Carlo Emilio Gadda, "Giornale di guerra e di prigionia"

Il Giornale di guerra e di prigionia è un testo controverso, forse il più enigmatico tra i libri di memorie dei soldati della Grande Guerra. Fa una strana impressione sfogliarne le pagine, tratte dai famosi taccuini scritti dal sottotenente degli alpini Carlo Emilio Gadda tra il 24 agosto 1915 e il 31 dicembre 1919, sensazione che nasce anzitutto dallo stravagante rapporto che con essi ha avuto l’autore nel corso di tutta la sua esistenza. Il quale decise di renderne pubblica una parte solo nel 1955, a quasi quarant’anni dalla fine del conflitto, curandone la pubblicazione con attenzione maniacale, nel rispetto più scrupoloso della lectio originale. Scrupolo abbastanza curioso se si pensa che gran parte dei libri di memorie di guerra consistono in più o meno articolate rielaborazioni letterarie di appunti presi a caldo.
In questo intervento, dedicato al tema della prigionia nel corso della Grande Guerra, ci occuperemo della sezione in cui l’autore tratta della propria cattura e della conseguente segregazione, dunque, essenzialmente del mitico quarto taccuino, che racconta il periodo che va dalla fine di ottobre 1917 (con gli eventi traumatici della battaglia di Caporetto) sino al 30 aprile 1918, data in cui troviamo Gadda nel lager tedesco di Celle, nello Hannover. Si tratta di pagine che lo scrittore non pubblicò mai in vita, da lui considerate tanto disturbanti (e al tempo stesso rilevanti) da essere destinate soltanto a una stampa postuma.
Giunto a questo punto, è lecito domandarsi cosa mai contengano di tanto particolare queste note gaddiane. La risposta la vorremmo lasciare allo stesso autore che ne Il castello di Udine, edito nel 1934, titola un intervento Impossibilità di un diario di guerra. Scrive dunque Gadda:
Il modo d’essere del mio sistema cerebro-spinale durante e dentro la guerra fu cosa a tal segno lontana dalle comuni, che credo possa giustificare il tentativo d’un breve resoconto materiato di fatti, i quali appariranno essere verità strane ed orride: e cionondimeno verità.
Quindi, appena di seguito:
Non sono stato un Remarque e nemmeno un Comisso. Ammiro questi, ammiro molti altri scrittori: e riconosco nelle mie notazioni «de bello» alcuna somiglianza or con l’una or con l’altra delle efficacissime loro: né dico ciò per voler captare a mio profitto alcuna briciola de’ meriti lautissimi d’altri, ma per significare a mia difesa alcuna comunione d’umanità con quelli e con altri. E allora anch’io, come tutti, son disceso con la sensazione e con il pensiero, cioè con il corpo e con l’anima, ai fatti perentorii e banali della vita di guerra: e alla brutale immediatezza di questi fatti ho riconosciuto valore di causa, da poi che a volte essi vennero motivando tutta una serie di altri fatti bruti e reali, prima ancora che la volontà e la ragione potessero. Ho visto la volontà sommersa dal caso, come una barca dalla risacca: e il chiaro pensiero onnubliarsi e dissolversi nella stanchezza: ho visto in altri e sentito in me.
Poi Gadda sembra finalmente scendere più in dettaglio, mostrare perché mai scrivere un diario di guerra gli sia impossibile:
Ho dunque facilmente riconosciuto anche alla guerra, e già conoscevo per altra esperienza d’altri disumani dolori, che certi fatti bruti, materia, cause, dite come volete, sono essi a volte i discriminanti delle cose reali più che non quelli (pensiero, volere) i quali pertengono alle attività dell’apice nostro e dovrebbero prepararci il dabben futuro, il dabben premio e la dabben vittoriuzza, secondo l’aspettazione dei più nobili cuori, e dei cervelli più sciocchi. Di tanto differiscono il presumere e il conseguire.
La banalità dei fatti bruti della guerra, dunque, ne definiscono la sostanza assai più degli ideali che l’hanno giustificata (e che l’hanno resa desiderabile) ai cuori più nobili.
Ho dunque annotato nel mio quadernetto anche le banali miserie: alle giornate, per me atroci, dell’ottobre del ’17, quelle che furono come la caduta del mio vivere in una vana e disperata sopravvivenza, il mio giornale registra un buon bagno dei piedi fra le sopravvenenti angosce e la muta ottusità delle nebbie: finalmente avevo trovato un paio di gavette d’acqua.
