I film francesi e tedeschi sulla Grande Guerra negli anni Venti e Trenta

I film francesi sul tema della guerra, prodotti negli anni Venti e Trenta, oscillano tra opere documentariste di esaltazione patriottica e film di finzione.
Al primo gruppo appartiene, ad esempio, l’operazione di glorificazione militare di Verdun, visions d’histoire (Verdun, visioni di storia) di Léon Poirier (del ’28), già autore di commedie, esentato dal servizio militare per ragioni di salute e arruolatosi come volontario(1).

Nel secondo gruppo possono invece essere comprese opere quali Les Croix de Bois (Le croci di legno) di Raymond Bernard (prodotto nel 1932), ambiziosa pellicola d’impianto pacifista che intendeva mettere la nazione di fronte alla dura realtà delle trincee della Prima guerra mondiale. Girato nei reali luoghi delle azioni, ricostruisce con scrupolosa attenzione le scene di battaglia, mostrando - malgrado i tagli della censura e un un certo numero di sovrimpressioni a volte retoriche - la visione degli scempi, delle devastazione e dei corpi. Il film rende tuttavia più accettabile - meno terrorizzante - per lo spettatore tale disturbante spettacolo attraverso un approccio narrativo d’origine letteraria e l'utilizzo dei volti familiari di diversi attori famosi.

Esce nel 1937 La grande illusion (La grande illusione) di Jean Renoir, uno dei più famosi e celebrati film sulla Grande Guerra. Alcuni giovani soldati fanno da contorno, da "coro", alla vicenda dei protagonisti, d'età più adulta: i due piloti francesi - il tenente Marechal (Jean Gabin) e il suo superiore capitano de Boeldieu (Pierre Fresnay) - catturati dall’aristocratico asso tedesco von Rauffenstein (Eric von Stroheim). Strutturato in tre parti (le prime due ambientate all’interno di due differenti campi di prigionia, del cui filone - vero e proprio genere bellico - rappresentano il prototipo e l’apice; e l'ultima, riguardante la fuga di due tenenti), il film contiene  un nucleo drammatico tra i più suggestivi di tutto il war movie (della Grande Guerra e non solo)l’opposizione tra una concezione cavalleresca e aristocratica della guerra, ed una invece “moderna”, all'interno della quale predomina l'utile e il senso dell’onore diventa obsoleto se non del tutto superfluo. Si tratta di una delle molte "grandi illusioni" disvelate dalla pellicola: quella del perdurare, nella guerra moderna, dei valori della nobiltà dell'Ottocento. 
Il film varia sapientemente i toni della narrazione, proponendo con accortezza qua e là delle scene di sospensione drammatica, come quella dell'arrivo al campo di indumenti femminili e, soprattutto, la scena finale in cui la pattuglia di frontiera tedesca, scorgendo Marechal e Rosenthal appena sconfinati in Svizzera, puntano i fucili ma poi non premono il grilletto, riconoscendo il valore ideale di quella linea immaginaria. 
L’interesse del film, la sua «genialità» consiste nel saper indagare con grande efficacia i perversi meccanismi interni e l'inutilità della guerra, mostrando in modo assolutamente convincente la natura illusoria di molti dei "valori" che ad essa di norma si attribuiscono: il cameratismo, il senso del dovere, il sacrificio. La guerra viene così presentata come una “grande illusione” che porta distruzione (e autodistruzione) e tormento in coloro che credono in essa (i due ufficiali adulti su fronti opposti), ma salva chi riesce a guardare più in là (i giovani fuggitivi, una vedova di guerra) (2).

Fra i film tedeschi degli anni Venti non si può non ricordare, per la simbologia e i richiami alla guerra, Dr. Mabuse, der Spieler (Dr. Mabuse) di Fritz Lang. Il protagonista di questa pellicola, incarnazione del male assoluto e possente personificazione del nichilismo moderno, ipnotizza, affascina, plagia i giovani reduci, facendo ricorso alla “volontà di potenza”, allo “spirito di dominazione”, alla “sovranità dei potenti del mondo” che essi avevano sperimentato nella guerra. L’autore sfrutta tutti gli elementi del serial d'avventura, costruendo una rappresentazione realistica della Germania uscita dalla sconfitta della Prima guerra mondiale e alla presa con i burrascosi inizi della Repubblica di Weimar (3).
Altro film tedesco di quel periodo è Heimkehr (Il canto del prigionierodi Joe May, del 1928, dramma «realista» della vita di trincea nella Grande Guerra, emblema del tardo periodo weimeriano.


