Il primo autunno di guerra

“Le trincee dove sono?” domandò un giovane ufficiale appena arrivato sul San Michele nel novembre del 1915. “Trincee, trincee” fu la lapidaria risposta. “Non ci sono mica trincee. Ci sono dei buchi”.

            Dopo le prime due infruttuose “spallate” isontine i problemi da risolvere erano ormai ben evidenti.  Il governo non aveva fornito i mezzi necessari allo sfondamento delle linee nemiche,  le scarse risorse non venivano utilizzate a dovere, chi giungeva al fronte era stato poco e male addestrato. Un altra situazione difficile e complessa era poi costituita dalle riserve. L'Alto comando si rese conto che gli assalti dovevano essere supportati da fanti pronti a saltar fuori dalle trincee prima che gli austriaci organizzassero il contrattacco ma, per concentrare molte riserve in seconda e terza linea, i camminamenti andavano fortificati perché scoperti in molti punti. Ebbene, si continuò solo ad ammassare, come munizioni, uomini il più possibile vicino alla zona di scontro senza preoccuparsi di proteggere i soldati dalla buona mira dell'artiglieria nemica.
            Cadorna iniziò a rendersi conto che il conflitto non sarebbe stato breve. “La guerra è lunga durerà tutto il '16” scrisse al figlio il 14 agosto del 1915. Svanita l'illusione di una campagna lampo e temendo la reazione del popolo una volta svegliato da quel sogno le istituzioni, sollecitate anche dagli Alleati, avvertirono il Capo di Stato Maggiore che la nazione aveva bisogno di risultati evidenti prima della fine dell'anno. E così il comando pianificò, ancora una volta su tutta la linea da Caporetto al mare, un nuovo attacco con l'obiettivo di conquistare la città di Gorizia. All'improvviso Cadorna, che solo due mesi prima aveva immediatamente scaricato tutte le responsabilità degli insuccessi su un centinaio di ufficiali superiori e sulla classe politica, ora credeva che Gorizia e i suoi quindicimila abitanti sarebbero sicuramente caduti nelle sue mani; “sfonderemo l'universo” annunciò  al figlio sempre nella medesima missiva di agosto, convinto che le masse d'artiglieria fossero a quel punto sufficienti per una nuova e questa volta fruttuosa avanzata.
            L'offensiva iniziò il 18 ottobre e per tre giorni incessanti bombardamenti martellarono i reticolati austriaci   che tuttavia non subirono gravi danni perché l'artiglieria italiana era ancora costituita da pezzi da 75 mm inadeguati allo scopo. Il giorno 21 quando gli italiani uscirono all'attacco convinti di conquistare terreno  furono maciullati dalle mitragliatrici nemiche. 
            Nel frattempo la promiscuità delle trincee provocò una grave epidemia di colera che mise a dura prova tutta la logistica dell'apparato sanitario militare e che causò, tra le truppe operanti sul Monte San Michele e nella zona di Monfalcone, un numero di ammalati e di decessi particolarmente alto (oltre 100 morti al giorno). I  continui spostamenti dei reparti impedirono l'organizzazione della profilassi e delle vaccinazioni favorendo, nel giro di poco tempo, il contagio nelle trincee, nelle retrovie e tra la popolazione civile. 
            Mario Isnenghi e Giorgio Rochat ne “La Grande Guerra 1914-1918” hanno affrontato il problema dell'efficacia  dell'intervento sanitario italiano nel corso del primo conflitto mondiale. Confrontando l'elevato numero di decessi rispetto ai francesi i due autori sono giunti alla conclusione che il rilevante divario di morti tra i due eserciti, condotti a combattere sui rispettivi fronti un'analoga guerra offensiva, fu provocato dall'eccessivo sfruttamento delle truppe imposto da Cadorna nel corso degli attacchi carsici (scarsa alimentazione, lunghe permanenze in prima linea e quindi poca attenzione al riposo dei soldati, inadeguate condizioni igieniche).     
 
