"Il guerriero diligente" di Jean Paulhan

Segnaliamo un testo sulla Grande Guerra poco noto e piuttosto atipico, scritto da Jean Paulhan, "una delle figure più significative e più segrete delle lettere francesi tra le due guerre: critico, narratore, saggista, moralista e, come lui stesso preferiva definirsi, grammairien delle idee" (nota 1).  Nel 1914 il sergente Jean Paulhan, stanziato sul fronte francese, dedicò all'esperienza lacerante della guerra il breve ma straordinario scritto Le guerrier appliqué (Il guerriero diligente), pubblicato nel 1917 in Francia, uscito invece solo nel 2012 in traduzione italiana, presso l'editore Barbès , con il titolo Tre storie (in un volume purtroppo già fuori catalogo, che raccoglie anche altri due racconti "di guerra" dello scrittore).
Il  protagonista di questo testo è il volontario Jacques Maast, una sorta di sfuggente alter ego dell'autore (il quale non a caso utilizzerà il medesimo cognome, Maast, come pseudonimo quando dirigerà, assieme a Jean-Paul Sartre, la rivista «I tempi moderni»).  Jacques Maast, poco più che diciassettenne, giunto da poco al fronte, descrive la guerra attraverso "un flusso di idee, concetti e sensazioni prettamente interiori che contrastano con la brutalità dei fatti rappresentati" (nota 2). Scarse sono le informazioni pratiche - di tempo e di luogo - che fornisce al lettore, come sommamente ambigua è la sua opinione sugli avvenimenti che racconta. La guerra, a tutta prima, sembra inebriarlo, rappresentare, nella sua eccezionalità e negli stravolgimenti di valori che generava, una chiave privilegiata per leggere la propria interiorità e sondare il proprio sentire:
Dunque bisognava restare sotto la pioggia, con quel freddo interiore che impedisce di muoversi. Non so perché quell'ordine mi diede una gioia, dura come un colpo; poi un sentimento, dapprima incerto, che cominciò a sorgere in me, e che non era né insoddisfazione né inquietudine, nient'altro che un accenno di entusiasmo. Crebbe, in seguito, e m'invase tutto.
Ma si tratta di una guerra che, pur possedendo una notevole carica attrattiva, si rivela tuttavia anche sfuggente, confinata com'è non nel mondo reale ma in quello dell'interiorità, e destinata perciò ad essere visibile (ad esistere) solo nella pagina scritta. Una guerra i cui effetti devastanti si propagano inevitabilmente fin dentro il linguaggio. L'atto di raccontarla, così, è ben lungi dal rappresentare (come avviene per altri scrittori-soldato) il luogo della sua sublimazione o anche della sua catarsi. Diviene invece in qualche modo sovrapponibile alla guerra stessa: fare la guerra e scriverne è, per Paulhan, la medesima cosa. Un mero fatto linguistico. Al punto che, nel capitolo Com'è morto Glintz, la congiunzione con valore avversativo "però" diviene l'escrescenza che rivela segretamente la malattia, il simbolo della aleatorietà dei fatti e dei sentimenti, la chiave inaspettata per decodificare infine, stante l'elusività della legge di causalità che vige in battaglia, la morte di un compagno:
«So cos'è successo - mi dice Blanchet. Erano in tre a stendere fili di ferro, col caporale Delieu e Tolleron. Sono riusciti a riportarlo fin qui, si era preso una pallottola nel cuore. Ha detto soltanto: "Però muoio sul campo di battaglia"». «Perché "però"?» «Così; erano giusto a metà strada tra i tedeschi e noi. Avanzavano rasoterra, di sicuro non erano visti, ma quelli devono avere dei bravi tiratori. C'è stato un solo colpo, e se l'è preso Glintz». Blanchet mi parla pacatamente, senza mostrare trippa tristezza. [...] [Io] seppi della morte di Glintz con una certa sorpresa e, me ne rimproverai in seguito, con quella specie di soddisfazione che dà l'annuncio di un grave avvenimento. [...] Il dolore semplice e irreparabile che ci avrebbe dato, in tempo di pace, la morte di un amico, è certo che nessuno di noi lo provò. Forse avevamo allora l'impressione di entrare finalmente nella vera guerra pericolosa, e sentivamo nostro malgrado il piacere di un'attesa soddisfatta. Oppure, attraverso una riflessione più personale, avvertivamo vagamente che si era verificata una possibilità di morte, e che non era capitata a noi. Ma più sicuramente, provavo irritazione e rancore verso un antico rispetto per la vita, verso un attaccamento ai vivi e agli altri sentimenti che ci avevano ingannato, poiché non erano bastati e c'era voluto che venisse la guerra. Per la leggerezza che ne risultava nei confronti dei legami consacrati la guerra era per noi una sorta d'infanzia. [...] Delieu cominciava a dire che in fondo Glintz era stato forse colpito da un proiettile vagante, altrimenti i tedeschi avrebbero sparato di nuovo su Tolleron e su lui stesso. Cinque giorni dopo [...], abbiamo saputo la vera storia di Glintz. «Nella nostra compagnia sono stati fatti fuori tre uomini, più un altro poco fa» dice Delieu. «E nella loro non lo sappiamo. Quando ho visto Glintz ucciso così accuratamente, ho pensato: tira una brutta aria». «Quanto a Glintz - risponde Delieu con tono grave - non va detto. Lo abbiamo ucciso noi; è stato Pourril, della terza sezione. Non era stato avvisato che la pattuglia stava uscendo, lì per lì ha pensato che fossero tedeschi». «Ah - dice Caronis - però è morto sul campo». (Erano le stesse parole di Glintz).  «Comunque anche noi dei bravi tiratori». Avevo pensato la stessa cosa. Così la seconda morte di Glintz non ci turbava più della prima; anzi, benché atroce e tanto diversa da lui, essa ci rafforzava in questa specie di vita. 
Chiudiamo con un altro brano di questo libro, anch'esso connotato da un'accentuata ambiguità espressiva. Nel tratteggiare una scena di azione (la conquista di una trincea nemica), il narratore si avvale anzitutto di impressioni interiori, mostrando quasi in presa diretta, attraverso l'accostamento di descrizioni stridenti, le lacerazioni silenziose e profonde che la guerra produce nel teatro mentale del soldato.
Dunque avevamo infine raggiunto la nuova trincea; ma attraverso che sentieri e che rovi! Eravamo passati anche sotto delle gallerie, sguazzando in pozzanghere d'acqua e di ghiaccio. [...] Non sentivamo più cadere la neve; è perché è stata presa ieri che la trincea è ancora così sconvolta? E questi morti davanti al parapetto, sono tedeschi o nostri? Ci facciamo domande così, a caso. Poi ci mettiamo a scavare la terra sotto di noi e a spostare da un lato all'altro le feritoie. Un albero inclina su di me rami e foglie strane. È la vigilia di Natale. Ferrer non si accorge che ci sono due morti ai nostri piedi, contro la banchina; ma io, per accertarmene, tocco le loro mani rugose, come ci si tasta un arto intorpidito. La notte è ancora fitta.

Dario Malini
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Note

1) Jean Paulhan, Il segreto delle parole (a cura di Paolo Bagni)
2) Dall'introduzione al volume Jean Paulhan, Tre storie 

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