Il comico nella letteratura di guerra

E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare. 
Allegria di naufragi
Versa, 14/06/1917
(Giuseppe Ungaretti, L’allegria)

Il comico, elemento che si potrebbe credere estraneo alla guerra, compare invece sovente nelle memorie e nelle lettere dei soldati. In questi scritti la battuta, il lazzo, il motto di spirito che interrompe sorprendentemente le descrizioni di vita quotidiana o di battaglie, va osservato con particolare attenzione, riconosciuto come elemento rivelatore di significati eversivi, che non potrebbero manifestarsi in altra maniera. Di seguito, vi proponiamo una rassegna di brani, appartenenti a importanti testi narrativi della Grande Guerra, in cui le fosche giornate del fante in prima linea sono illuminate dall’improvviso irrompere di una fresca risata liberatrice.

Cominciamo con Il fuoco di Henri Barbusse, scritto memorabile che, pubblicato alla fine del 1916, per primo ha saputo raccontare al mondo gli orrori della guerra e i suoi perversi meccanismi dal punto di vista del fante. Il brano proposto tratteggia un particolare tipo di ilarità, quella risata dolce e malinconica che sorge direttamente dalla gora profonda della misera quotidianità del soldato.
Alcuni fanti francesi, al termine di una sfibrante marcia di trasferimento, si avvicinano a una casa civile in cerca di distrazioni. Ma non trovano cibo né vino. Nel cortile dell’abitazione incontrano invece una donna:
«Buonasera, ragazzi», bela la vecchia.
Da vicino, ne vediamo i dettagli. È raggrinzita, con le vecchie ossa curve e ricurve, e ha la faccia bianca come un quadrante di orologio. E cosa fa? Allungata tra la sedia e il bordo del tavolo, si affanna a lustrare un paio di stivaletti. È un’impresa ardua per le sue manine infantili: i gesti sono malcerti, e qualche colpo di spazzola va a vuoto. Per di più gli stivaletti sono proprio lerci.
Quando si accorge che la osserviamo, bisbiglia che deve lucidarli per bene, entro sera, perché sono della nipotina che fa la sarta in città, dove si reca di buon mattino.
Paradis si china per vedere meglio gli stivaletti, e di colpo allunga una mano: «Li dia a me, nonna: in tre secondi le faccio splendere gli stivaletti della nipotina!»
La vecchia fa segno di no, scuotendo la testa e le spalle. Ma Paradis prende d’autorità gli stivaletti […]. «Ma guarda quanto sono piccoli!» dice con un tono di voce diversa dal solito. Prende anche le spazzole, e si mette a sfregare con una cura al limite dello zelo. Mi accorgo che sta sorridendo, mentre tiene gli occhi fissi sul lavoro che sta facendo. Poi, quando ha tolto il fango, raccoglie un po’ di lucido su un’estremità della spazzola a doppia punta e comincia a spanderlo con una minuziosa carezza.
Sono stivaletti eleganti, proprio adatti a una giovane alla moda, con una fila di bottoncini luccicanti. «Non manca neppure un bottone», mi sussurra, e nella sua voce c’è un tono di fierezza.
Non ha più sonno, non sbadiglia più. […] Le sue dita si muovono sulla patina nera sfavillante lasciata dal lucido, percorrono la tomaia dello stivaletto, procedono nello slargo del gambaletto, lì dove (pur nelle dimensioni così minute) si rivela la forma della gamba. […]
È finita. Gli stivaletti sono puliti e lustrati ad arte, brillano come specchi. Non c’è altro da fare…
[Paradis] li sistema al margine del tavolo con estrema cura, come fossero reliquie sacre; riesce infine a staccarne le mani. Lo sguardo, invece, non riesce a distoglierlo. Li guarda, poi china la testa e si guarda gli scarponi. Mentre fa questo confronto, questo omone (eroe per caso, bohémien e monaco) ride di tutto cuore. […] [Più tardi, di notte,] alla luce della candela in quella nostra stalla, vedo che ha ancora in faccia quel sorriso felice.

