Inedito di un soldato ebreo tedesco sul fronte russo (luglio 1915)

Dispersi nella monotona e immutabile pianura polacca, marciamo una volta ancora lungo strade strette, segnate dai solchi dei carri. Tutto qui sembra essere desolatamente inconsistente; e solo il fango, in cui uomini e cavalli s’impantanano di continuo, possiede un’indiscutibile realtà materiale. In ogni caso, il percorso è breve: dopo una passeggiata di circa 5 ore arriviamo all’accampamento di Czarzaste [nota 1], non distante dalle linee nemiche. È il 2 luglio 1915.
A Czarzaste, accantonati in mezzo a un bosco, trascorriamo alcuni giorni assolutamente tranquilli, allietati dal tepore del sole e dalle sporadiche visite di floride contadinelle che ci vendono sapone, salsa di cetrioli e qualche verdura; non rifiutandoci neppure altre voluttuose mercanzie non meno necessarie. Nei campi, le spighe di grano sopravvissute ai bombardamenti maturano con straordinaria rapidità, mentre i papaveri dipingono incantevoli macchie rosse qua e là.
L’attività più consistente cui ci destinano è scavare trincee in prima linea, ai confini del bosco presso Czarzaste. Faccio parte di un gruppo scelto di soldati, in maggioranza ebrei, che, non andando a genio al capitano, lavorano immancabilmente delle posizioni più esposte ai tiri nemici: in esso è incluso pure il tedeschissimo Hermann, per la sua incapacità di tenere a freno la lingua con i superiori.
Tra una palata e l’altra, ci ricreiamo dando la caccia ai ratti. Siamo infatti presi d’assalto da intere colonie di questi repellenti animali che ormai scorrazzano da padroni per le nostre trincee. Sono schifosamente grassi, lunghi 40 cm o più, hanno una coda priva di peli, orecchie piccole e occhietti tondi e gonfi di arroganza.

Ci spostiamo sovente tra Czarzaste e il bivacco di Kaki-Mroczki [nota 2]. Trascorro gran parte dei mie momenti di riposo leggendo. Altrimenti me ne vado a passeggio con Hermann. Andiamo sufficientemente d’accordo poiché alla sua favella generosa si contrappongono i miei lunghi silenzi. Nostra meta preferenziale sono le baracche dei prigionieri: un’accozzaglia di soldati provenienti da ogni luogo della Russia. I nostri sono dialoghi ben miseri, vista la difficoltà d’intenderci, in cui però non può evitare d’insinuarsi una certa simpatia, almeno finché non viene affrontato l’argomento delle molte sconfitte russe, che loro si guardano bene dall’imputare alla corruzione del governo o alla scarsità delle armi, scegliendo invece un più agevole capro espiatorio. A tale proposito, un prigioniero alto ed emaciato, avvolto in uno sdrucito cappotto di pelle scamosciata tenuto chiuso da un pezzo di spago, ci traduce a voce alta, in un irritante tedesco cantilenato, un trafiletto di un numero recente del Volga [nota 3], che conserva nel portafoglio assieme alle foto di moglie e figli:

‘Popolo russo, guarda e riconosci il tuo vero nemico: l’ebreo! Nessuna indulgenza nei confronti di questo popolo maledetto da Dio, che fu odiato e disprezzato da tutti, generazione dopo generazione. Il sangue dei figli della Santa Russia, che gli ebrei tradiscono ogni giorno, grida vendetta!’.

