Gli scritti dei soldati della Grande Guerra e i memoriali del Risorgimento

Gli scritti dei soldati della Grande Guerra sembrano annunciare a gran voce, con una voce spesso spettrale, l’avvento della letteratura del Novecento. In questo intervento, in cui ci occuperemo esclusivamente dell’ambito italiano, evidenzieremo le novità di tali scritti mettendoli a confronto con i memoriali del Risorgimento, testi affini per tematica e riferiti a un periodo non troppo distante. 
Cominciamo con un brano che descrive il momento della partenza per la guerra del garibaldino Giuseppe Bandi e il suo incontro con Garibaldi, tratto dal testo autobiografico I Mille: da Genova a Capua, pubblicato postumo nel 1903.
Arrivai in Genova, con una gran pena nel cuore. Alla stazione di Busalla, un impiegato della ferrovia avea detto a voce alta: «Stasera parte Garibaldi».
– Parte stasera! – ripetei tra me e me. – Bella sarebbe, per Dio! che non giungessi in tempo, – pensavo – sarebbe bella, e non canzono!
E nella smania che mi prese, avrei voluto dire al macchinista: frusta i cavalli, e ti manderò in regalo un pezzo di Sicilia!
Quelle poche miglia mi parvero lunghe cento volte tanto, e invidiavo le ali agli uccelli.
Finalmente arrivammo. […] Mi volevo permettere il lusso d’una vettura di piazza, ma il prezzo che mi chiesero mi disanimò. Era proprio il caso di dire: quando non ce n’è, quare conturbas me? Rammentando allora di essere ufficiale di fanteria, e che il buon fantaccino dee marciare allegramente, pigliai con lieto animo la strada, e in un baleno giunsi alla villa. Avvicinandomi alla porta per suonare il campanello, udii un concento di voci festose, misto alle gioconde note del pianoforte. Suonai, mi fu aperto e salii su. Garibaldi era seduto a mensa con il figlio Menotti, col Vecchi, con Fruscianti, con Nullo e due altri che non rammento; una signora, che era la governante del padron di casa, era seduta al pianoforte e suonava l’inno di Mameli. […] Cantammo un bel pezzo, e cantò anche il generale, che parea lietissimo della sua risoluzione [di partire], e già annusava da lungi la battaglia, come il buon cavallo del libro biblico di Giobbe. […] Garibaldi aveva meditato alquanto, poi s’era alzato vivacemente dalla sua sedia, esclamando con voce sonora e piena di gioia: «Preparate tutto, andremo in Sicilia!»
A questo, contrapponiamo un brano notissimo, da Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu: l’incontro tra il protagonista e il generale Leone. Nonostante quest’opera (come, tra l’altro, la precedente) sia stata pubblicata a distanza di molti anni dai fatti che narra, nel 1938, resta un'importante testimonianza diretta della Grande Guerra e tale la considereremo all’interno del nostro discorso. Rapportando il brano in esame a quello di Bandi, risulta evidente il diverso modo di tratteggiare il rapporto tra comandante e sottoposti. Ciò va a delineare uno dei precipui caratteri che caratterizzano il sentire dei soldati della Grande Guerra, quella sorta di distacco, di alienazione che identifica una psicologia del tutto moderna.
Io lo incontrai la prima volta [il tenente generale Leone] a Monte Spill, nei pressi del comando di battaglione.
Il suo ufficiale d'ordinanza mi disse che egli era il nuovo comandante la divisione ed io mi presentai.
Sull'attenti, io gli davo le novità del battaglione.
Stia comodo, mi disse il generale in tono corretto e autoritario.
Dove ha fatto la guerra, finora? Sempre con la brigata, sul Carso.
E' stato mai ferito? No, signor generale.
Come, lei ha fatto tutta la guerra e non è stato mai ferito? Mai? Mai, signor generale.
[…] È molto strano.
[…] Per caso, sarebbe lei un timido? Io pensavo: per mettere a posto un uomo simile, ci vorrebbe per lo meno un generale comandante di corpo d'armata.
Siccome io non risposi subito, il generale, sempre grave, mi ripeté la domanda.
Credo di no, risposi.
Lo crede o ne è sicuro? In guerra, non si è sicuri di niente, risposi io dolcemente.
E soggiunsi, con un abbozzo di sorriso che voleva essere propiziatorio: Neppure di essere sicuri.
Il generale non sorrise.
[…] Ama lei la guerra? Io rimasi esitante.
Dovevo o no rispondere alla domanda? Attorno v'erano ufficiali e soldati che sentivano.
Mi decisi a rispondere.
Io ero per la guerra, signor generale, e alla mia Università, rappresentavo il gruppo degli interventisti.
Questo, disse il generale con tono terribilmente calmo, riguarda il passato. Io le chiedo del presente.
La guerra è una cosa seria, troppo seria ed è difficile dire se... è difficile... Comunque, io faccio il mio dovere. E poiché mi fissava insoddisfatto, soggiunsi: Tutto il mio dovere.
Io non le ho chiesto, mi disse il generale, se lei fa o non fa il suo dovere.
In guerra, il dovere lo debbono fare tutti, perché, non facendolo, si corre il rischio di essere fucilati. Lei mi capisce. Io le ho chiesto se lei ama o non ama la guerra.
Amare la guerra! esclamai io, un po' scoraggiato.
Il generale mi guardava fisso, inesorabile.
Le pupille gli si erano fatte più grandi.
Io ebbi l'impressione che gli girassero nell'orbita.