Una lieve risata di cristallina e quasi metafisica purezza risuona invece nel passo proposto qui sotto di Kobilek di Ardengo Soffici:
Montedoro e Pellis, l'attendente del mio capitano, hanno finalmente scoperto un posticino defilato, a piè di un grosso castagno, dove potremo riposare all'ombra e al sicuro. Defilato per modo di dire, giacché le mitragliatrici sparano da tre lati, e non ci sono posti al sicuro dalle granate e dalle torpedini.
Era difficile però trovar qualcosa di meglio, e ce ne contentiamo. Abbiamo fatto costruire un riparo di sacchi di terra dalla parte più minacciata, e, steso nella polvere un telo da tenda, ci siamo coricati al fresco.
È la prima ora di vero riposo dacché siamo partiti da Palievo. Chiacchieriamo intorno a quello che è avvenuto e sta per avvenire. Il capitano Borri vede le cose un po' in nero ; ma non è scoraggiato per nulla. Io mi sento allegrissimo, non so perché: allegria che comunico alla fine anche al mio compagno di siesta.
Ridiamo insieme della nostra strana situazione. E infatti c'è qualcosa di buffo in tutto ciò che accade : meriggiare in questo modo fra uno sciame di proiettili; quella mitragliatrice che non si vuol chetare, cascasse
il mondo ; i soldati che dormono perché si credono protetti abbastanza da una vanghetta conficcata in terra, vicino alla loro testa, da una radica, o da una zolla.
Il fatto stesso di trovarci lui ed io a conversare nelle vicinanze di Rutarsce, quando si pensa alla nostra vita passata, al nostro modo di veder le cose, è di una comicità indiscutibile.
Di chiacchiera in chiacchiera, il capitano arriva a confessarmi una prima impressione sul mio conto. Quando, partendo da Cosbana, mi aveva visto pieno di buon umore, s' era figurato che io fossi un ingenuo, che non sapessi immaginare la realtà vera della guerra. Soltanto dopo capì che la mia tranquillità e ilarità han ben altre cause. Non sa però ancora con quale semplicità accoglierei la morte, sebbene ami tanto la vita.
Fumiamo una sigaretta, e dormiamo.

Il seguente brano è tratto da Nelle tempeste d’acciaio di Ernst Jünger, ed è ambientato nella Francia del nord, negli ultimi giorni del marzo 1918, mentre deflagrava la cosiddetta Offensiva di primavera (estremo quanto inutile attacco tedesco alla Francia). 
I tedeschi avanzano a costo di immani sacrifici, già consapevoli dell’inutilità dei loro sforzi. Nell’atmosfera spettrale, satura di morte, risuona all’improvviso la risata di alcuni soldati. Che valore attribuirgli?
Seguii un sentiero incassato sulla cui scarpata si aprivano alcuni ricoveri sfondati dall'artiglieria. Avanzavo con furia, sul terreno scuro arato dai colpi e dove ancora aleggiavano i gas asfissianti dei nostri proiettili. Mi accorsi di essere completamente solo.
Fu in quel momento che incontrai il primo soldato nemico. Una figura in uniforme kaki era accoccolata a venti passi da me, in mezzo all'avvallamento martellato dal tiro, con le mani appoggiate al suolo. I nostri sguardi si incontrarono quando uscii da una curva del sentiero. Lo vidi sussultare; teneva gli occhi fissi su di me mentre mi avvicinavo lentamente con la pistola puntata e con espressione truce. Si preparava una scena sanguinosa senza testimoni. Era come una liberazione poter finalmente vedere il nemico da vicino. Poggiai la bocca della pistola sulla tempia di quell'uomo che sembrava paralizzato dalla paura, mentre con l'altra mano l'afferravo alla giubba adorna di decorazioni e di gradi. Un ufficiale; forse era stato al comando di questa parte della trincea. Con un gemito portò la mano alla tasca, per estrarne non un'arma, ma una fotografia che lo ritraeva su una terrazza, circondato da una numerosa famiglia.
Era l'incanto di un mondo passato e incredibilmente lontano. In seguito, ho giudicato una gran fortuna l'essere riuscito a dominarmi e l'aver proseguito il cammino. Quell'uomo mi è apparso spesse volte in sogno. Spero che abbia potuto rivedere la sua patria.
Alcuni uomini della mia compagnia saltarono dall'alto dentro il sentiero incassato. Soffocavo per il caldo. Mi tolsi il pastrano e lo gettai via. Ricordo di aver gridato due o tre volte a gran voce: «Ecco il tenente Jünger che si toglie il cappotto!» e che i soldati risero come se avessi detto una cosa spiritosissima. Di sopra, tutti correvano allo scoperto senza preoccuparsi delle mitragliatrici che sparavano da una distanza di quattrocento metri al massimo.

