Gli austriaci avevano trincee ben riparate con i bunker. Ci sparavano dalle feritoie mentre noi dovevamo acquattarci in buche basse, ricevevamo ordine di andare alla carica contro il nemico con la baionetta spianata. Attacco dopo attacco, in continuazione, dall'alba al tramonto. Non dovevano far altro che restare nelle loro posizioni, aspettando di ammazzarci mentre eravamo allo scoperto.”
Carlo Orelli, reduce della prima battaglia sull'Isonzo, da un'intervista di Mark Thompson
Il 21 giugno del 1915 il Comando Supremo italiano diramò l'ordine di attacco stabilendo come primi obiettivi il Monte Kuk, la vetta del Monte Mrzli ed il rafforzamento delle posizioni tra Oslavia ed il Podgora, nei pressi di Gorizia. Mentre la seconda armata doveva assolvere questi ordini, impegnandosi al massimo per raggiungere il successo "a qualsiasi costo”, più a sud, in un settore ritenuto inizialmente secondario, la terza armata era occupata ad avanzare il più possibile nella regione carsica, tra Sagrado e Monfalcone.
Dopo pochi giorni dall'inizio degli scontri i soldati italiani scoprirono che i reticolati austriaci erano praticamente impenetrabili. A Plava il 24 giugno otto diversi tentativi di prendere quota 383 non approdarono a nulla mentre attorno a Gorizia l'inadeguata potenza di fuoco italiana cozzò contro le più forti difese nemiche.
Qualche risultato venne ottenuto sul Carso dove nelle tre fasi in cui si svolse l'azione (23-28 giugno, 30 giugno-2 luglio, 2-7 luglio) l'esercito italiano riuscì a conquistare il territorio attorno a Sagrado, Fogliano e Redipuglia, costringendo il nemico a ripiegare sul Monte Sei Busi e sul San Michele. Gli austriaci erano consapevoli che perdendo il controllo di quest'ultimo i loro presidi rischiavano di crollare e lo sapeva molto bene anche Cadorna che però non colse l'occasione. In questa zona infatti le ancora approssimative difese nemiche favorirono la pressione degli italiani che fu talmente forte da provocare quasi la rottura del fronte. Per impadronirsi del monte che domina tutto il vallone di Doberdò e la città di Gorizia il 2 luglio il duca d'Aosta, a capo della terza armata, chiese rinforzi ma Cadorna, recatosi nel frattempo a Cervignano sede del comando, prese tempo facendo solo delle generiche promesse. Nel pomeriggio del 5 luglio quando finalmente arrivarono le truppe di rincalzo era ormai troppo tardi. Il comandante austriaco Boroevic, grazie al supporto di due nuove divisioni di fanteria, era già riuscito a colmare la breccia nello schieramento delle sue divisioni.
La prima battaglia isontina si concluse due giorni dopo, il 7 luglio e i guadagni ottenuti, a fronte degli sforzi sviluppati, furono davvero minimi. Agli scontri parteciparono circa 250.000 uomini della seconda e della terza armata; quasi 2000 furono i morti, 11500 i feriti e 1500 i dispersi.
La prima battaglia isontina si concluse due giorni dopo, il 7 luglio e i guadagni ottenuti, a fronte degli sforzi sviluppati, furono davvero minimi. Agli scontri parteciparono circa 250.000 uomini della seconda e della terza armata; quasi 2000 furono i morti, 11500 i feriti e 1500 i dispersi.
In tutta la battaglia , – scrive Gianni Rocca in “Cadorna. Il generalissimo di Caporetto” - salvo qualche apparizione ai Comandi d'armata, Cadorna si era limitato a seguire a distanza i combattimenti, senza averne quindi una diretta percezione. I nostri reparti conobbero orribili esperienze. Innanzitutto il caldo, aggravato dalla cronica mancanza d'acqua. Il generale Angelotti, comandante della tredicesima divisione, ne dovette far oggetto di un suo ordine d'operazione: “Raccomando vivamente che i comandanti ricordino la scarsezza d'acqua che caratterizza l'altipiano del Carso, e quindi provvederanno non soltanto che tutti gli uomini, ufficiali compresi, abbiano acqua nella borraccia, ma anche che siano portate al seguito delle truppe, da uomini o da quadrupedi, le ghirbe piene d'acqua”.
