Alle cinque e cinque precise uscimmo dal rifugio e attraversammo i reticolati servendoci dei varchi aperti in precedenza. Mi portai in testa brandendo una bomba e vidi la pattuglia di destra che usciva a sua volta nelle prime luci del giorno. Il reticolato protettivo nemico era piuttosto debole; lo superai con due salti, ma incappai su un rotolo di filo spinato che si trovava dietro e ruzzolai in un cratere dal quale Kloppmann e Mevius mi tirarono fuori.
«Via!» Saltammo nella prima trincea senza incontrare resistenza, mentre a destra cominciava, fragorosissimo, un duello di bombe a mano. Senza preoccuparcene troppo superammo uno sbarramento di sacchi di terra, ci nascondemmo stendendoci nei fossi scavati dai proiettili, poi ci rialzammo e ci trovammo davanti a una fila di cavalli di frisia che sbarravano la via verso la seconda linea. […] Improvvisamente alcune ombre fuggirono davanti a noi. Le inseguimmo e cademmo in un corridoio cieco, nella parete del quale si apriva l'ingresso di una galleria. Mi appostai davanti gridando: «Montez!» Per tutta risposta fu lanciata all'esterno una granata. Si trattava evidentemente di un proiettile a scoppio ritardato; udii infatti il piccolo scatto che precede la detonazione ed ebbi il tempo di saltare all'indietro. Scoppiò all'altezza della mia testa contro il muro di fondo, mi strappò il berretto e mi ferì in più punti la mano asportandomi anche la punta del mignolo. Il sergente del genio, che si trovava al mio fianco, ebbe il naso bucato. Ci ritirammo di qualche passo e spazzammo quel luogo pericoloso con colpi di bombe a mano. Per un eccesso di zelo, uno dei nostri lanciò dentro il cunicolo un razzo incendiario rendendo impossibile ogni altro attacco. Facemmo dunque dietro-front e seguimmo la terza linea nella direzione opposta per catturare almeno un nemico. Sparse al suolo, un po' dappertutto, si trovavano armi e oggetti d'equipaggiamento. «Ma dove diavolo possono essere i proprietari di tutti questi fucili? Da dove ci spiano?» Questa domanda si faceva dentro di noi sempre più insistente e inquietante. Ci cacciammo tuttavia avanti risolutamente; con le bombe a mano pronte e le pistole puntate, nelle profondità di quelle trincee deserte e velate da nuvole di polvere. […]Ma ecco che in quel momento da una trincea parallela, sul lato dove noi credevamo si trovassero le nostre linee, una voce nemica si fece udire, molto agitata, ma anche minacciosa: «Qu'est ce qu'il y a?» e una palla nera che si stagliava vagamente sul grigio del cielo, volò con una curva alta verso di noi. «Attenzione!» Nel breve spazio tra Mevius e me brillò un lampo; una scheggia colpì la mano del mio amico. Ci sparpagliammo perdendoci sempre più nel dedalo delle trincee. […]Dei quattordici uomini partiti con me non ne ritornarono che quattro; anche la pattuglia di Kienitz aveva subito fortissime perdite. Nel mio scoraggiamento mi sollevarono alquanto le parole del bravo Dujesiefken, nativo di Oldenburg, il quale, mentre nel ricovero mi facevo medicare la mano, raccontò gli avvenimenti ai suoi camerati raccolti davanti all'ingresso, concludendo con questa frase: «Ma il tenente Jünger, bisogna rispettarlo; vedeste, ragazzi, come saltava le barricate!»
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