Nello stesso libro, Ernst Jünger descrive una situazione in cui il ridere non parrebbe la reazione più prudente, ma pare tuttavia stimolato proprio dal pericolo:
Eravamo ancora vicini quando si udì un colpo sordo di proiettile in partenza, di quelli però senza eccessiva importanza. Hock […] filò come un lampo verso il più vicino ingresso di galleria, e quindi rotolò per i primi quindici scalini e adoperò i quindici seguenti per eseguire un triplice salto mortale. Io ero rimasto su, in alto, sull'entrata, dimenticando per il gran ridere la bomba e la galleria.
E poco più avanti, nello stesso libro, Ernst Jünger descrive i giorni terribili della Battaglia della Somme:
In tutta la guerra soltanto quella battaglia mi rivelò l'esistenza di una sorta di orrore ignoto e strano quanto una terra sconosciuta. Così in quegli attimi non avvertii alcun timore, ma anzi un'eccitazione straordinaria, quasi demoniaca; ebbi anche accessi di un riso convulso che non riuscivo in alcun modo a contenere.

Erich Maria Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale delinea assai bene il momento liberatorio in cui il materiale della guerra, nato per distruggere e terrorizzare, si trasforma quasi naturalmente in qualcosa di cui finalmente è possibile prendersi gioco: 
Le notti sono ora più calme, e comincia la caccia agli anelli di rame delle granate ed ai serici paracadute dei razzi francesi.Perché questi anelli siano poi tanto ricercati nessuno sa bene. […]Haje almeno ci indica un motivo: vuole mandarli alla fidanzata, come surrogato delle giarrettiere. Quest'idea ha naturalmente per effetto di scatenare nei bravi frisoni una ilarità irrefrenabile: si picchiano sulle ginocchia. Dio, com'è buffo quell'Haje, è proprio matricolato. Tjaden specialmente non sa contenersi: ha preso nelle mani il più largo degli anelli e ad ogni istante vi ficca dentro la gamba per mostrare quanto spazio ci avanza ancora: «Haje, ragazzo mio, ma che gambe deve avere, che gambe!» e il suo pensiero sale anche più su: « E che sedere! un deretano... da elefante!»

Infine, Il sorriso dell’obice di Dario Malini tratteggia i misteriosi percorsi mentali tramite i quali il riso irrompe nella vita dei soldati, di preferenza proprio laddove maggiore è il rischio e la tensione:
La vicinanza alla linea del fuoco ci suggerisce invece discorsi ben più spettrali. Se, come ci si aspetterebbe, queste conversazioni riguardano spesso le più svariate considerazioni sui prossimi assalti, è bizzarro che la consuetudine con la morte attizzi in ognuno di noi uno spirito beffardo e crudele, inducendoci a ridere sino alle lacrime di cose che, in altre circostanze, ci farebbero un’impressione ben diversa. Ad esempio, dell’episodio di quel fante austriaco che, lanciatosi arditamente all’attacco in uno degli ultimi scontri, ha perso all’improvviso i pantaloni ed è stato falciato dalle nostre mitragliatrici nell’atto grottesco di riallacciarseli, spirando infine con le brache calate.

Un altro genere di riso, posto ad un ben più alto grado di consapevolezza, si manifesta invece assai più raramente nei soldati: quello di chi guarda alle cose della guerra con ironia e disincanto, comprendendone infine la follia e la sterilità. Riprendiamo a tale proposito una frase de Il sorriso dell’obice:
L’arte mi trascina, mi avvinghia, e tutto, anche la guerra, mi pare ormai ridicolo e stravagante. L’unica cosa è ridere, ridere d’ogni cosa, ridere sempre e comunque per omnia saecula saeculorum.

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