"La ritirata del Friuli" di Ardengo Soffici

Ardengo Soffici, ufficiale addetto all'ufficio propaganda della II Armata nel 1917, assisté in prima persona, dalle retrovie, agli eventi tragici che seguirono la battaglia di Caporetto. Nelle pagine de La ritirata del Friuli - Note di un ufficiale della II armata, descrive l'immane ritirata verso il Tagliamento e il Piave dei soldati e della popolazione civile, l'abbandono progressivo di paesi e città, il costituirsi infine di una linea di resistenza stabile.
Una delle ragioni che spiegano l'oblio in cui è caduto questo testo (non più pubblicato da decenni) è probabilmente da ricercarsi nella malaugurata (ma sincera) dedica a Cadorna e Capello, posta in grande evidenza dall'autore. Dedica che non può non indurre nel lettore un moto di fastidio, convincendolo d'essere alla presenza di un testo propagandistico. Certo, Soffici, fervente e appassionato interventista delle prime ore, a differenza di quasi tutti gli intellettuali che ne condividevano la fede guerresca, ancora nel 1918 non aveva smesso quelli che il ben più realista Giovanni Papini, scrivendo al nostro, aveva chiamato gli "occhiali del '14". A tale accusa, Ardengo rispose con queste parole:
Ora a me pare che non avessimo occhiali allora. La nostra visione era chiara e la nostra passione assolutamente pura e definitiva.
Ardengo Soffici, lettera a Papini del 7 febbraio 1918
Dunque l'impatto con la realtà della guerra non mutò le idee di Soffici il quale infatti restò sempre convinto della necessità della guerra, come delle qualità militari di Cadorna e Capello, anche dopo la rotta di Caporetto. Nonostante ciò La ritirata del Friuli conserva un alto valore, oltre che poetico e letterario, anche storico e sociale, ed è dunque un libro da non sottovalutare. Perché è un testo ambiguo fin nella sua ideazione che, pur fondandosi sul proposito di comunicare una precisa valutazione di ciò che era accaduto, vuole evitare programmaticamente qualsiasi giudizio precostituito sugli eventi di quei giorni, facendo dell'onestà intellettuale e dell'adesione alla realtà una questione di poetica. Quindi partiremo proprio da ciò per capire come Soffici si apprestasse a ragionare sulla disfatta di Caporetto.
«Dopo aver fatto in gioventù il giro delle teorie estetiche e corso la cavallina di molte pratiche e tecniche pittoriche, mi ritrovai un bel giorno (e fu nel riposo spirituale del fronte durante la guerra) ad accorgermi che non c'è nulla di meglio che stare alla realtà del mondo visibile e rappresentarla nella sua ingenuità poetica. [Arrivai a limitare] nell'artista il diritto alla sintesi (che è intervento di volontà stilistica) in favore della realtà nuda e cruda.»
Ardengo Soffici, Frontespizio (gennaio 1937)
Questa dichiarazione di poetica enunciata da Soffici per la pittura, è da ritenersi valida anche per la scrittura. L'esperienza della guerra segnò per l'artista un vero e proprio spartiacque che ne modificò totalmente le modalità espressive, convincendolo sulla necessità di fare arte senza ricercatezze o sperimentalismi, rappresentando invece semplicemente la "realtà nuda e cruda". Così, nei libri che dedicò alla propria esperienza al fronte  (dopo prove quali Arlecchino Giornale di bordo,  connotate da una prosa d'avanguardia di stampo anti-narrativo, che s'appoggiava sulla suggestiva malia del frammento), attuò un'immediata e consapevole metamorfosi stilistica; a partire dal Kobilek, uscito nel 1918 per raccontare la propria esperienza nel corso della battaglia della Bainsizza (ecco il link alla nostra recensione di quel libro). A proposito di Kobilek, Soffici dice:
Ho ritrovato un me stesso lontano, sono ritornato ad amare le cose semplici, i gesti parchi, le parole sostanziose. Il Kobilek segna il principio di questa mia rinascita; sentivo, scrivendolo, che non m’era possibile far delle frasi nel momento in cui, intorno a me, si moriva con tanta sublime rassegnazione. E appunto per questo Kobilek è un libro che tutti possono leggere.»
I libri del giorno (giugno 1920)
Nel 1919, come abbiamo visto, Soffici pubblicò La ritirata del Friuli (Note di un ufficiale della II armata), testo che porta alle estreme conseguenze le concezioni artistiche che stavano alla base dello scritto precedente. In una recensione del libro apparsa su I libri del giorno del settembre 1919 si dice:
Soffici ha scritto questo libro sulla scorta di appunti, in quindici giorni, nella sua casa di campagna. L'ha scritto con l'animo sgombro da qualsiasi preoccupazione e da qualsiasi impressione momentanea, in un momento felice della sua vita di artista e di uomo.
