Un popolo ingannato



Il mio pensiero è che i soldati italiani che sono venuti qui a combattere si sentivano ingannati. Perchè gli avevano detto: "Andiamo a liberare i nostri fratelli". Ma quando parlavano con noi, nessuno li capiva. Per questo io penso che i soldati italiani siano stati ingannati. Prima di entrare in guerra c'era stata una grande propaganda per la nostra liberazione ma una volta arrivati qui i soldati si chiedevano: "Dove sono questi nostri fratelli? Cosa siamo venuti a fare qui?"
Andrej Masera di Caporetto, da un'intervista di Camillo Pavan


Nel 1911 si tennero, in occasione dei cinquant'anni dall'unità, le celebrazioni del giubileo della patria. Oltre a rievocare le gesta e gli eroi del Risorgimento vennero organizzate grandi feste, congressi e mostre che illustravano i progressi economici sociali e culturali che il paese aveva compiuto dal 1861. Tuttavia questo tentativo di legittimare una nazione nella quale tutti, al di là delle differenze di classe sociale, potessero sentirsi cittadini, con pari dignità e libertà di fronte alla legge, fallì. La grandissima maggioranza degli italiani si sentiva ancora estranea alle istituzioni statali servite con il "sangue e con i denari" e nel 1915 questa quasi totale assenza di un senso di comunità nazionale sviluppò, nella classe operaia e contadina, un forte sentimento anti bellico. Alla vigilia dell'entrata in guerra la maggior parte della popolazione era ancora troppo legata ai propri paesi d'origine, era analfabeta e parlava solo in dialetto. Tutto questo non impedì l'intervento ma in poco tempo ogni atteggiamento di baldanza e di spensieratezza venne meno nei soldati convertendosi tutt'al più in un'adesione passiva al conflitto con la consapevolezza di essere entrati in un inesorabile processo senza fine. L'impressione di sentirsi abbandonati e traditi dai politici e dall'intero stato maggiore dell'esercito si impadronì rapidamente delle trincee. Numerose le rivolte contro la disciplina imposta dagli ufficiali, le fraternizzazioni con il nemico, le diserzioni e le ferite volontarie d'arma da fuoco a mani e piedi. Alcuni soldati scoprivano "da soli, lì sul posto" le ragioni per cui erano stati chiamati ad indossare l'uniforme ma altri, forse la maggior parte, non capivano perché l'alto comando non smetteva mai di chiedere agli uomini sacrifici inauditi. Ma al di là di tutto la grave colpa di Cadorna è stata quella di avere ignorato completamente quelle che dovevano essere le condizioni necessarie per rispettare la dignità dei suoi soldati. L'idea che in una guerra così logorante occorresse un forte senso umano, che avrebbe senz'altro agito positivamente sullo stato d'animo delle truppe, non lo sfiorò minimamente. Da subito le trincee divennero un luogo dove i soldati non dovevano/potevano affatto ragionare con la loro testa: tutto quello che dovevano/potevano fare era ubbidire e morire.

Giancarlo Romiti


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