengono all'iconografia militarista.
Pierre Milza, Mussolini

Torneremo su questo punto al termine di questo intervento. Ora apriamo direttamente il Diario. A titolo di cronaca si sappia che Mussolini trascorse l'autunno-inverno del 1915 nella zona dell'Alto Isonzo, mentre fu stanziato in Carnia nella seconda parte della sua esperienza al fronte. Ecco le note relative al 16 settembre 1915:

Mattinata fredda. Sull'Isonzo è un velo di nebbia. La notizia del mio arrivo a Caporetto si è diffusa. Discorsi e impressioni. Due soldati d'artiglieria. Accidenti! A sentirli, il nostro esercito è quasi interamente distrutto; l'Inghilterra dorme; la Francia è spezzata; la Russia finita.
Discorsi odiosi e imbecilli che io ho sentito ripetere tante volte. I due compari - che non sono mai stati al fuoco - la piantano in tempo giusto per evitare una energica scazzottatura. Ma ecco tre bolognesi. Il loro morale è infinitamente migliore. 
Durante la distribuzione del rancio, un capitano medico mi cerca tra le file.
- Voglio stringere la mano al direttore del Popolo d'Italia.
Pomeriggio di chiacchiere. Episodi di guerra. Esaltazione unanime degli alpini. L'Isonzo! Non ho mai visto acque più ceree di quelle dell'Isonzo. Strano! Mi sono chinato sull'acqua fredda e ne ho bevuto un sorso con devozione. Fiume sacro!

Cronaca solo apparentemente realistica, descrive invece una situazione del tutto idealizzata, fatta di caldi momenti di cameratismo tra soldati, dell'esaltazione dell'arma degli alpini, della mitizzazione dell'Isonzo, della contrapposizione ostentata tra i veri soldati e i bruti disfattisti. 
Proseguiamo. Qualche giorno dopo, il 18 settembre, ecco la descrizione di un piccolo cimitero di guerra:

Prima di giungere alla meta, passiamo accanto a fosse di soldati italiani. Quattro o cinque. Mi sono chinato su una rozza croce di legno e ho letto:
Oscar De Lucia, sergente
morto il 13 settembre 1915.
Le altre croci non recano nomi. Sono fosse collettive.
Poveri morti, sepolti in queste impervie e solitarie giogaie! Io porto nel mio cuore la vostra memoria!

È abbastanza evidente come gli accenti commossi, in gran parte sinceri, siano inestricabilmente avviluppati a una suadente retorica della memoria che voleva incidersi indelebilmente negli animi dei lettori. 
Dalla lunga nota del giorno successivo, 19 settembre, riportiamo queste righe assai significative:

Tramonto. Il caporale Claudio Tommei - romano - mi offre un passamontagna e un numero di Rugantino. Grazie. Quando, in Italia, si parlava di trincee, il pensiero correva a quelle inglesi, scavate nelle pianure basse di Fiandra e munite di tutto il comfort, non escluso - si dice - il termosifone. Ma le nostre, qui, a 2000 metri sul livello del mare, sono ben diverse. Si tratta di buche scavate fra le rocce, di ripari esposti alle intemperie.
Tutto provvisorio e fragile. È veramente una guerra di giganti quella che i soldati d’Italia - fortissimi - combattono.
Non dobbiamo espugnare delle fortezze, dobbiamo espugnare delle montagne. Qui, il macigno è un'arma micidiale quanto il cannone!
Il vento della sera porta in alto il freddo e il fetore dei cadaveri dimenticati.
Notte chiara, di stelle.

