L'attacco di Erich Maria Remarque (da "Niente di nuovo sul fronte occidentale")

Siamo diventati belve pericolose: non combattiamo più, ci difendiamo dall'annientamento. Non scagliamo le bombe contro altri uomini; che cosa ne sappiamo noi in questo momento! Ma di là ci incalza la morte, con quegli elmi e con quelle mani: e dopo tre giorni è la prima volta che la vediamo in viso, che ci possiamo difendere contro di essa; deliriamo di rabbia, non siamo più legati impotenti al patibolo, possiamo distruggere, uccidere a nostra volta, per salvarci, per salvarci e per vendicarci.
Aggrappati, ad ogni sinuosità del terreno, a riparo dietro ogni palo di reticolato, gettiamo nelle gambe degli assalitori bombe su bombe prima di ripiegare. Lo schianto delle granate a mano ci dà forza alle braccia, alle gambe; corriamo curvi come gatti, travolti da quest'onda che ci porta e ci fa crudeli, ci fa briganti, assassini, demoni magari, da quest'onda che moltiplica le nostre energie nell'angoscia e nella rabbia e nella sete di vita, e ci fa cercare e conquistare la salvezza.
Dobbiamo abbandonare le trincee più avanzate. Ma sono ancora trincee? Distrutte, annientate, non sono che rottami di trincee, buche, qualche pezzo di camminamento, qualche nido da mitragliatrice, nulla più. Ma le perdite degli altri si accumulano. Non hanno calcolato su tanta resistenza.
Mezzogiorno. Il sole scotta, il sudore ci abbrucia le palpebre, lo asciughiamo con la manica, spesso vi si mescola sangue. Spunta la prima trincea un po' meglio conservata: è occupata e preparata per il contrattacco, e ci accoglie. La nostra artiglieria interviene energicamente e arresta l'avanzata. Le linee dietro a noi si fermano; non possono avanzare. L'attacco viene sbocconcellato dalla nostra artiglieria. Noi stiamo in agguato. Il fuoco si sposta di cento metri in avanti e subito balziamo fuori di nuovo. Accanto a me, ad un caporale viene asportata la testa, di netto. Egli fa ancora alcuni passi avanti, mentre il sangue gli zampilla dal collo come una fontana.

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