Non può rispondere? incalzava il generale.
Ebbene, io ritengo... certo... mi pare di poter dire... di dover ritenere...
Io cercavo una risposta possibile.
Che cosa ritiene lei, insomma? Ritengo, personalmente, voglio dire io, per conto mio, in linea generale, non potrei affermare di prediligere, in modo particolare, la guerra.
Si metta sull'attenti! Io ero già sull'attenti.
Ah, lei è per la pace? Ora, nella voce del generale, v'erano sorpresa e sdegno.
Per la pace! Come una donnetta qualsiasi, consacrata alla casa, alla cucina, all'alcova, ai fiori, ai suoi fiori, ai suoi fiorellini! 
Passiamo ora al momento cruciale di ogni guerra: lo scontro con il nemico. In questo brano, tratto dal diario di Giuseppe Cesare Abba Da Quarto al Volturno, del 1891, viene descritto lo scontro tra i soldati napoletani del Regno delle Due Sicilie e i garibaldini, nel maggio 1860. Si tratta di una scena altamente drammatica, ma, animata com’è da un ritmo scoppiettante e dall’evidente entusiasmo del narratore, diviene il racconto solare di una battaglia epica, all’insegna del patriottismo e del coraggio.
In quel momento, uno dei nostri cannoni tuonò dalla strada. Un grido di gioia da tutti salutò quel colpo, perché ci parve di ricevere l'aiuto di mille braccia. «Avanti, avanti, avanti!» non si udiva più che un urlo; e quella tromba che non aveva più cessato di suonare il passo di corsa, squillava con angoscia come la voce della patria pericolante.
Il primo, il secondo, il terzo terrazzo, su pel colle, furono investiti alla baionetta e superati: ma i morti e i feriti, che raccapriccio! Man mano che cedevano, i battaglioni regi si tiravano più in alto, si raccoglievano, crescevano di forza. All'ultimo parve impossibile affrontarli più. Erano tutti sulla vetta, e noi intorno al ciglio, stanchi, affranti, scemati. Vi fu un istante di sosta; non ci vedevamo quasi tra le due parti: essi raccolti là sopra, noi tutti a terra. S'udiva qua e là qualche schioppettata: i regi rotolavano massi, scagliavano sassate, e si disse che per sino il Generale ne abbia toccata una. A quell'ora mancavano già dei nostri molti, che intesi piangere dai loro amici: e vidi là presso, tra i fichi d'India, un giovane bello, ferito a morte, sorretto da due compagni. Mi pareva che si volesse lanciare innanzi ancora; ma udii che pregava i due fossero generosi coi regi, perché anch'essi Italiani. Mi sentii negli occhi le lagrime. Già tutta l'erta era ingombra di caduti, ma non si udiva un lamento. Vicino a me il Missori comandante delle Guide, coll'occhio sinistro tutto pesto e insanguinato, pareva porgesse l'orecchio ai rumori che venivano dalla vetta, donde si udivano i battaglioni moversi pesanti, e mille voci, come fiotti di mare in tempesta, urlare a tratti «Viva lo Re!»
Contrapponiamo a questa narrazione crepitante, una scena di battaglia tratta da Le scarpe al sole di Paolo Monelli, pubblicato nel 1921. Siamo evidentemente in un universo completamente dissimile. La nuova guerra (guerra industriale e spietata, dove il nemico è invisibile e a parlare sono quasi sempre le macchine) pare forgiare una scrittura tutta differente, interiore, quasi il baluginio dell’io solitario del soldato sprofondato nella trincea, che osserva inebetito ciò che lo circonda.
Bombardamento. Ora siamo avvolti nella nuvolaglia degli scoppi […]. I colpi picchiano il sasso, sgretolano le rocce, le schegge partono moltiplicate. […] Bocconi sul terreno nell’angoscia che non si scava sotto il nostro desiderio per crearci attorno un riparo sufficiente, offerta all’acqua alla neve alla granata, distesa di corpi sulla cresta flagellata dal vento, martellata dalle mitragliatrici. Il giorno non ha ritmo di luce: un uguale crepuscolo dall’alba alla sera; non ha altre cesure che la ripresa del bombardamento preceduto da un ansimante cigolio – tutta l’anima tesa per non pensarlo, per non vivere questa agonia dell’attenderlo – arriva e scoppia il 321. Tutta la cima trema, crolla, s’impenna. Troppo grossi, questi proietti, per questa lama di ghiaccio e di roccia, così romantica iermattina dal basso nel velo dell’alba!
Potremmo continuare a lungo, proponendo molte altre situazioni ed esempi, ma ci fermiamo qui. Crediamo di aver espresso la nostra tesi. La quale, sia ben chiaro, non vuole dimostrare derivazioni dirette tra la letteratura di guerra e la letteratura italiana del Novecento (Svevo, il Pirandello drammaturgo, Tozzi, Bacchelli, il D’Annunzio di Notturno, ecc.), bensì dare il senso della metamorfosi che l’evento dirompente della Grande Guerra ha generato, producendo un clima culturale del tutto nuovo e, dunque, un uomo e una letteratura che guarda alla realtà in maniera del tutto differente. Al tempo stesso, vorremmo stimolare un ripensamento critico riguardo alla memorialistica della Grande Guerra, al fine di rimuovere alcuni di questi testi (come, ad esempio, il citato Le scarpe al sole di Paolo Monelli) dagli angusti confini tradizionalmente assegnatigli: non “letteratura di guerra” ma, semplicemente, letteratura.

Dario Malini

Nessun commento:

Posta un commento