La metamorfosi dell’anima dei soldati

fig.1
Iniziamo questo excursus osservando un interessante disegno a china, di autore non identificato, ritraente un soldato russo prigioniero nel campo tedesco di Friedrichsfeld, vicino a Wesel (fig 1). Opera di grande potenza espressiva, delinea un uomo segnato da una profondissima tristezza esistenziale, una persona travolta da una guerra che lo ha allontanato dalla patria e dagli affetti, catapultandolo in un mondo estraneo e ostile. In questa effigie l’artista ha colto un tipo particolare di metamorfosi generato dalla vita in guerra: la metamorfosi dell’anima.


fig. 2
Analoghi esempi di metamorfosi dell’anima sono rintracciabili in una silografia di Gino Barbieri, noto artista-soldato italiano caduto in guerra: Fanti (fig 2), opera realizzata direttamente al fronte. Vi sono rappresentati tre volti assorti, cui la ripresa in primissimo piano conferisce un’apparenza monumentale. Si tratta di soldati che hanno visto da vicino gli orrori della guerra. I loro visi paiono scolpiti dai segni lasciati da tali esperienze, nei quali la luce penetra come ricercandovi un qualche significato. Barbieri ha ritratto in quest’opera dei compagni, cogliendo nei loro sguardi quella silenziosa metamorfosi interiore che segna con il marchio profondo del dolore l’esistenza del fante in trincea. Ciascuna delle figure ritratte è assorta in un proprio mondo incomunicabile di meditazioni, astratta da una terribile realtà che tuttavia incombe in secondo piano, allusa dal fumo dei colpi e dalle rovine. Ciò che maggiormente connota questi uomini è l’intensità dello sguardo: “Se avrò vita” dirà Gino Barbieri “non dipingerò che gli occhi!” (cit. in M. Campana, Come morì il pittore L. G. B., in Corriere padano,30 sett. 1940).

fig. 3
Anche Lorenzo Viani, chiamato al fronte nel 1916, ha lasciato preganti testimonianze riguardo agli effetti della guerra sull’interiorità di chi dovette prendervi parte. In Le frondi recise (fig 3), ad esempio, silografia pubblicata nell’omonimo volume di liriche di Enrico G. Rovai (1935), raffigura due sagome che avanzano verso una direzione sconosciuta. Sono dei reduci che, a differenza di quelli di Barbieri, paiono privi di ogni forza interiore, ridotti ad uno stadio di esistenza larvale: il capo piegato verso il suolo, rivolti di spalle, quasi fossero nell’impossibilità di mostrare il volto, incarnano l’ultimo stadio della metamorfosi, quello in cui l’esistenza spirituale stessa è stata annientata.

Carol Morganti


avanti ==>                       

Nessun commento:

Posta un commento