Film inglesi sulla Grande Guerra degli anni Sessanta

La nostra rassegna dei film inglesi dedicati alla Grande Guerra negli anni Sessanta, comincia con il kolossal, vincitore di sette premi Oscar, Lawrence of Arabia (Lawrence d’Arabia) diretto da David Lean. Uscito nel 1962, il film mette in primo piano un fronte particolare come quello del Medio Oriente, seguendo la vicenda del giovane tenente T.E. Lawrence, cartiere e corrispondente del Quartier Generale Britannico al Cairo, inviato tra le tribù arabe in rivolta contro il governo turco con il compito preciso di rinfocolare i disordini per trovare alleati e aiutare le sorti della guerra. Dopo un’azione audacissima e la presa della piazzaforte di Aqaba, l’ufficiale, che ha via via assunto la mentalità e i costumi locali, assurge al ruolo di guida carismatica degli arabi, al punto da porsi l'obiettivo di emancipare questo popolo contro gli stessi interessi dell'Inghilterra. Ma le sue imprese, avendogli creato attorno un’aura quasi mitica di invincibilità, lo condizionano psicologicamente, divenendo fardello assai ingombrante anche per il suo governo. Lawrence viene così messo in disparte, ma gli arabi, ormai coscienti della loro appartenenza nazionale, dopo la guerra, potranno dar vita a uno stato unitario. La vita e le avventure in Medio Oriente del protagonista della pellicola sono raccontate in flashback a partire dalla fine della sua vicenda, un incidente mortale in moto. Il film, che rappresenta uno dei più monumentali kolossal della storia del cinema, è realizzato con larghezza di mezzi e con spirito avventuroso, riuscendo a restituire il respiro e il fascino del deserto attraverso riprese in esterni di grande suggestione (nota 1).

King and Country (Per il re e per la patria) di Joseph Losey, del 1964, narra la storia del giovane soldato britannico Hamp, processato per diserzione nel 1917. Il soldato era stato arrestato per essere fuggito dalla prima linea, in preda allo shock da combattimento, dopo aver partecipato ad un'azione che aveva visto morire tutti i suoi compagni. Viene difeso dal capitano Hargreaves che, nonostante il grande impegno, non riesce a sottrarlo al plotone d’esecuzione, e che alla fine sarà costretto a dargli il colpo di grazia. Si tratta di una delle prime pellicole che trattano il tema scottante della diserzione dei giovani soldati al fronte, considerata da molti critici, assieme a Orizzonti di gloria, uno dei capolavori del cinema antimilitarista del dopoguerra. Qui, come nel film kubrickiano, la Prima guerra mondiale diviene metafora socio-politica di valore universale, senza tuttavia cadere mai nella genericità, mantenendo cioè la specificità di quell'evento, rappresentato con attenzione alla realtà storica (per esempio mostrando materiale fotografico coevo, oppure ricostruendo con esattezza le ambientazioni e le inquadrature di quegli anni). Centrale è inoltre il tema dell’incomunicabilità tra soldati e ufficiali, due mondi mostrati come distanti e quasi senza possibilità di reale interazione umana. Un'argomentazione che viene resa sovente con espedienti prettamente linguistici; si noti a tale proposito quanto l’accento colto degli ufficiali contrasti violentemente con la parlata cockney di alcuni tra i militari di truppa. Il film, dunque, non si limita a parlarci degli “orrori” della guerra, ma vuole analizzare come le “regole” insite in quel conflitto (ma forse anche in qualsiasi conflitto) possano indurre gli uomini a commettere azioni contrarie alla loro coscienza, attraverso una violenta sopraffazione psicologica cui non sfugge nessuno. Soldati e ufficiali sono fatti oggetto di un medesimo «plagio» in nome «del re e della patria», sono presi nella stessa «trappola». I due protagonisti finiscono così con il piegarsi alla logica disumana di un «principio superiore» che nel profondo avversano. Con la fucilazione «esemplare» del soldato anche il capitano perde in qualche modo la sua anima. La sopraffazione del singolo è in ogni caso totale, a vincere è inevitabilmente la ragione di stato, guidata dalla fredda logica del codice militare. Alla scena di apertura della pellicola - la visione del monumento ai caduti - corrisponde ironicamente il fotogramma che la chiude, «bloccato» sulla foto di un gruppo di soldati in trincea (nota 2).