I libri del giorno (settembre 1919): recensione a La ritirata del Friuli
Dunque un libro scritto velocemente, sulla base di appunti presi "a caldo", conservandone la forma nativa di diario, nella probabile preoccupazione che una rielaborazione eccessiva ne inficiasse la freschezza, la verità. La narrazione prende l'avvio il 28 settembre 1917, a poco meno di un mese dall'attacco nemico, e termina il 19 novembre dello stesso anno, con la linea ricostituita sul Piave, rinsaldata e in grado di resistere. Ecco il brano d'apertura:
Cà delle Vallade, 28 settembre 1917
Sono seduto sulla porta della mia baracca, accanto al Comando del battaglione, stanco morto dopo la marcia di stamani e il lungo esercizio tattico per i boschi e i campi della collina di Fleana. Appena ora, dopo la mensa, ho avuto il tempo di nettarmi dal sudore e dalla polvere che coprivano la mia pelle abbronzata e i miei abiti. L'ombra delle frasche intrecciate a guisa di pergola sulla mia testa è un dolce rerefrigerio, in questo pomeriggio ardente, e si potrebbe dormire, come fanno i colleghi, e i soldati sdraiati sotto le tende, nei boschetti di quercioli qui intorno, appiè dell'impalancato accanto a me; ma fra poco sonerà l'adunata, e bisognerà portar fuori di nuovo la truppa. Preferisco godere di quest'ora di silenzioso riposo, ammirando a occhi socchiusi, di tra il fumo della mia sigaretta, il delizioso scenario che mi si spiega davanti. [...] Di pensiero in pensiero, contemplando questo spettacolo di bellezza e di vita, tanto nostra, arrivo alla solita riflessione intorno alla mostruosità del fatto che per secoli e secoli si sia potuto ammettere che qui fosse Austria. Il che mi fa benedire queste fatiche che ci sono imposte, e trovar santa la pazienza degli uomini che mi dormono intorno.
Ardengo Soffici, La ritirata del Friuli
Già da queste poche frasi si può notare una certa differenza di tono, una maggior spontaneità e naturalezza, rispetto al precedente libro di guerra. In particolare, l'utilizzo dell'indicativo presente segna una sostanziale linea di frattura con la cronaca al passato remoto del Kobilek, sulla via di una sempre maggiore aderenza a quell'ideale di rappresentazione della "realtà nuda e cruda"  maturata... 
...di fronte al quotidiano pericolo della morte e a contatto della grande anima del popolo che egli aveva fino ad allora ignorato. 
Marchiori Giuseppe, Ardengo Soffici su Emporium n° 508, 1937
Il punto di vista del resoconto è rigorosamente quello, ad un tempo privilegiato e insufficientemente informato, dal quale Soffici stesso assisté alla ritirata. Ed ecco che il dramma di Caporetto assume una grande efficacia narrativa, evidenziandosi fin da subito come un evento imperscrutabile nelle cause e nelle conseguenze. La cronaca, mancando di fatti certi, assume così l'aspetto della narrazione soggettiva, del racconto. Se le cause militari della disfatta non sono accessibili all'autore, almeno dal suo precipuo punto di vista di ufficiale, egli non può che indagarne soprattutto quelle morali: nei soldati e in se stesso. Paradossalmente, la forza di questo approccio è da ricercarsi nei suoi limiti che escludono la possibilità di fornire una lettura oggettiva della vicenda di Caporetto
Caporetto non è un episodio. È un fatto importantissimo che delimita due periodi storici. Un avvenimento eccezionale che formerà un capitolo a parte nella storia di domani. [...] Come è possibile ricostruirlo? La mente non vi si adatta. Non restano che i frammenti.
I libri del giorno (settembre 1919): recensione a La ritirata del Friuli
Ma se il significato di una vicenda tanto tragica e grandiosa non può che restare nascosto, inconoscibile a colui che vi è coinvolto, queste pagine in qualche modo ce lo avvicinano, ci permettono di rivivere direttamente di quei giorni alcuni momenti minimi e rivelatori:
Nei fossi, sui cigli si vedevano ogni pochi passi fucili abbandonati nella mota; zaini, elmetti, tascapani buttati lungo le siepi e nei campi. In alcuni tratti abbiamo camminato su un tappeto di coperte da campo inzuppate d'acqua seminate così dai soldati in ritirata. Tristezza, tristezza....