Una delle ragioni che determinano l’impossibilità del suo diario di guerra sarebbe quindi la mediocrità degli avvenimenti che vi sono narrati. Perché mai, si chiede l’autore subito dopo, non vi ho registrato invece fatti più rilevanti (“… la mortificante visione delle nostre artiglierie imbavagliate, a metà strada fra le postazioni antiche e le nuove, proprio al dì del pericolo?” ad esempio, riguardo alla battaglia di Caporetto)? E si risponde:
Ma io vi avevo onestamente preavvisato circa la pessima qualità del mio sistema celebro-spinale: il mio diario di guerra è una cosa impossibile.
La natura del nostro intervento ci spinge a lasciare a questo punto, certo prematuramente, Impossibilità di un diario di guerra, per andare ad affrontare vis à vis le note del Giornale di guerra e di prigionia. Subito ci si accorge che lo stile del sottotenente Gadda nulla ha a che spartire con quello fastoso che lo contraddistinguerà: la sua scrittura è qui invece straordinariamente secca e sintetica, fatta di frasi brevi e precise, volta, parrebbe, a segnare accadimenti immediati e concreti. Partiamo dal racconto della cattura di Gadda, avvenuta nel corso della battaglia di Caporetto. Pur considerando le tristi condizioni in cui venne registrata, non è possibile non rilevarne la laconicità:
Lasciammo la linea dopo averla vigilata e mantenuta il 25 ottobre 1917 dopo le tre, essendo venuto l’ordine di ritirata. Portammo con noi tutte le quattro mitragliatrici, dal Krašjj, all’Isonzo (tra Terranova e Caporetto), a prezzo di estrema fatica. All’Isonzo, mentre invano cercavamo di passarlo, fummo fatti prigionieri. La fila di soldati sulla strada d’oltre Isonzo: li credo rinforzi italiani. Sono tedeschi! Gli orrori spirituali della giornata (artiglierie abbandonate, mitragliatrici fracassate, ecc.). Io guastai le mie due armi. A sera la marcia faticosissima fino a Tolmino ed oltre, per luoghi ignoti.
Se altrove, in questo stesso taccuino, Gadda dedicherà alla battaglia di Caporetto uno specifico memoriale, sarà in vista, come egli stesso precisa, di contestare eventuali accuse. Ciò che più qui ci interessa è invece notare come l’episodio della cattura da parte tedesca venga sbrigato a tutta prima in un’unica frase, con un procedimento di disinteresse dei fatti più rilevanti ripetuto in più punti delle presenti annotazioni di guerra. Gadda non dipinge paesaggi ma una serie infinita di dettagli, di preferenza non  si sofferma sull'insieme ma sui particolari. Procediamo. I prigionieri italiani vennero subito trasferiti al campo di concentramento di Rastatt dove si fermarono sino al 28 marzo 1918. Nelle dolorose pagine in cui Gadda narra la sua penosissima permanenza a Rastatt, segnata dal freddo e dalla fame, si cercherà invano il racconto del dramma corale dei soldati italiani (di quei "vinti di Caporetto" le cui gesta altri cantarono con tutt'altro interesse e partecipazione), come invano si cercheranno i ritratti di qualcuno dei molti compagni di prigionia dell'autore. Si troveranno invece a profusione fatti minimi e descrizioni concrete:
7 novembre 1917. Continua la vita di ieri incominciata, nel campo di concentramento. Fame. Nel prato magro, uso Arena di Milano, baracche allineate: ognuna 100 ufficiali, cuccette sovrapposte: finestre. Tavole e sgabelli: 2 stufe. […] 13 novembre. La fame continua, terribile; jeri a cena 2 patate lesse; oggi un po’ meglio, a mezzodì: 1 mestolo di brodo e rape. 1 cucchiaio di brodo e pezzetti di merluzzo puzzolente.
Anche quando Gadda allarga l’orizzonte del suo scrivere, tratta soprattutto delle proprie sensazioni e pensieri: coloro che gli stanno accanto, all’apparenza, non esistono. 