Un brano magistrale, esempio di ottimo giornalismo ma anche di fine artificio, che adorna d’ogni virtù, con innegabile forza evocativa, i valorosi soldati d’Italia. Ancora una volta, a guidare lo sguardo di Benito non è il desiderio di raccontare la "nuda verità", ma d'infarcire il lettore con una buona dose di retorica di guerra. 
Atteggiamento (preciso programma, verrebbe da dire) che viene ribadito, almeno per una buona metà del diario, in ogni pagina, in ogni riga. Ad esempio, il 29 settembre, Mussolini scrive:

Due giorni e due notti di pioggia. Tempesta.
Veniva dal Monte Nero. Sono, siamo fradici sino alle ossa. I bersaglieri preferiscono il fuoco all'acqua. Fuoco di piombo, si capisce. Ma stamani, sole. Il Rombon ci appare chiaro di neve. Il sole tiepido fa dimenticare le giornate piovose. Lo Slatenik - ingrossato - urla in fondo al vallone. Si distribuisce la posta. Finalmente, dopo quindici giorni, c'è qualche cosa anche per me. Nel trincerone che occupiamo si può accendere il fuoco. Ogni tenda ha il suo. Qui l'unico pericolo - oltre a quello delle cannonate e delle pallottole vaganti - è dato dai macigni che rotolano dall'Vrsig. Di quando in quando si sente gridare:
- Sasso! Sasso!
L'11° bersaglieri è stato rudemente provato, ma il «morale» dei soldati è eccellente. Anche i poilus dell'84 stanno cambiando psicologia. Diventano soldati. Sembrano lontanissimi i primi giorni, quando bastava il rombo del cannone, il fischio di una pallottola o la vita di qualche cadavere per emozionarli. Distribuzione di alcuni indumenti invernali. Sono ottimi.

Guerra da cartolina? Non solo, ne siamo consapevoli. Una narrazione però che nasce dalla volontà precipua di propagandare precisi valori nazionalistici e patriottici, valori che confluiranno immutati nell'immaginario fascista.
E di tanto in tanto, Mussolini calca davvero la mano, finendo per raccontare una guerra oleografica, artefatta e, in sostanza, del tutto immaginaria, come nella stucchevole nota del 10 ottobre:

Ho sentito una ventata violenta, seguìta da un grandinare di schegge. Esco. Qualcuno rantola. Si grida:

- Portaferiti! Portaferiti!
Sotto al mio ricovero ci sono due feriti che sembrano gravissimi. Un grosso macigno è letteralmente innaffiato di sangue. Gli ufficiali sono in piedi che impartiscono ordini.
- Le barelle! Le barelle!
[...] 
- Tenente, mi abbracci! - ha detto Janarelli - per me è finita!
Vedo il tenente Morrigoni, cogli occhi luccicanti di lacrime.
- Era tanto bravo e tanto buono!
Lo Janarelli sembra dormire. Solo attorno alla bocca c'è una grossa rosa di sangue.

O come nelle righe che concludono la giornata del 16 ottobre:


Qui nessuno dice: «Torno al mio paese!». Si dice: «Tornare in Italia». L'Italia appare così, forse per la prima volta, nella coscienza di tanti suoi figli, come una realtà una e vivente, come la Patria comune, insomma.


Via via che passavano i giorni e i mesi, le cronache dalla guerra inviate a Il Popolo d'Italia dal suo direttore mutano sottilmente di tono, si fanno via via più accorate, dirette, sconsolate. Il diario si riempie sovente di spicce descrizioni di trincee scomode, sepolte dalla neve, di racconti di veglie e marce in un ambiente rigido e malinconico il cui indistinto biancore pare annullare la possibilità stessa di fare propaganda. 

La dura esperienza della guerra, l'assenza di grandi eventi, l'inutilità della vita quotidiana del soldato smuovono qualcosa nell'animo dello scrivente. Ecco un brano del 2 novembre:

Dopo due mesi comincio a conoscere i miei commilitoni e posso esprimere un giudizio su di loro. Conoscere è forse troppo dire. Le mie conoscenze solo limitate al mio plotone e - un poco - alla mia compagnia. La trincea nell'alta montagna costringe ogni soldato a vivere da solo o con qualche compagno, nella propria tana. Cerco di scrutare la coscienza di questi uomini, fra i quali, per le vicende guerresche, io debbo vivere e, chissà?... morire.