            Le ripetute cariche contro il monte Sabotino, il San Michele o il Sei Busi riuscirono solo a scalfire la linea difensiva austriaca senza squarciarla e così, la sera del 4 novembre, il Comando Supremo ordinò alla seconda e terza armata di sospendere le operazioni. A questo punto però Cadorna era convinto che il nemico fosse sul punto di crollare e, confidando nell'arrivo di truppe fresche, dopo una sola settimana di sosta, il 10 novembre del 1915, ordinò l'inizio della quarta offensiva. Il copione fu  sempre lo stesso: qualche lembo di terreno conquistato a prezzo di enormi perdite. Il generale Capello, comandante del VI corpo d'armata, inviò dopo pochi giorni dall'inizio degli scontri un rapporto al generale Frugoni capo della seconda armata. Nella lettera era ben chiaro che, in quelle condizioni, le truppe italiane non avrebbero ottenuto alcun successo: “Il rancio quando arriva in trincea è freddo e la razione incompleta, ed il soldato, che vive da giorni assiderato nel fango delle trincee e dei ricoveri franati che non offrono più alcun riparo, non potendo ristorare le forze con un rancio caldo e abbondante, si accascia e perde sempre più vigore. Per mia constatazione ho visto non degli uomini, ma dei pezzi di fango ambulanti, che faticosamente si trascinavano verso il nemico. Ad essi non mancava la volontà di camminare ma mancava la forza fisica”. 
            Il cinismo dell'Alto Comando non volle fermare quel massacro tanto che il 23 novembre si ordinò  alla Brigata Modena e alla Salerno un'offensiva sul Monte Mrzli, nell'area attorno a Tolmino. Per il freddo ormai intenso molti soldati, causa il gonfiore ai piedi, non riuscivano più a calzare gli scarponi, il fango impediva i movimenti e l'equipaggiamento in dotazione alle truppe non era adeguato ai rigori dell'inverno. Così si esprime un giovane alpino ligure in una sua lettera spedita alla madre il 17 novembre 1915: “....di regola costì è tutti i giorni dai 12 ai 15 gradi sotto zero tanto che il pane che ci danno e tanto gelato che non si può rompere col coltello perché non ci entra nemmeno dentro. Lasciamo perdere per ora questi pensamenti perché intanto non puoi immaginarti a che stati siamo per quanto ti spieghi”. A quel punto alcuni ufficiali superiori    mostrarono dubbi nel continuare gli assalti ma Cadorna  non volle fermare le operazioni. D'altronde non spostandosi quasi mai dal quartier generale di Udine per avventurarsi nei luoghi dei combattimenti come avrebbe potuto  prendere coscienza che, in quel momento, le  tragiche condizioni umane nelle trincee suggerivano, senza esitazione, di interrompere la battaglia? Il 2 dicembre  le operazioni terminarono per sfinimento. I modesti guadagni erano costati, in poco meno di due mesi, oltre 18mila morti, 78mila feriti e quasi 20mila dispersi. Stesso risultato anche per le offensive franco-inglesi nella regione della Champagne e nell'Artois. E' indubbio quindi che nel 1915 gli scontri sul fronte occidentale e su quello orientale vennero organizzati e condotti in base agli stessi concetti (attacco frontale) e fallirono per cause e circostanze analoghe. Per questo oggi molti difendono le scelte di Cadorna perché generale “figlio del suo tempo”, trascurando tuttavia un particolare annotato da Emilio Faldella nel libro “La Grande Guerra”: “......le difficoltà che incontravamo noi italiani per attaccare ascendendo sui ripidi pendii dei monti intorno a Tolmino, sul Sabotino, sul Podgora, sulla pietraia del ciglione del Carso, erano ben superiori a quelle che dovevano superare Francesi e Inglesi, che attaccavano in terreno pianeggiante o appena collinoso, sia pure in alcuni settori acquitrinoso”. Cadorna quindi  ignorò le elementari leggi della fisica e, a differenza degli altri comandanti , pretese, con ordini assurdi, ripetuti assalti alle postazioni nemiche anche quando ogni logica lo sconsigliava.
            Dopo la sanguinosa quarta battaglia il corrispondente berlinese Karl von Wiegand così si espresse in merito alla guerra sull'Isonzo: Sono ritornato in Germania col cuore gonfio di ammirazione e di stupore per le magnifiche qualità e il meraviglioso impeto del soldato italiano. Bisogna tributare onore e rispetto al nemico per il suo eroismo e il suo coraggio”.   Dal Comando Supremo  nessun elogio a chi, come testimoniato dal generale austriaco Krauss, “in 47 giorni aveva attaccato quindici volte il Sabotino, quaranta il Podgora, trenta Oslavia”. Agli italiani, a differenza degli altri eserciti dove a ridosso della prima linea si organizzavano spettacoli e divertimenti, non erano  concesse  divagazioni.  Cadorna continuava a concepire il soldato come un robot che doveva solo obbedire e a cui venne perfino proibito di cantare e suonare “per rispetto ai morti”.  
Giancarlo Romiti


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