Oh! What a Lovely War (Oh, che bella guerra!) di Richard Attenborough, uscito nelle sale nel 1969, è tratto da un noto spettacolo teatrale del 1963 di Joan Littlewood. Una commedia musicale antimilitarista che trasforma la Grande Guerra in un satirico baraccone con musica, ragazze sexy e scintillanti insegne. Un gigantesco segnapunti conta i morti mentre gli strateghi litigano e i soldati (giovani e meno giovani) spingono surrealistici cancelletti girevoli per entrare nelle trincee. Il finale mostra il punteggio definitivo: nove milioni. Quindi un giovane fante si addentra nel fumo, seguendo una scia rossa che attraversa campi di papaveri e parole di pace, mentre una famiglia fa un picnic sulla collina e la macchina da presa allarga il campo sino a mostrare una sterminata distesa di tombe. L'evento bellico si mostra così in tutta la sua demenziale follia, rivelandosi «semplicemente un passatempo idiota delle classi dominanti» (nota 3).





Stefano Cò


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Note

1. Lawrence d’Arabia vinse vari premi, sette Oscar (regia, film, fotografia, musica, scenografia, montaggio, suono), con altre 3 nomine, 5 Golden Globe e 3 nomination, 1 National Board of Review Annual, 4 BAFTA (i premi inglesi) e 2 David di Donatello, e la colonna sonora di Maurice Jarre divenne un celebre hit; interessante il concetto che le Rivoluzioni, in questo caso quella mediorientale, sono il prodotto di un ambigua collaborazione tra l’idealismo di una causa e il cinismo delle diplomazie e gli eroi sono individui capaci di mirabili imprese perché sospinti da nevrosi inafferrabili e il fatto che, apparso nel deserto con un alone di santità e purezza, Lawrence si trasformi in un violento assassino e portatore della razionalità e della democrazia occidentale sia travolto dalla barbarie della guerra, vedi la recensione di Mario Sesti, Mario Sebastiani nel sito FilmFilm.it; per delle interessanti riflessioni sulla narrazione del film, su alcune sottigliezze visive e sullo “sperimentalismo” sotteso alle dimensioni della superproduzione vedi la scheda di Christina Viviani nel Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. II, cit., pp. 377-379; buona sintesi del film nel castoro cinema di Mario Sesti, David Lean, La Nuova Italia, 1989.

2. Per l’interessante analisi delle differenze sociali e linguistiche di Per il re e per la patria vedi Giaime Alonge, cit., p. 170; sulle relazioni disturbate dalle differenze di classe vedi la scheda di Giuliana Muscio nel Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. II, cit., p. 445; per una interessante sintesi sul film e sulle sue tematiche come l’analisi del «sistema» e delle sue «regole», l’«utilizzo» dell’uomo, le forme della minaccia della guerra vedi Angelo Moscariello, Invito al cinema di Joseph Losey, Mursia, Milano, 1998, pp. 74-76, 1, 123, 124, 132, 137; stimolante la sintesi del film di Maurizio Porro, per i suoi riferimenti al rapporto tra individui e società, alle relazioni degli esseri umani all'interno e di fronte alla «grande macchina del Potere», alla forma della violenza che è più morale che materiale, al rapporto della coppia protagonista, all'importanza simbolica e “fisica” dell’acqua e della pioggia che continua a scendere nella trincea, alla descrizione del processo che mette in luce «l’assurdità dei precetti militari e la follia dei loro comandamenti», la concezione particolare della Storia, il «brechtismo» delle origini dell’ideologia di Losey, la concezione e rappresentazione della guerra, soprattutto della più folle e assurda, quella del 1914-18 come «macchinazione del Potere e suo orrendo riflesso», nella monografia Joseph Losey, Moizzi, Milano, 1978, pp. 46-50, 75, 79.

3. Per il musical originale di Joan Littlewood da cui il film è tratto vedi la scheda di Lorenzo Codelli nel Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. I, cit., p. 87; per una breve sintesi sul film e sul suo stile da commedia vedi Norman Kagan, I film di guerra, Milano Libri, Milano, 1982, p. 144.

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