Il loro «morale». Amano la guerra, questi uomini? No. La detestano? Neppure. L'accettano come un dovere che non si discute. Il gruppo degli abruzzesi, che ha per «capo» o «comparo» il mio amico Petrella, canta spesso una canzone che dice:
E la guerra s'ha da fa,
Perché il Re accussì vuol.

Ed ecco che di tanto in tanto Benito Mussolini smette la maschera che si era imposto e inavvertitamente lascia trapelare qua e là qualcosa di differente. Talvolta trova pagine di assoluta e imprevedibile sincerità, come in questa sorprendente paginetta del Natale 1916 nel quale il racconto della sua fanciullezza è assolutamente vivido e, forse, anche poco lusinghiero, ma, per una volta, 
assolutamente rispondette al programma della "nuda verità":

Come ieri, come sempre, da un mese a questa parte, piove. Oggi è Natale. Proprio Natale. 25 Dicembre. Terzo Natale in guerra. La data non mi dice niente. Ho ricevuto delle cartoline illustrate coi soliti fanciulli e gli inevitabili alberelli. Perché io riprovi un'eco della poesia di questo ritorno, debbo rievocare la mia fanciullezza lontana. Oggi il cuore s'è inaridito come queste doline rocciose. Venticinque anni fa io ero un bambino puntiglioso e violento. Alcuni dei miei coetanei recano ancora nella testa i segni delle mie sassate. Nomade d'istinto, io me ne andavo dal mattino alla sera, lungo il fiume, e rubavo nidi e frutti. Andavo a Messa. Il Natale in quei tempi è ancor vivo nella mia memoria. Ben pochi erano quelli che non andavano alla Messa di Natale. Mio padre e qualcun altro. Gli alberi e le siepi di biancospino lungo la strada che conduce a San Cassiano erano irrigiditi e inargentati dalla galaverna. Faceva freddo. Le prime messe erano per le vecchie mattiniere. Quando le vedevamo spuntare al di là della Piana, era il nostro turno. Ricordo: io seguivo mia madre. Nella chiesa c'erano tante luci e in mezzo all'altare - in una piccola culla fiorita - il Bambino nato nella notte. Tutto ciò era pittoresco ed appagava la mia fantasia. Solo l'odore dell'incenso mi provocava un turbamento che qualche volta mi dava istanti di malessere insopportabile. Finalmente una suonata dell'organo chiudeva la cerimonia. La folla sciamava. Lungo la strada, un chiacchierio soddisfatto. A mezzogiorno fumavano sulla tavola i tradizionali e ghiotti cappelletti di Romagna. Quanti anni o quanti secoli sono passati da allora? Un colpo di cannone mi richiama alla realtà. È Natale di guerra.

Nella trincea è un silenzio pieno di segrete nostalgie. Natale magro. Dei doni mandati dal Comitato, alla mia compagnia sono toccati mezza dozzina di panettoni e altrettante bottiglie... Il  rancio poi è stato specialissimo: baccalà in umido con patate. Figurarsi!

Il diario è giunto ormai alle ultime pagine: il 23 febbraio 1917, nel corso di un attività di tiro con un lanciabombe da trincea, un proiettile esplose all'interno del cannone investendo Mussolini e compagni con una raffica di schegge. Ricoverato prima nell'ospedaletto da campo e poi a Milano, Mussolini venne congedato definitivamente.

Ciò conclude il diario di guerra del soldato semplice (poi caporale) Benito Mussolini, crogiolo irrisolto di pensieri, pulsioni, grandezze e miserie. Un testo sottilmente teso ad edificare una solida e convincente iconografia militarista; testo tuttavia non granitico che fa trasparire qua e là assai più di ciò che l'autore avrebbe desiderato, della guerra e di sé. 
Libro, in definitiva, ambiguo, spesso irritante ma non privo di momenti alti, Il mio diario di guerra di Benito Mussolini è uno scritto che non può essere ignorato.


Dario Malini

Qui trovate l'articolo: Breve biografia del giovane Benito Mussolini

Nessun commento:

Posta un commento