Del 1930 è Westfront 1918 (Westfront) di G. W. Pabst il quale, adottando uno stile più sobrio e spoglio rispetto ai suoi precedenti melodrammi,  costruisce un film “guerresco” e “patetico” - in senso nobile -, che segue le tragiche vicende di alcuni giovani fanti tedeschi in Francia, negli ultimi mesi della guerra. Il film tocca gran parte dei temi canonici delle narrazioni sulla Grande Guerra: la totale disillusione degli uomini, che trovano conforto solo nella camaraderie; l’odio per gli alti comandi; il senso di estraneità nei confronti dei civili; la sostanziale solidarietà con il nemico, vittima anch’esso del vero avversario, ossia la guerra stessa, il «terribile Moloch moderno»; l’eterogeneità geografica e sociale dei reparti, di cui fanno parte il bavarese, il prussiano, lo studente, l’ufficiale. La rappresentazione della guerra di trincea di Westfront 1918 rende bene la sensazione di intrappolamento cui sono costretti i soldati d'ambo i fronti, possedendo il medesimo crudo realismo del notissimo film americano All Quiet on the Western Front (All'ovest niente di nuovo) di Milestone, che è tra l'altro dello stesso anno: il fango, i pidocchi, i feriti che urlano nella terra di nessuno, gli incessanti lavori di scavo (4)


Stefano Cò



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Note:
1) Del film di Poirier venne fatta una riproposta (sonora e con molte scene nuove) tre anni dopo come Verdun, souvenirs d’histoire: per l’autore, i suoi film e la sua biografia, anche come volontario di guerra, vedi la scheda di Vittorio Martinelli in Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. III, Einaudi, Torino, 2006, pp. 79-80; per il film come risposta francese ai film di Pabst e Milestone dell’anno prima vedi la scheda sul regista di Vittorio Martinelli in Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. I, cit., p. 161 e sulle contraddizioni del cinema francese degli anni ’30 tra realismo filmico e “familiarità”, vedi il capitolo “I temi sociali di questo cinema” del saggio di Dudley Andrei, “Cinema francese: gli anni trenta”, in L’Europa. Le cinematografie nazionali, vol I, op. cit., pp. 466-472.
2) Per una interessante breve sintesi sul film, e soprattutto una serie di fotogrammi riassuntivi vedi la scheda del film in Roberto Nepoti, Guerra. I Dizionari del Cinema, Electa /Accademia dell’Immagine, Milano, 2010, pp. 104-109 e una intensa lettura in Claudio G. Fava, Storia del cinema. GUERRA IN CENTO FILM, Le Mani, Recco (GE), 2010, pp. 22-24.
3) Per un’analisi del film di Lang come simbolo ed espressione del clima del tempo, della sua interpretazione come «sintomo» della “volontà di potenza” e di dominio che sfocerà nel regime nazista, usando anche le radici ideologiche e culturali dei reduci dalla Grande Guerra, vedi la sintesi di Monica Dall’Asta, “La diffusione dei film a episodi in Europa”, in L’Europa. 1. Miti, luoghi, divi, op. cit., pp. 306-308 e soprattutto l’analisi dettagliata in Sigfried Kracauer, Cinema tedesco. Dal “Gabinetto del dottor Caligari” a Hitler, Feltrinelli, 1977, ora edizione riveduta e corretta come Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Lindau, Torino, 2007 e Lotte Eisner, Lo schermo demoniaco, Editori Riuniti, Roma, 1983, nuova edizione 1991; Il canto del prigioniero fu un tentativo, riuscito, del regista Joe May e della casa di produzione nazionale tedesca UFA di rinnovamento cinematografico e narrativo nello “sfruttare” le innovazioni avanguardistiche della «Neue Sachlichkeit» (Nuova Oggettività), vinse l’Oscar ’29 come miglior film straniero e lanciò anche una diva come Dita Parlo; per la parte di May nel cinema tedesco, e poi la sua rmigrazione negli USA vedi la scheda sul regista di Giovanni Spagnoletti, in Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. II, pp. 531-32.
4) Westfront fu un grande successo in tutta Europa e soprattutto in Spagna e Francia; per una dettagliata analisi delle scene belliche del film, sia dal punto visivo che dall’importanza di quello sonoro, vedi Giaime Alonge, Cinema e guerra. Il film, la Grande Guerra e l’immaginario bellico del Novecento, UTET, Torino, 2001, pp. 148-151; per una rivalutazione del film, l’importanza dell’uso dell’estetica dell’Oggettività e l’utilizzo di immagini dall’aspetto documentaristico, una breve sintesi delle scene di follia e delirio dei giovani soldati e un fotogramma esplicito vedi Roberto Nepoti, Guerra. I Dizionari del Cinema, op. cit., pp. 172-73. Anche il film seguente di Pabst del 1931, La tragedia della miniera, fa vari riferimenti alla Grande Guerra, raccontando di un gruppo di minatori tedeschi, i quali – nel dopoguerra - vanno a salvare dei colleghi francesi, intrappolati in una miniera vicina, a cavallo del confine tra i due paesi e per effettuare l’opera di soccorso rimuovono la grata che, sottoterra, in corrispondenza della frontiera, divide le due parti della miniera; l’operazione ha successo così gli operai tedeschi e francesi festeggiano insieme la loro unione: «Ci sono solo due nemici: il gas e la guerra!», grida uno di essi. Molti dei personaggi poi sono ex giovani combattenti, tant’è che a un certo punto un minatore francese, ferito e stremato dalla fatica, quando sente le voci dei tedeschi che si stanno avvicinando per salvarlo, crede di essere di nuovo al fronte e inizia a delirare. Alla fine, la solidarietà tra minatori sembrerebbe aver riportato la pace tra i due popoli; ma l’ultima scena non finisce con una festa, mostrandoci invece funzionari e militari dei due paesi che rimettono di nuovo “al suo posto” la grata che segnava il confine sotterraneo: l’“internazionalismo proletario” ha vinto, ma si è trattato solo di una vittoria momentanea.

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