Chi è Cadorna? Che ha fatto perché si debbano affidare a lui le sorti dell'Italia?
Colonnello Giulio Douhet (luglio 1916)
Luigi Cadorna, primogenito e unico figlio maschio, entrò a soli dieci anni in un collegio militare di Torino cominciando così una carriera che lo portò nel 1914, proprio alla vigilia del primo conflitto mondiale, ad essere nominato capo di stato maggiore dell'esercito italiano.
Prima d'allora la sua unica esperienza in combattimento era avvenuta, come ufficiale inferiore di un reparto di artiglieria, a fianco del padre Raffaele, ben quarantacinque anni prima, nel 1870, durante la presa di Roma.
Al momento dell'entrata in guerra, per la forte presunzione e cocciutaggine che lo contraddistingueva, non volle considerare quanto stava accadendo sul fronte occidentale dove il conflitto aveva cominciato da subito ad assumere i contorni di una logorante guerra di posizione. Era ancora ciecamente convinto che esistessero solo due modi per demoralizzare e sconfiggere il nemico: “La superiorità del fuoco e l'irresistibile movimento in avanti. Di questi, il secondo è il più importante (vincere significa avanzare)”. Secondo Cadorna la guerra, sicuramente breve, si sarebbe risolta con una battaglia campale nel cuore dell'Impero asburgico.
Per questo decise di evitare l'attacco agli altipiani che proteggono Trento e puntare decisamente a est, verso e oltre l'Isonzo. In tal modo credeva che la sua strategia potesse anche trovare l'appoggio dell'esercito serbo e russo. L'eccessiva considerazione delle proprie idee gli fece dimenticare che la Serbia era risentita per le ambizioni italiane nei Balcani, mentre le truppe zariste ai primi di maggio del 1915 avevano perso i Carpazi e la Galizia , permettendo così al comando austriaco di spostare parte delle truppe di quel settore verso la Carnia ed il fronte carsico.
Veniva così a mancare quella che, nel secolo precedente, Carl Von Clausewitz, grande teorico della guerra , considerava “la base di ogni impresa”: la sorpresa. Già da aprile infatti il capo di stato maggiore austriaco, generale Conrad, aveva approntato un piano di resistenza sul fronte isontino, chiudendo i passi a valle di Tolmino e rinforzando le difese sul Carso. “Il lavoro ferveva giorno e notte – scrive un generale austriaco – ...Quando gli italiani giunsero fino all'orlo dell'altipiano di Doberdò, dinnanzi alle nostre postazioni li attendevano già tre ordini di reticolati, in alcuni punti disposti su cinque file, con una zona di ostacoli larga in media cinque metri, provvista in gran copia di mine...Nelle trincee i soldati potevano essere riparati in modo da sparare da seduti...”.
Cadorna ignorava che nel Tirolo e nelle Dolomiti gli austriaci si erano schierati in una linea difensiva piuttosto arretrata rispetto ai confini di stato, lasciando così ampi tratti di territorio, nei pressi del lago di Garda e a nord di Asiago, praticamente indifesi. “Noi siamo alla vigilia di una invasione nemica – riferiva il 20 maggio il comandante asburgico in Tirolo – Solo la zona di Trento è un po' meglio protetta.....Non so tuttavia che cosa accadrà se gli italiani attaccano energicamente dappertutto”. Un tenente austriaco appostato sulle Dolomiti il 23 maggio scrisse che se gli italiani avessero saputo il fatto loro avrebbero marciato tutta la notte, giungendo nel cuore della Val Pusteria entro il mattino. La superiorità iniziale in quel settore era talmente grande che le truppe del Bel Paese avrebbero potuto sfondare quando avessero voluto. In verità il piano originale prevedeva offensive in questo settore ma il generalissimo cambiò idea, preferendo concentrare l'azione offensiva quasi esclusivamente sull'Isonzo. Così la possibilità di penetrare in modo indolore in Austria sfumò e gli italiani si trovarono a combattere nel Carso, una distesa desolata che, secondo una leggenda sulle sue origini, fu trasformata da Dio in regno della pietra per aver dato i suoi antichi abitanti ospitalità al diavolo. “Sul Carso, a differenza del Trentino, della Carnia o dell'Alto Friuli – scrive Giovanna Procacci in Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra - a causa della struttura geologica della zona, le truppe erano soggette a disagi e sacrifici enormi: il clima era insopportabilmente caldo d'estate (ma con notevoli escursioni termiche durante la notte), e terribilmente freddo d'inverno. La scarsità di vegetazione, specie nelle regioni più alte, offriva un insufficiente schermo ai venti dei mesi freddi, mentre la mancanza di acqua rendeva ancor più dura la permanenza nei periodi caldi. Mentre l'accidentalità del terreno offriva ripari naturali per un combattimento difensivo quale quello deciso dagli austriaci.”. Insomma, l'ultimo posto del globo terracqueo dove andare a combattere una guerra con lo scopo di “andare avanti, sempre avanti”.
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