In condizioni ambientali disagiate, oltre che in situazioni emotive particolari, i soldati italiani già dai primi momenti vennero dunque messi nelle condizioni di combattere anche la fame, la sete, il caldo, il fango, i topi, i pidocchi e le malattie. Eppure per il generalissimo l' unica preoccupazione continuava ad essere quella di far rispettare le sue dissennate tecniche di guerra: “Per attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia
all'attacco un numero di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice”.
“I tre attacchi si svolsero indipendenti e ciascuno con carattere proprio” sancì la relazione ufficiale sulla prima battaglia ma Cadorna, “colla presunzione dell'infallibilità del giudizio proprio” (Commissione d'inchiesta dopo Caporetto), continuò nel consueto criterio dello sparpagliamento delle forze. Infatti dopo soli dieci giorni partì un'altra offensiva con la seconda armata occupata in una serie di azioni diversive per distrarre il nemico, mentre alla terza armata fu ordinato di conquistare il Monte San Michele, cardine dell'intero fronte carsico. Questa collina di appena 250 metri, con alcuni versanti fortemente scoscesi ed altri talmente dolci da fondersi con l'altipiano, aveva un'importanza strategica fondamentale. Il suo possesso significava controllare completamente l'intera zona del basso Isonzo. La battaglia cominciò il 18 luglio e andò avanti con continui e feroci combattimenti sino al 3 agosto. Il Capo si Stato Maggiore seguì gli eventi non più, come nella
precedente occasione, da Udine ma dall'osservatorio di monte Medea, sempre lontano comunque dalle sedi operative dei comandi. Il 20 luglio gli italiani conquistarono la sommità del San Michele, la ripersero il giorno dopo, la riconquistarono, per ben due volte, il 26 ma un tremendo attacco delle truppe di Boroevic li costrinse a sgomberare in fretta e furia per non essere circondati. Cadorna scrisse al figlio Raffale: “Assistei allo spettacolo dalla collina di Medea ed era grandiosamente tragico”.
In condizioni ambientali disagiate, oltre che in situazioni emotive particolari, i soldati italiani già dai primi momenti vennero dunque messi nelle condizioni di combattere anche la fame, la sete, il caldo, il fango, i topi, i pidocchi e le malattie. Eppure per il generalissimo l' unica preoccupazione continuava ad essere quella di far rispettare le sue dissennate tecniche di guerra: “Per attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia
all'attacco un numero di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice”.
“I tre attacchi si svolsero indipendenti e ciascuno con carattere proprio” sancì la relazione ufficiale sulla prima battaglia ma Cadorna, “colla presunzione dell'infallibilità del giudizio proprio” (Commissione d'inchiesta dopo Caporetto), continuò nel consueto criterio dello sparpagliamento delle forze. Infatti dopo soli dieci giorni partì un'altra offensiva con la seconda armata occupata in una serie di azioni diversive per distrarre il nemico, mentre alla terza armata fu ordinato di conquistare il Monte San Michele, cardine dell'intero fronte carsico. Questa collina di appena 250 metri, con alcuni versanti fortemente scoscesi ed altri talmente dolci da fondersi con l'altipiano, aveva un'importanza strategica fondamentale. Il suo possesso significava controllare completamente l'intera zona del basso Isonzo. La battaglia cominciò il 18 luglio e andò avanti con continui e feroci combattimenti sino al 3 agosto. Il Capo si Stato Maggiore seguì gli eventi non più, come nella
precedente occasione, da Udine ma dall'osservatorio di monte Medea, sempre lontano comunque dalle sedi operative dei comandi. Il 20 luglio gli italiani conquistarono la sommità del San Michele, la ripersero il giorno dopo, la riconquistarono, per ben due volte, il 26 ma un tremendo attacco delle truppe di Boroevic li costrinse a sgomberare in fretta e furia per non essere circondati. Cadorna scrisse al figlio Raffale: “Assistei allo spettacolo dalla collina di Medea ed era grandiosamente tragico”.
Giancarlo Romiti
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