Quella di Virgilia d'Andrea (Sulmona, 1888 - New York, 1933), luminosa figura di donna anarchica, è stata una voce coraggiosa e fuori dal coro, capace di denunciare pubblicamente ogni genere di ingiustizia sociale in tempi in cui la censura e la propaganda imperavano; senza demordere dai propri ideali neppure quando il direttore del coro indossò la camicia nera, pretendendo da tutti cieca obbedienza. Come spesso accade, Virgilia pagò di persona un tale impegno politico, con la galera, l'esilio, la morte prematura.
Dal 1915, nei mesi che precedettero l'entrata in guerra dell'Italia, si prodigò in ogni modo per contrastare le posizioni interventiste, avvicinandosi al movimento anarchico abruzzese. In seguito seppe denunciare con coerenza gli orrori della Grande Guerra. Nel 1922 la pubblicazione della raccolta poetica Tormento le costò una denunzia per vilipendio e non pochi guai con le autorità.
Volsi le
spalle con un senso di nausea nella gola, ed entrai in una larga tenda dove più
persone, intimamente riunite, avevano ripreso l'abitudine di fare insieme la
veglia.
Si alzarono
tutti per cedermi il posto: poi qualcuno, offrendomi una tazza di caffè odoroso
e bollente, continuò, indirizzandosi a me, la discussione:
«È vero o
non è vero, Maestra, che presto, ben presto l'Italia dovrà decidersi di entrare
in guerra?»
Un tuffo al
cuore: un ribollimento di tutto il sangue che già tanto amaro era diventato in
quei giorni, e due parole, due sole parole che rivelarono d'improvviso, senza
veli, tutto l'animo mio: «Un delitto» risposi... E a fronte alzata, aspettai la
tempesta.
«Ecco...
proprio come dicevo io», approvò battendo le mani, Angelantonio: un giovane che
era tornato dalla Germania dove aveva, per alcuni anni, lavorato in miniera.
Volsi lo
sguardo e sorrisi a quell'aiuto inaspettato.
«Un delitto»,
ripresi. «Perchè questo folle massacro di uomini e di cose? Avete fatto dei figli
dunque, per mandarli infine allo scannatoio?»
Nessuno
osava ribattere. Quella parola "scannatoio"aveva fatto trabalzare le
donne e ammutolire gli uomini.
«Un delitto
che voi non dovreste permettere. Guardate...» e qui le parole le sentii miste
di lacrime tanto cocente era dentro l'angoscia, «tutto attorno a noi è scomparso,
e contro queste misteriose forze della natura nulla purtroppo noi possiamo
opporre. Ma contro la guerra, questa più terribile sciagura, che pochi pazzi e
criminali preparano, gli uomini hanno la forza, la ragione, la volontà, il
diritto... la ribellione.»
Io mi ero
accesa in uno slancio di avvampante passione e vidi, fra gli altri, gli occhi
grandi e luminosi di
Angelantonio,
pieni di lacrime e di speranze.
«Ma i nostri
fratelli di Trento e di Trieste? Ma la patria?» obiettò timidamente qualcuno.
«E gli
uomini di tutto il mondo non sono ugualmente essi dei nostri fratelli? Chi ha
il diritto di dire: Fin qui siete fratelli, al di là di questo segno voi non
siete che dei nemici implacabili?»
«Certo,
certo che la nostra maestra ha ragione... ha "studiato agli studi"
essa... e vuol bene alla povera gente come noi...»
Ed i visi si
fecero più vicini a me, con attenzione e interesse.
«E quelli
che avete dovuto cercare lavoro all'estero non vi siete sentiti più in patria
fra i tessitori, i contadini, i minatori della Germania, che fra i signorotti
rapaci, superbi e insolenti del vostro paese?»
«Che
verità... che verità sacrosante!... come don...don...» e qui il nome veniva
taciuto «che ci prende tutto
il raccolto
senza dirti nemmeno: muori.»
«Ma io vi
dico, invece, povere anime di Cristo, vicino alla dannazione, vi dico che è Dio
che permette la guerra... non muove foglia senza che Dio non voglia...» interruppe
una barba bianca e fluente: l'uomo più vecchio e più ascoltato della montagna.
«Che mostro
il vostro dio, saltò su Angelantonio, abituato alle franche e rudi discussioni
fra emigrati... «un
mostro che
vuole il terremoto, la peste, la carestia, la guerra...»
«Satanasso!...»
urlarono le donne, avvicinando alle labbra il rosario. «Se sei tornato in paese
per prendere moglie, ti faremo "mangiare il limone"... ti faremo!»
«Prendermi
una delle vostre oche io? Grazie», rispose il giovane con un poco
d'impertinenza che mi spiacque, perché sciupava la sua bella e altera fierezza.
Una
biondinetta piegò la testa, e sotto le ciglia lunghe e sottili io vidi brillare
alcune lacrime amare. Aveva ella, mite ed ingenua, tessuto già qualche sogno?
«Eppure...
con rispetto a vossignoria, maestra», intervenne la guardia campestre, che
all'occasione era l'autorità poliziesca del paese, «io penso, io dico che il
re... il re è il padrone…»
Ma d'improvviso una voce calda e melodiosa, venente da lontano, si sfioccò in languidi sogni attorno e sopra di noi... O amore, che mi guardi dalle stelle,Strette, mute, adesso, le labbra; ardenti i cuori ed ogni volto sbiancato...
Scendi tra i monti e lasciati baciare...
O amore, che la vita mi torturi,Tutto l'accampamento pendeva da quella magnetica, limpida voce. Tutta la selvaggia e magnifica terra d'Abruzzo apriva le vene turgide e sane a quella traboccante passione.
Fra le tue braccia fammi singhiozzare...
Il passato... la sventura... le rovine... la vita sui sepolcri... gli odii... gli amori... le umiltà... il soffio delle lontane lotte sociali... le ribellioni... e nell'ombra, protetta da mostri feroci, l'immensa fornace della guerra, dagli occhi di sangue e dalle fauci di fuoco.
Virgilia D'Andrea, Torce nella notte
Dario Malini
Bravi! Farò leggere subito questo brano ai miei scolari. Grazie.
RispondiEliminaAnna Luch.
Gentile Anna, la ringraziamo per il commento e attendiamo quelli dei suoi scolari. A presto!
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