Il 10 luglio, forniti dell’apposito secchio, ancora scaviamo, a una distanza di meno di 300 metri dalle trincee avversarie. L’11, dopo un lungo periodo di stasi, i russi tornano a farsi vivi: tutto si risolve in un inaspettato sparare reciproco, che ci causa una perdita. Il 12 viene annunciato che l’indomani dovremo attaccare. Sembra una cosa seria perché durante tutto il giorno riceviamo le visite di un gran numero di pezzi grossi. Noi, intimiditi, cerchiamo di darci un tono e anche di sorridere, ma il momento non è certo dei migliori: siamo tutti spossati e snervati dal prolungato periodo di guerra. Inoltre non dormiamo da almeno 20 ore.
Fin dalle primissime ore del 13 luglio, immersi in una nebbia spessa e maleodorante, siamo al lavoro per i preparativi della battaglia. Per precauzione, in prospettiva di un’eventuale ritirata, viene caricato molto materiale sui carri. Quando la nebbia si dirada, la nostra artiglieria si produce in un fuoco infernale e prolungato che stordisce anche noi [nota 4]. Poco dopo, alle 8:42, viene ordinato l’attacco. L’azione pare a tutti affrettata e un gruppo di fanti si rifiuta d’uscire. Assisto allora da lontano a quella che parrebbe una giocosa pantomima: ecco l’accorrere del capitano tra i suoi uomini, il suo nevrastenico agitarsi, il grottesco sobbalzo con cui tutt’a un tratto estrae una pistola. Poi sento come l’eco di un colpo sordo, che precede di tanto il crollare a terra di un soldato da indurmi per un momento a credere che tra i due eventi, il colpo e la caduta, non possa esistere alcuna correlazione. Solo a quel punto quei fanti si decidono a muoversi. La maggior parte di noi, fatta ormai propria l’arrendevolezza del soldato, s’avventura fuori invece senza bisogno d’incoraggiamenti. Avanzare non è agevole a causa delle fortificazioni erette dai russi, solo parzialmente intaccate dai nostri obici. Le linee di difesa nemiche sono costruite su più livelli, ognuna autosufficiente, riparata da un’infinità di sacchi di sabbia ammassati dietro a spesse barriere di tronchi d'albero e protette da metri e metri di reticolati. Un numero esorbitante di soldati tedeschi trova un’inutile morte rimanendovi impigliati e quindi fulminato dalle mitragliatrici. Dopo un po’, mentre noi ci ripariamo in un avvallamento del terreno, i nostri artiglieri riprendono a far fuoco con le batterie da 15 e 21 cm, riuscendo infine ad aprirci una via verso il primo settore di trincee avversarie. Quando vi penetriamo, siamo accolti da una gruppo di russi che ci vengono incontro con le mani alzate, gridando l’unica parola tedesca che tutti conoscono: «Kameraden! Kameraden!» Ecco l’eroismo con cui facciamo i primi prigionieri.
L’attacco prosegue sino a tarda sera. Alle 11:30 stiamo ancora cercando di sistemare a nostro uso le trincee nemiche, piene zeppe di corpi dei precedenti inquilini, rimasti sepolti da frane e crolli. Viene fatto l’appello: il nostro battaglione conta 16 morti e 55 feriti, molti dei quali in modo grave.
Quando inizia a piovere, per qualche istante, s’interrompono i sordi botti dei cannoni. Quindi, come per incanto, l’odore disgustoso della battaglia viene come spazzato via, sostituito da un gradevole profumo d’erba bagnata. Allora chiudo gli occhi, e mi pare d’essere nuovamente un semplice civile nel corso di una gita in campagna, in una notte di un pacifico martedì d’estate. Riprendono gli scoppi e l’illusione si dissolve in un momento.
Ci viene portato il rancio e del caffè una volta tanto di ottima qualità. Comodamente sdraiato davanti a me, un soldato russo mi osserva con uno sguardo beffardo: fatico a non badarci perché, come spesso accade ai morti recenti, tutto in lui sembra possedere ancora la scintilla della vita. Per ripicca mi ci avvicino e mi approprio del cucchiaino da caffè che gli spunta da un taschino, del cannocchiale che porta a tracolla, del rasoio e del portasigarette argentato che ha in tasca.
Continuiamo per un po’ a scavare, alla luce discontinua dei razzi e dei riflettori, dopodiché possiamo finalmente andarcene a riposare nel nostro campo nel bosco.
Dormo malissimo, infastidito, ancor più che dagli scoppi, da incubi spaventosi, sebbene non spaventosi come il mondo in cui mi risveglio la mattina successiva. È il 14 luglio e la battaglia continua. Chi non vi ha partecipato il giorno innanzi è ora gettato in prima linea a sparare o a recuperare i corpi dei nostri caduti. Noi ce ne andiamo invece verso sud, a scavare trincee presso Karwacz [nota 5], piacevolmente distante, circa 17 km, dalle posizioni in cui infuriano i combattimenti. Intanto ci è arrivata una notizia cui nessuno dà soverchia importanza, ma che a me pare quasi inconcepibile: Przasnysz è caduta! Verso sera riesco a trovare il modo di raggiungere la città, peraltro abbastanza vicina: assieme a Hermann, che non si fa pregare d’accompagnarmi, salgo semplicemente su un carro diretto da quella parte, senza pensare alle possibili conseguenze. Poco prima d’arrivare, saltiamo giù. A piedi, con calcolata lentezza, ci avviciniamo a Przasnysz, da cui si levano alte fiamme. A parte la gran chiacchiera di Hermann, la pianura è sprofondata nel più indecifrabile silenzio. Entro in città non senza qualche titubanza. Dentro scorrazziamo a lungo per strade bianche ingombre di cavalli morti, di corpi riversi a terra nelle pose più grottesche, di automobili e carri ribaltati. Non ci sono che macerie, vetri infranti, filo spinato, case ridotte in cenere. Delle belle chiese e sinagoghe che sorgevano qui, non rimane in piedi pressoché nulla. Ogni tanto incrociamo dei gruppetti di soldati dal caratteristico emetto a chiodo, che camminano svelti. Mentre il mio amico si prodiga nello sfasciare a calci quel poco che ancora non è a pezzi, io osservo tutto senza alcuna partecipazione, disilluso dalla desolante visione che mi si offre della fortezza di Przasnysz le cui meraviglie ossessionavano Franz. Quando ci decidiamo a rientrare, non c’è modo di trovare un passaggio e dobbiamo dunque affidarci ai nostri poveri piedi. Marciamo per non meno di due ore in un paesaggio profondamente segnato. Arrivati a Karwacz, scivoliamo inavvertiti tra i compagni che, inespressivi e arrendevoli come burattini mossi da fili invisibili, ancora scavano e scavano e scavano.


