"Verginità" di Fausto Maria Martini (1920)


Verginità di Fausto Maria Martini è un romanzo del 1920. Di grande successo all'uscita, oggi è ingiustificatamente dimenticato.  Scritto autobiografico (l'autore partecipò alla Grande Guerra, uscendone mutilato), racconta il lungo percorso di guarigione di un soldato gravemente ferito in battaglia, già quasi fagocitato dalle ombre crepuscolari della morte. La vicenda, narrata attraverso una prosa sensuale, inquieta e sensibilissima, può essere letta anche come una sorta di viaggio metaforico di una società-fenice, disseccata dalla guerra, alla ricerca della via della rinascita. Di seguito ve ne proponiamo alcuni brani nei quali viene delineato una sorta di percorso mistico-sensuale che conduce dalla morte alla vita, sotto l'egida del femminino nelle sue molteplici manifestazioni. Si tratta di uno dei molti flashback che cadenzano la prima parte del romanzo, ponendo «in raffronto questo fanciullo di trent'anni, rinato dalla guerra, col fanciullo autentico di un tempo».

In una Roma crepuscolare alla fine della Grande Guerra, del tutto diversa da quella (raffinata, carnale, decadente e barocca) in cui si muovevano pochi decenni prima i sofisticati personaggi de Il piacere di D’Annunzio, il protagonista adolescente e Leonia (una giovane donna, assai più grande di lui) fuoriescono da una chiesa.

È sera quando usciamo dalla chiesa. Nella strada, già tutta un brivido notturno, si è perduto l’ultimo cicaleccio dei ciechi. Si è sentita chiudere la porta dell’ospizio sull’ultimo di loro: come la pietra di una tomba. Ora il silenzio è inviolato. Giungono a tratti dalla città sottostante rumori di vita; ma qui dove Leonia e io ci siamo fermati a respirare la sera, in questa piazza che Roma porta in vetta a un suo colle come un segno di nobiltà taciturna, i rumori non hanno stanza. Appena giungono quassù sembrano meravigliarsi della loro audacia e subito ritirarsi per lasciar posto al silenzio della sera cha abita qui.
In silenzio Leonia e io scendiamo adesso verso la città. Piazza dei Cerchi s’illumina proprio ora; e se io guardo di quassù, a ogni lume che si accende sulla piazza, mi pare che la lama rossa d’un coltello squarci il velluto notturno di cui già s’erano vestiti i muri delle case e che la sùbita luce rivela nell’attimo stesso che lo lascia cadere giù a terra.
Ma qui nel viottolo che scende dalla chiesa è ancora l’oscurità. L’ombra purifica così l’aridità della strada quasi cittadina che si ha l’impressione di passare per un sentiero agreste. Non si vedono più le persone e le cose; s’intravedono forme appena, movimenti e tutto amplificato, moltiplicato dall’ombra. Ecco infatti la staccionata che si parte da un cancello allo svolto di una via e che in piena luce era apparsa come lo scheletro di una siepe, eccola tramutarsi, per quella matassa d’ombra che la notte incipiente le ha aggrovigliato attorno in una viva e folta siepe come di bosso. S’intravedono movimenti e forme incerte. Io e la donna ci teniamo stretti; ma non siamo l’unica coppia che scenda la via.

Di qui in poi il lettore si avvede che le sensazioni che pervadono i due appena usciti dalla messa sono tutt'altro che mistiche. Nelle ombre della sera, Roma diviene ricetto palpitante e quasi parossistico di infinite voluttà. Avvolta nell'oscurità, le mura sgretolate della Città dei Papi generano le creature mostruose e voluttuose che le abitano.

Pareva, all’inizio della strada, che fossimo noi soli. Poi altre coppie sono apparse e altre ne appaiono ancora: sempre di più, sempre di più, quasi che l’ombra le generasse di se stessa. Strisciano lungo i muri delle strade come una viva lebbra di quelle pietre sgretolate che, ecco, prende un’imprecisa forma umana, attraversa la via e si unisce all’altra forma imprecisa che si è sprigionata dal muro opposto. Ma non chiari profili umani io vedo: sì, accoppiamenti dei quali nel buio distinguo a mala pena gli elementi attraverso intrecci di braccia, declinazioni di spalle, teste reclinate, bocche che si baciano. Non precise forme umane io vedo; ma una sorta di mostruosità generata dalla notte in quest’angolo di Roma. Eppure io, l’adolescente che ignora ancora, io sento che questa mostruosità notturna, quasi senza forma, è attraversata da un brivido che è lo stesso mio spasimo.…

Ma è ora il palcoscenico stesso delle vie romane a sparire, sommerso dalle sensazioni dei due giovani, l’adolescente e la femmina, che procedono abbracciati…

E sento che da un momento all’altro il fanciullo ignaro, proprio da quest’ansia anonima di sessi che si cercano nell’ombra e che formano una specie di mostruosità indistinta, sarà sollevato e trascinato verso la sua prima esperienza d’amore come da un’onda alla quale egli non possa in alcun modo resistere. Accadrà questo tra poco: lo sento. Il paesaggio d’intorno sfuma nella notte. Io non so più dove sono né so dove io vada. Sono un fanciullo davanti a una vampata di fuoco che sta per inghiottirlo…. Sono una piccola cosa, un nulla al vertice di una febbre immane, delle febbre di tutta una folla che mi esalta e mi trascina senza scampo.
Ho paura…. paura…. paura…. Ma in questa paura è tanta infinita delizia!
La femmina lo sente questo mio languore. Sente altresì che ella può perdermi, perché sto per diventare non più una cosa sua, del suo desiderio, ma una cosa in dominio di questa febbre umana che agita e gonfia l’ombra della strada nascosta…. E allora, prendendomi sotto l’ascella, la femmina che ha sentito quasi mancare il fanciullo, lo sorregge, lo porta come un suo segno di conquista in mezzo agli accoppiamenti eguali e difformi che si allacciano e si snodano incessantemente attorno a noi....


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