Mie condizioni spirituali terribili, come nei peggiori momenti della mia vita, come alla morte di papà e peggio. Fine delle speranze, annientamento della vita interiore. Angustia estrema per la patria, per la mia povera patria, per la mia terra; pensiero fisso della Lombardia, del Lago di Como, della Valtellina, del Varesotto: terrore di vederli presi dai tedeschi? Comincia, ciò che finora era grave ma meno intenso, anche il pensiero della famiglia: intendo comincia nel senso terribile, angustioso, angoscioso, che già anche prima era fortissimo: la mamma adorata, il pensiero di lei sola e angosciata dal dubbio: la Clara sola a Milano! Ed Enrico, che sarà di lui? Dolore sopra dolore. [...] Così terribilmente finisce il mio ventiquattresimo anno di età, la triste sera del 13 novembre 1917.
Pare quasi che, nell’immaginario dell’autore, qualcosa, forse l’onta della sconfitta e della prigionia, non permetta alcuna reale fratellanza e condivisione del dolore. I compagni, nei pochi passaggi che vengono loro dedicati, sono esseri bruti, banali come i fatti della guerra che riempivano le pagine precedenti dei taccuini: 
Stetti parecchio presso la nostra stufa, nella nostra orrida prigione; i miei diciannove compagni di carcere non furono oggi più amabili del solito. La fame li rende pedanti, scontrosi, stizzosi; la naturale povertà d’animo li fa mancar d’amore e di rispetto alla patria; con la viltà del debole a cui la forza pare essere la sola cosa degna di rispetto, essi vituperano nelle loro chiacchiere la patria, la negano, la chiamano serva. E questo è un acuirsi del tormento morale: la compagnia malvagia e scempia è ciò che più mi grava le spalle.
Quanto distanti siano questi compagni reali dall'idealizzazione degli stessi, ritratti in un testo letterario vero e proprio, basta a dircelo il commosso ricordo ad essi dedicato in Compagni di prigionia (brano inserito ne Il castello di Udine):
Rivedo la baracca numero quindici, la luce sistematica di un giorno eguale: e i compagni scrivere e studiare l'inglese o rammendar panni: o rimestolar le loro poltre e i tenui imbratti delle lor salse sulla piccola cucina di ghisa. Salvatore, siciliano-milanese, calvo come una palla da biliardo e un poco sbilenco, cuocheggiava a tutt'andare dalla mattina alla sera, «sfottendo» di tanto in tanto qualcheduno, senza levar gli occhi di dosso al mestolante suo méstolo; serissimo, amenissimo.
Potremmo procedere oltre nell'analisi de Il giornale di guerra e di prigionia, testo ricchissimo di cose dette e non dette, ma ci fermiamo qui, cercando di dedurre dal poco finora analizzato una qualche convincente motivazione all’impossibilità di rendere pubblico il suo diario, che l'autore avvertiva come incontrovertibile. Si sottolinea come quanto segue debba essere considerata null'altro che una riflessione provvisoria, la quale non esaurisce certo la ricchezza e le ambiguità di un tale testo e di una tale poliedrica personalità d'autore. Detto ciò, senza altri preamboli, andiamo avanti. A noi pare che il diario redatto da Gadda durante i lunghi anni di battaglia e prigionia sveli sorprendentemente come la guerra vissuta (e raccontata in diretta), assai diversamente dalla metamorfosi che essa può subire attraverso l’arte o il pensiero, sia infarcita, oltre che di fatti mediocri, anche e soprattutto di avvenimenti orribili e brutali, capaci di negare gli ideali che l’hanno legittimata. E che, in un tale palcoscenico deprimente, si muovano di preferenza degli esseri vili, deboli, stizzosi: i soldati, i compagni, gli stessi superiori. I taccuini, dunque, disegnerebbero un quadro della guerra che non non era in alcun modo accettabile per l'autore, il quale, ancora nel 1934, si dichiarava convinto dei motivi che l'avevano determinata:    
Io ho voluto la guerra, per quel pochissimo che stava in me di volerla. […] E il mio giudizio circa la necessità della guerra è rimasto sostanzialmente coerente.
Ma la guerra reale, il sottotenente Gadda lo sapeva assai meglio del Gadda civile e scrittore, era cosa differente da quella immaginata. Così il suo splendido e illuminante giornale di guerra, dovette attendere lunghi decenni per raccontarci finalmente la sua impossibile verità.

Dario Malini


Su Gadda, vedere anche: I primi mesi di guerra negli scritti dei soldati italiani

1 commento:

  1. Amo Gadda il più grande narratore del nostro novecento anna

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