XII battaglia dell'Isonzo: alla deriva in uno stupore catalettico

Quartier generale di Udine, sera  del 24 Ottobre.  “…..se le truppe mi cedono come le mura di Gerico alle trombe non so che farci. Se succede un disastro daranno la colpa a me! Io di più non potevo fare, ho fatto più del possibile: ho tratto dal nulla un esercito e ora non posso sostituirmi a due milioni di soldati dei quali la maggior parte non ha voglia di battersi”. Cadorna getta la prima pietra del suo monumento difensivo: se si perderà la colpa sarà dello sciopero dei soldati. 
Gianni Rocca, Cadorna il generalissimo di Caporetto
Dopo l’undicesima battaglia il Comando germanico, preoccupato per un  nuovo possibile  arretramento degli imperiali, decise di inviare sette divisioni in aiuto dell’Austria. I tedeschi, agevolati anche dal maltempo, furono abili a mascherare  la massiccia concentrazione di uomini e materiali nella valle dell’alto Isonzo. Gli spostamenti  avvennero di notte, le truppe vestirono solo divise austriache, vennero impartiti via radio ordini fasulli  e soprattutto venne adottata una nuova tattica già sperimentata sul fronte russo: attacco ai  punti  deboli e penetrazione nelle retrovie.  Si decise dunque di abbandonare la solita tecnica, che puntava ad impadronirsi delle cime montuose, per conquistare invece in un solo colpo  l’intero schieramento nemico.  
Il piano d’irruzione da Plezzo a Tolmino era nato da un ardito concetto del generale di fanteria Alfred Krauss, comandante del gruppo schierato a nord, e aveva finito con il riscuotere anche l’approvazione del generale Otto von Below: contro il principio, sino allora considerato sacro, che l’offensiva in montagna doveva partire dalle alture dominanti, stavolta l’attacco sarebbe stato sferrato in maniera da irrompere sulle posizioni del fondovalle, eludendo e, se possibile, accerchiando i crinali presidiati dal nemico.
Fritz Weber, Dal Monte Nero a Caporetto
A fine settembre  il Servizio Informazioni  del Comando Supremo prese atto di strani movimenti di truppe antagoniste, concludendo tuttavia, in maniera ottimistica, e in linea con il pensiero del Capo, che, almeno per il momento, nulla di rilevante  sarebbe accaduto  sulla fronte Giulia.
Il 2 Ottobre la presenza di soldati tedeschi venne confermata  da alcuni disertori , mentre il giorno 13  Cadorna, dai primi del mese in congedo a Vicenza, ricevette dal quartier generale di Udine la notizia che l’offensiva nemica nei pressi di Tolmino era ormai “molto probabile e prossima”. Ma il generalissimo solo il 19 Ottobre, “calmo riposato e tranquillo”, decise di tornare a Udine;  era  ancora convinto che l’attacco sarebbe iniziato “nel  venturo anno”. 
Il 21 Ottobre altri due fuggiaschi  si consegnarono agli italiani informandoli che nei pressi di Plezzo si erano concentrate parecchie divisioni tedesche per tentare, di lì a breve, lo sfondamento delle linee difensive. Anch’essi vennero ignorati. Gatti racconta che alla mensa ufficiali si parlò molto dell’offensiva,  ma in tono ironico:  “A tavola scherzavamo, dicendoci: quando verrà quest’offensiva?”  L’intero Comando era convinto che gli austriaci sarebbero stati folli a muoversi  da quel settore: “Che vogliano cacciarsi nella conca di Plezzo – disse Capello – non ci credo. Ma poi, vengano pure. Li prenderemo prigionieri e li manderò a passeggiare a Milano per farli vedere”. Dunque: nel mese di Ottobre diversi furono gli indizi e le informazioni su una prossima offensiva, ma vennero tutti  trascurati o minimizzati.  
                
