BUONI AUSPICI |
Il tedesco: - Dio è con noi... L'italiano: - e Diaz è con noi...! (vignetta di Golia, apparsa sul "Numero", novembre 1917) |
Sull'orlo del collasso. Nuovi sentimenti, processi e polemiche.
“Un mondo è finito, crollato, sprofondato. Comincia un'altra epoca.”
(Dal diario del Col. Angelo Gatti).
Il
9 novembre 1917 prese il via l'iter
burocratico dei cambiamenti ai vertici dell'esercito italiano e, qualche giorno
dopo, l'ex Capo di Stato Maggiore acconsentì, facendo buon viso a cattiva
sorte, di andare a Versailles a far parte del Consiglio interalleato. “Ho
accettato ad una condizione: che non mi si dica mai più che sono salito di un
posto, cosa alla quale nessuno crede”. Luigi Cadorna era perfettamente consapevole che si
trattava di un ruolo poco più che simbolico, un incarico del tutto formale che
aveva il solo scopo di allontanarlo dagli avvenimenti bellici. E così il 25 novembre dello stesso anno, quando l'Italia era ancora
annichilita dalla catastrofe, accompagnato da alcuni tra i suoi più fidi
collaboratori, Cadorna salì sul treno per Parigi.
Intanto
la maggioranza del Paese era sfiduciata e quasi tutti erano convinti che
l'esercito non avrebbe tenuto nemmeno sul Piave. Invece verso Natale il nemico,
esausto, privo di rifornimenti e decisamente sorpreso dalla combattività degli
italiani, arrestò ogni offensiva.
Perché
gli stessi uomini che solo due mesi prima erano stati umiliati dal loro stesso
comandante, in così poco tempo, avevano ritrovato morale? Molteplici i fattori
che concorsero alla ripresa. Innanzitutto Diaz seppe trattare i soldati più
umanamente di Cadorna. Il rancio divenne più abbondante e più curato, si
ridussero i turni in trincea, aggiunti giorni di licenza, previsti esoneri per
lavori agricoli e, su iniziativa di Nitti, predisposta l'assegnazione ai fanti,
una volta congedati, di terre in proprietà. A questo si aggiunga la
mobilitazione industriale, l'invio da
parte degli alleati di alcune divisioni, ma soprattutto l'apporto fondamentale
della propaganda giornalistica di cui Cadorna non aveva mai sentito la
necessità e che invece contribuì, in quel momento, a dare alla guerra un
significato più concreto di quanto non fosse fino ad allora sembrato tra gli
strati popolari.
Ai primi di novembre la gravità dei fatti fece sì che
persino due giornali filo-giolittiani come la Stampa e la Tribuna invitassero alla solidarietà
nazionale. Ecco il commento della Tribuna il 1° novembre: “Tacciamo non solo
le voci dei precedenti dissensi politici ma anche quelle di ogni recriminazione
possibile. Offrire tutto se stesso alla Patria ecco il dovere di ciascuno. La
Patria magari potrà cancellare dal suo ricordo chi potrà essere stato assente o
dissenziente in passato, ma non potrà dimenticare mai chi sia per essere
assente oggi”.
Il
fattore decisivo fu dunque essenzialmente morale e psicologico. Quando
dovettero combattere sul Piave, che da allora cominciò a diventare un simbolo,
gli italiani capirono che stavano difendendo il territorio nazionale, la porta
di casa.
E
mentre il linguaggio ufficiale batteva
sull'orgoglio e sulla volontà di riscossa venivano gettate le basi per il
processo a Cadorna. Il 28 novembre fu nominata una Commissione presieduta dal
generale Carlo Caneva per la revisione dei procedimenti sommari di destituzione
degli ufficiali, mentre di lì a breve, il 12 gennaio 1918, venne istituita
un'altra Commissione, detta su Caporetto, con lo scopo di indagare sulle cause
e le responsabilità del ripiegamento dall'Isonzo al Piave. I quattro militari,
tra cui lo stesso Caneva, con i tre
politici che ne facevano parte, nell'arco di un anno e mezzo circa, tennero 241 sedute, consultarono oltre duemila
documenti e ascoltarono più di mille testimoni. La relazione mise sotto accusa i comandi militari per
l'insensata condotta della guerra, gli eccidi, e l'esasperante logoramento dei
soldati. Il lavoro fu minuzioso e dettagliato ed i giudizi alquanto severi; i
generali Cadorna, Capello, Porro e Cavaciocchi furono messi a riposo mentre se
la cavò Badoglio. In quel momento di grave pericolo colpire il numero due
dell'esercito significava mettere in discussione Diaz ed il re. Probabilmente
si volle evitare una nuova grave crisi all'interno del Comando Supremo.
Le
polemiche seguite alla pubblicazione dei risultati dell'indagine (agosto 1919)
e le manifestazioni che denunciarono gli orrori della guerra furono poi, nel
giro di tre anni, messe definitivamente a tacere con l'avvento al potere del
fascismo, che preferì sorvolare sulla verità dei fatti per esaltare l'idea
della guerra eroica. Al colonnello Gatti, che nel 1925 chiese l'accesso ai
documenti ufficiali, il Duce rispose che “quello non era tempo di storia ma di
miti”. Mussolini nel 1918 aveva sostenuto la necessità di non dimenticare
Caporetto, ma, una volta giunto al potere, fece di tutto per non svelare più
quanto accaduto. Da quel momento dunque non si poté più parlare delle migliaia
di uomini portati al massacro senza capirne la ragione. La ricostruzione
ufficiale di quel periodo, curata dall'Ufficio Storico dell'esercito, venne pubblica solo nel 1967.
Giancarlo Romiti
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