Caporetto e le sue conseguenze (di Giancarlo Romiti)


BUONI AUSPICI
Il tedesco: - Dio è con noi...
L'italiano: -  e Diaz è con noi...!
(vignetta di Golia, apparsa sul "Numero", novembre 1917)

Sull'orlo del collasso.  Nuovi sentimenti, processi e polemiche.

“Un mondo è finito, crollato, sprofondato. Comincia un'altra epoca.”
(Dal diario del Col. Angelo Gatti).

           Francesi ed inglesi confermarono le dure critiche al generalissimo anche al convegno di Peschiera dell'8 novembre 1917,  tranquillizzandosi solo quando il re comunicò loro  che Cadorna era stato ufficialmente rimosso dall'incarico.
            Il 9 novembre 1917 prese  il via l'iter burocratico dei cambiamenti ai vertici dell'esercito italiano e, qualche giorno dopo, l'ex Capo di Stato Maggiore acconsentì, facendo buon viso a cattiva sorte, di andare a Versailles a far parte del Consiglio interalleato. “Ho accettato ad una condizione: che non mi si dica mai più che sono salito di un posto, cosa alla quale nessuno crede”. Luigi Cadorna era perfettamente consapevole che si trattava di un ruolo poco più che simbolico, un incarico del tutto formale che aveva il solo scopo di allontanarlo dagli avvenimenti bellici. E così  il 25 novembre dello stesso anno, quando l'Italia era ancora annichilita dalla catastrofe, accompagnato da alcuni tra i suoi più fidi collaboratori, Cadorna salì sul treno per Parigi.
            Intanto la maggioranza del Paese era sfiduciata e quasi tutti erano convinti che l'esercito non avrebbe tenuto nemmeno sul Piave. Invece verso Natale il nemico, esausto, privo di rifornimenti e decisamente sorpreso dalla combattività degli italiani, arrestò ogni offensiva.
            Perché gli stessi uomini che solo due mesi prima erano stati umiliati dal loro stesso comandante, in così poco tempo, avevano ritrovato morale? Molteplici i fattori che concorsero alla ripresa. Innanzitutto Diaz seppe trattare i soldati più umanamente di Cadorna. Il rancio divenne più abbondante e più curato, si ridussero i turni in trincea, aggiunti giorni di licenza, previsti esoneri per lavori agricoli e, su iniziativa di Nitti, predisposta l'assegnazione ai fanti, una volta congedati, di terre in proprietà. A questo si aggiunga la mobilitazione industriale, l'invio  da parte degli alleati di alcune divisioni, ma soprattutto l'apporto fondamentale della propaganda giornalistica di cui Cadorna non aveva mai sentito la necessità e che invece contribuì, in quel momento, a dare alla guerra un significato più concreto di quanto non fosse fino ad allora sembrato tra gli strati popolari.
Ai primi di novembre la gravità dei fatti fece sì che persino due giornali filo-giolittiani come la Stampa  e la Tribuna invitassero alla solidarietà nazionale. Ecco il commento della Tribuna il 1° novembre: “Tacciamo non solo le voci dei precedenti dissensi politici ma anche quelle di ogni recriminazione possibile. Offrire tutto se stesso alla Patria ecco il dovere di ciascuno. La Patria magari potrà cancellare dal suo ricordo chi potrà essere stato assente o dissenziente in passato, ma non potrà dimenticare mai chi sia per essere assente oggi”.
            Il fattore decisivo fu dunque essenzialmente morale e psicologico. Quando dovettero combattere sul Piave, che da allora cominciò a diventare un simbolo, gli italiani capirono che stavano difendendo il territorio nazionale, la porta di casa.
            E mentre  il linguaggio ufficiale batteva sull'orgoglio e sulla volontà di riscossa venivano gettate le basi per il processo a Cadorna. Il 28 novembre fu nominata una Commissione presieduta dal generale Carlo Caneva per la revisione dei procedimenti sommari di destituzione degli ufficiali, mentre di lì a breve, il 12 gennaio 1918, venne istituita un'altra Commissione, detta su Caporetto, con lo scopo di indagare sulle cause e le responsabilità del ripiegamento dall'Isonzo al Piave. I quattro militari, tra cui lo stesso Caneva, con  i tre politici che ne facevano parte, nell'arco di un anno e mezzo circa,  tennero 241 sedute, consultarono oltre duemila documenti e ascoltarono più di mille testimoni. La relazione mise  sotto accusa i comandi militari per l'insensata condotta della guerra, gli eccidi, e l'esasperante logoramento dei soldati. Il lavoro fu minuzioso e dettagliato ed i giudizi alquanto severi; i generali Cadorna, Capello, Porro e Cavaciocchi furono messi a riposo mentre se la cavò Badoglio. In quel momento di grave pericolo colpire il numero due dell'esercito significava mettere in discussione Diaz ed il re. Probabilmente si volle evitare una nuova grave crisi all'interno del  Comando Supremo.

            Le polemiche seguite alla pubblicazione dei risultati dell'indagine (agosto 1919) e le manifestazioni che denunciarono gli orrori della guerra furono poi, nel giro di tre anni, messe definitivamente a tacere con l'avvento al potere del fascismo, che preferì sorvolare sulla verità dei fatti per esaltare l'idea della guerra eroica. Al colonnello Gatti, che nel 1925 chiese l'accesso ai documenti ufficiali, il Duce rispose che “quello non era tempo di storia ma di miti”. Mussolini nel 1918 aveva sostenuto la necessità di non dimenticare Caporetto, ma, una volta giunto al potere, fece di tutto per non svelare più quanto accaduto. Da quel momento dunque non si poté più parlare delle migliaia di uomini portati al massacro senza capirne la ragione. La ricostruzione ufficiale di quel periodo, curata dall'Ufficio Storico dell'esercito,  venne pubblica  solo nel 1967.  



Giancarlo Romiti


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