Vogliamo iniziare con Henri Barbusse, a nostro parere il massimo cantore delle trincee come luoghi fetidi ove la vita si trascina inutilmente e la morte pare attendere il fante ad ogni momento. Il brano riportato è esemplificativo della grande perizia letteraria del francese: una sorta di maestosa carrellata cinematografica che, dal paesaggio vasto con cui inizia la sua descrizione, arriva a stringere sin sui volti irsuti dei poveri poilus.
La terra! Un vasto deserto sommerso d’acqua incomincia a prendere forma sotto la dilatata desolazione dell’alba. Pozze e acquitrini con l’acqua gelata dall’intenso alito del freddo mattutino; piste tracciate in questi campi sterili dalle truppe e dai convogli notturni, e solchi che in questa fioca luce brillano come binari d’acciaio; ammassi di fango dai quali spuntano paletti rotti, cavetti a “x” divelti, e cespugli avviluppati di filo spinato. Con quel letto di limo e le pozze, la piana sembra un’infinita tela grigia che fluttua sul mare, a tratti sommersa. Anche se non piove, tutto è zuppo, madido, slavato e affondato, e persino la luce livida sembra colare. Adesso si riesce a distinguere la rete di lunghi canali dove permane un lembo di notte. Sono le trincee. Sul fondo hanno un tappeto di limo, sopra il quale ogni passo produce uno schiocco adesivo, e ogni anfratto ha l’odore di piscio notturno: se passando ci si sofferma, se ne sente il fetore.
Da quelle tane laterali vedo uscire e muoversi delle ombre, grandi e informi, simili a orsi, che si trascinano nel fango e grugniscono. Quelli siamo noi (da Il fuoco di Henri Barbusse).
Le trincee di Jünger sono luoghi lugubri ma non privi di una qualche attrattiva. Nelle vicende, anche nelle più terribili, raccontate dallo scrittore tedesco, sembra sempre esistere la possibilità di una rivincita per il soldato, sia pure quella di una battuta umoristica.
L'alba si levava su forme stanche, coperte di argilla che si gettavano bocconi, pallide in volto, sulla paglia dei ricoveri, fradici d'umidità.
Ah, quei ricoveri! Erano nient'altro che buche scavate nel calcare, con un'apertura nella parete della trincea, coperte con assi e qualche palata di terra. Dopo la pioggia l'acqua vi gocciolava dentro per giorni e giorni; con umorismo di dubbio gusto qualcuno vi aveva apposto delle scritte di questo tenore: «Caverna delle stalattiti», «Docce per uomini» e simili. Per riposare contemporaneamente in più persone si era costretti ad allungare le gambe nella trincea creando così una trappola inevitabile per coloro che vi passavano (da: Tempeste d'acciaio di Ernst Jünger).
Nella prosa di Remarque, le trincee sono invece una immagine di morte, velata appena dal caldo e malinconico cameratismo che unisce gli uomini.
Le giornate sono calde, e i morti giacciono insepolti. Non possiamo raccoglierli tutti, non sapremmo che cosa farne. Ci pensano le granate a sotterrarli. Alcuni hanno la pancia gonfia come palloni: gorgogliano, ruttano e si muovono: è il gas di cui sono pieni.
Il cielo è azzurro, senza nubi. La sera è afosa, e la caldura sale su dalla terra. Quando il vento soffia dalla nostra parte, porta l'odore del sangue, greve, dolciastro, nauseabondo: questo miasma di morte delle trincee che pare misto di cloroformio e di putredine e ci è causa di malessere e di vomiti.
Le notti sono ora più calme, e comincia la caccia agli anelli di rame delle granate ed ai serici paracadute dei razzi francesi. Perché questi anelli siano poi tanto ricercati nessuno sa bene. I raccoglitori sostengono semplicemente che sono preziosi: e vi son certuni che ne caricano in tale quantità da camminare curvi sotto il loro peso, quando vanno a riposo (da: Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque).
Lussu non descrive quasi mai le trincee con precisione. Nel suo raccontare, esse non sono che il palcoscenico indistinto della follia della guerra e degli uomini.
Poi un portaordini mandò a chiamare Santini.
Ora, la luce dell'alba si era fatta più viva e noi potevamo distinguere tutto l'andamento delle trincee nemiche.
Non ci voleva molto per capire che si mandava Santini a morire inutilmente.
Io azzardai ancora un'obbiezione: Ora c'è molta più luce, dissi. Inoltre, Santini è uscito, anche stanotte, con i tubi.
Non si potrebbe rinviare all'alba di domani? Il mio capitano non osò dire una parola.
Il tenente colonnello mi rivolse uno sguardo ostile e mi disse: Si metta sull'attenti e faccia silenzio!
Il tenente Santini arrivò seguito dal suo portaordini. [...]
Il tenente colonnello guardò Santini: Lei non si offre volontario?
Signor no.
Ebbene, io le ordino, dico le ordino, di uscire egualmente, e subito.
Il tenente colonnello parlava calmo, la sua voce aveva l'espressione d'una preghiera gentile, quasi supplichevole. Ma il suo sguardo era duro.
Signor sì, rispose Santini.Se lei mi dà un ordine, io non posso che eseguirlo.
Ma un ordine simile non si può eseguire, dissi io al capitano, con la speranza che intervenisse.
Ma egli rimase muto.
Prenda le pinze, ordinò il tenente colonnello, con la voce dolce e gli occhi freddi.
Il tenente aiutante maggiore s'avvicinò con le pinze.
Mi passò vicino.
Io non potei frenarmi e gli gridai: Potresti uscire tu, con coteste tue pinze della malora.
Il tenente colonnello mi sentì, ma rispose a Santini: Esca dunque, tenente ordinò.
Signor sì, disse Santini.
Santini prese le pinze.
Si slacciò dal cinturone un pugnale viennese dal corno di cervo, trofeo di guerra, e me l'offerse.
Tienilo per mio ricordo, mi disse.
Era pallido (Da Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu).
Le trincee del pittore-soldato italiano Walter Giorelli sono un luogo metafisico in cui il fante smarrisce la propria anima e diviene parte integrante del paesaggio guerresco.
Dopo un lungo seguito di turni notturni, ho ripreso a lavorare di giorno. E la luce mi mostra, pur nei luoghi consueti, un paesaggio del tutto nuovo che, sradicandomi dagli occhi la patina dell’assuefazione, mi fa riavvertire gli echi lontani del mio primo, triste periodo di guerra.
Mi aggiro tra massi immensi che, sovrapposti, modellano i muri a secco formanti la scarpata laterale dei camminamenti più profondi. Il cielo è grigio, l’aria ferma, il nemico calmo, tranne che per i cecchini, i quali freddano con commovente costanza chiunque abbia la malaugurata idea di alzare troppo la zucca. I blocchi di pietra hanno riflessi metallici. Li guardo, immobile, e mi sembra d’essere anch’io un sasso tra i sassi (Da: Il sorriso dell’obice di Dario Malini).
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