Ardengo Soffici, La ritirata del Friuli
E il senso segreto dei fatti e delle cose può forse oscuramente affiorare in questi  brevi incisi, sorta d'illuminazioni improvvise che vivificano di tanto in tanto la voce sensibile e controllata di Soffici, come nel brano seguente, posto giusto al termine del suo libro:
Sdraiato, quasi supino, nell'automobile in corsa, guardo fra i due filari di alberi lungo la strada, le stelle che precipitano in avanti trascinate in un fiume profondo di blu. Come le campagne corrono allato del treno in velocità, il cielo rotola sopra di me nella nostra corsa a precipizio. Dove le piante non hanno più foglie, le stelle piovono fra i rami neri.
Ardengo Soffici, La ritirata del Friuli
Ben lungi dal rappresentare soltanto un testo a tema, questa narrazione ci permette dunque di gettare uno sguardo originale sulle giornate che fecero seguito alla disfatta militare di fine ottobre 1917, talvolta anche a dispetto delle intenzioni dello stesso autore. 
Terminiamo proponendovi una pagina centrale nella riflessione di Soffici, una di quelle che ne evidenziano in modo forse troppo scoperto le tesi di fondo, vivificata tuttavia dal consueto stile ambiguo e modernissimo, ad un tempo lucido e smarrito, pacato e ricco di sussulti.
Porcia, 5 novembre.
Correndo nella fredda mattina verso la nuova meta, abbandonati stancamente nell’automobile, il maggiore Gonnella ed io parliamo con serenità. Questo napoletano giovane, intelligente, simpatico e che ho visto dacché io conosco lavorare con ardore e fermezza nelle più terribili congiunture, è il primo uomo competente col quale possa parlare a cuore aperto intorno al formidabile avvenimento. Egli sa molto, ed io pure so parecchie cose, ormai. Vediamo. Di che si tratta insomma? Il fatto primo, «la insufficiente difesa di alcuni reparti» lassù, non basta a spiegare la vastità dello sfacelo: tante altre volte, dappertutto, su tutti i fronti d'Europa, sono avvenuti episodi simili, ma sempre vi si è posto rimedio; noi come gli altri. Le condizioni materiali e morali dell’esercito; quelle di cui anch'io ho scoperto qualche ragione e qualche sintomo nella mia gita interrotta. Anche questo può illuminare un poco; ma non può essere in nessun modo una causa sufficiente. Errori di comando? Mancanza di energia? Di previsione? Ce ne saranno stati senza dubbio; ma non di tal misura da render necessario e naturale quello che è poi successo. Tutto ciò può avere avuto la sua influenza: ma nulla giustifica. Nulla. Possono essere state, quelle, cause concomitanti; ma la ragione vera? La ragione capitale? Guardiamo questi soldati che ci passano accanto, muti, timorosi di noi; ma che basta comandare per vederli precipitarsi a obbedire; che non dicono una parola, non fanno un gesto d'indisciplina. Che basterebbe fermare e dir loro: «qui ci si ferma, si combatte e non si cede e si muore» per vederli ridiventare quello che erano. Sono forse costoro dei vinti, dei disertori, dei rivoltosi, dei traditori? O sono, — diciamo la parola — dei vigliacchi? No. Basta vederli. Basta lasciare entrare la loro anima nella nostra. Sono delle vittime. Sono degli incoscienti. Sono degli illusi. E il male non è qui. Noi siamo il fiore, oggi languente, di una pianta che ha le sue radici nella miseria. Il male è nelle radici. Il male è laggiù sotto di noi: nell’ignominia di chi divide, di chi baratta, di chi mente, di chi mercanteggia. Di chi abbandona. Il male è dappertutto; ma non è qui. Qui si soffre soltanto. Non è la via dell' infamia, qui. È la via della croce. 
Ardengo Soffici, La ritirata del Friuli
Se il fante italiano, come scrive benissimo Isnenghi ne Il mito della grande guerra, assume inevitabilmente in Soffici la forma rassicurante del contadino-soldato buono e paziente, alacre e disposto a farsi guidare, tale paternalistica visione ideologica serve almeno a denunciare con chiarezza le colpe della classe dirigente negli eventi di Caporetto (contraddicendo la lettura che ne aveva dato Cadorna). 

Ma, al di là di tutto, a salvare La ritirata del Friuli sono, come detto, i lampi, le intuizioni sussurrate, le notazioni a margine, la ricerca di una prosa di alta qualità letteraria ma priva di ostentati artifici. Un approdo stilistico vitalissimo, foriero di importanti sviluppi nella narrativa italiana degli anni a seguire.

Dario Malini

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