[1] Kobylaki-Czarzaste è un villaggio posto circa 16 km a nord-est di Przasnysz.
[2] Kaki-Mroczki, anch’esso un minuscolo villaggio, si trova circa 13 chilometri a nord di Przasnysz, 6 km a ovest di Kobylaki-Czarzaste.
[3] Giornale russo (titolo originale: Волга) che prende il nome dal celebre fiume.
[4] Comincia la Seconda Battaglia di Przasnysz in cui si contrapposero 6 corpi tedeschi, per un totale di 177.000 soldati, e quattro corpi russi, 106.950 soldati. L'esercito tedesco, comandato dal generale Max von Gallwitz, attaccò il 13 luglio 1915. Diversamente dalla battaglia di febbraio, la città Przasnysz non fu il teatro principale delle operazioni, poiché l’attacco questa volta venne portato sui due fianchi dello schieramento russo invece che frontalmente. I combattimenti furono decisi anzitutto dalla soverchiante potenza dell’artiglieria tedesca. Entrambe le parti in conflitto persero migliaia di soldati: circa 20.000 i tedeschi e 40.000 i russi. Il 14 luglio notte, avendo subito forti perdite (in alcuni reggimenti addirittura il 70%), le truppe russe retrocedettero dalla zona di Przasnysz verso la linea del fiume Narew, ultimo rifugio nel saliente di Varsavia, incalzato dai tedeschi.
[5] Karwacz è un ex comune rurale situato 6 km a est di Przasnysz. Nel 1954 il comune è stato soppresso e inglobato nel territorio di Przasnysz.

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