Prima dell’alba del 24 le batterie nemiche iniziarono a martellare lungo un fronte di trenta chilometri, tra Plezzo e Tolmino.  I tedeschi,  dopo aver annientato l’artiglieria della Seconda Armata,  spararono granate con un nuovo gas asfissiante a base di fosgene e defenilcloroarsina.  Le maschere dei fanti italiani proteggevano dal gas a base di cloro, ma non da questo. Oltre settecento uomini della Brigata Friuli morirono senza che nessuno se ne accorgesse: Gli osservatori sul lato opposto della conca – scrive Mark Thompson in La Guerra bianca – controllarono attentamente le postazioni, videro i soldati ai loro posti e riferirono che l’attacco era fallito.  Dopo diverse ore di fuoco nell’ufficio del generalissimo si parlava ancora di “molto fumo e poco arrosto” e non stupisce quindi che il col. Gatti in serata fosse al cinema scoprendo  solo al suo ritorno, intorno alle 22,  che la realtà era ben diversa.                               
L’infiltrazione avvenne  così rapidamente che le divisioni tedesche già al pomeriggio del 24  entrarono  a Caporetto, pronuncia italiana del villaggio sloveno di Kobarid (Karfreit per gli austriaci).  Tra le fila del regio esercito qualcuno combatté  coraggiosamente per rallentare l’avanzata, qualche ufficiale diede prova di sangue freddo e fece ripiegare i suoi uomini in buon ordine, altri gettarono le armi e fuggirono. A quel punto il caos nel  quartier generale di Udine  fu totale.
Cadorna era esitante tra l’idea di contrastare l’avanzata e quella di predisporre un immediato arretramento. Solo alle prime ore del 27  ordinò  di ripiegare fino al Tagliamento. Nel pomeriggio della stessa giornata il Comando Supremo venne trasferito da Udine a Treviso. Il fronte dell’Isonzo cessava di esistere.                
Il 28 Cadorna  annunciò la disfatta attraverso un comunicato che gettava fango e infamia sui soldati della  Seconda Armata “vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico”.  Fu l’inizio di un profondo dibattito sulle responsabilità della rotta, che si è trascinato fino ai giorni nostri, producendo un’immane quantità di carta stampata a partire dai lavori della Commissione d’Inchiesta pubblicati nel 1919.                
La  mancanza di un valido piano per una ritirata  permise dopo pochi giorni ad un paio di divisioni austro tedesche di attraversare in due diversi settori  l’alto Tagliamento.  A quel punto, per evitare l’accerchiamento  della Seconda e Terza Armata,  Cadorna, il 4 novembre,  decise di  far arretrare i suoi uomini fino alla linea del Piave.  Luddendroff, Capo di Stato Maggiore  tedesco,  era convinto che in quel momento l’offensiva avesse raggiunto l’obiettivo finale e  solo verso metà novembre cominciò a considerare  l’idea di spingere  i nemici oltre il Brenta e oltre Venezia.  Questa esitazione permise agli italiani di consolidare le linee sul Piave e sfruttare l’aiuto delle divisioni alleate che stavano giungendo dal fronte occidentale.  “Alla fine la grande vittoria non fu consumata” scrisse più tardi Paul von Hindenburg, comandante capo dell’esercito teutonico  e nell’occasione austriaci e tedeschi si mostrarono privi di “mentalità annientatrice” (Piero Pieri).
                
In un clima di tragedia e sfascio i capi politici e militari dell’Intesa decisero di ritrovarsi per concordare una nuova strategia di guerra.  E così la sera del 5 novembre, in una sala a pian terreno dell'Hotel Kursaal di Rapallo, si tenne una conferenza cui parteciparono  i rappresentanti dei governi francese, inglese e italiano. Unico assente, Cadorna. Il suo smisurato orgoglio e il timore di dover affrontare delle critiche, sapendo  benissimo che in quell'incontro il suo ruolo e il suo operato sarebbero stati messi in discussione, furono alla base della sua decisione di non presentarsi. Forse anche per questo durante la riunione gli onorevoli Orlando e Sonnino, con i  generali  Alfieri e  Porro,  vennero lasciati fuori dalla porta (“ci hanno trattato come servitori” si lamentò Orlando) mentre i loro colleghi mettevano a punto un nuovo piano che venne comunicato il giorno dopo con un ultimatum: con Cadorna al comando niente aiuti. Considerato il maggior responsabile della sconfitta, il generalissimo fu sostituito da Armando Diaz che non aveva certo una personalità dominante ma che, a differenza del suo predecessore, mostrò comprensione per gli orrori della guerra e  capacità di dialogo con le forze politiche.                
Qualche anno dopo anche la Commissione d’Inchiesta imputò in gran parte al generalissimo la colpa della rotta di Caporetto. Cadorna fu accusato di non aver mai preso sul serio la minaccia dell’offensiva, di non aver mai emanato precisi regolamenti per la difesa, né mai pensato di indirizzare i reparti su eventuali misure di ripiegamento che potevano evitare di trasformare la ritirata in fuga e disfatta.
                
Concludiamo riportando una testimonianza di Valentino  Coda, avvocato, giornalista e volontario di guerra, che così ha giudicato nel libro Dalla Bainsizza al Piave all’indomani di Caporetto l’ignobile comunicato del 28 Ottobre 1917 con cui il Comandante in capo gen. Cadorna  accusò i suoi soldati di  codardia per la mancata resistenza:
Dicono che il vinto, in un bollettino di cui molti impugnano l’autenticità, ma che manoscritto e stampato corre per le mani di tutti, rigetti la colpa sulla Seconda Armata e sulla viltà dei soldati, che egli additerebbe alla maledizione di Dio e all’abominio del popolo, imprimendo nominativamente  il marchio ignominioso su quattro o sei Brigate. L’accusa ci lascia perplessi e amareggiati sino in fondo all’anima... io li ho visti battersi questi poveri soldati che egli ha trattato come carne da macello e bestie da soma, che ha fatto dissanguare senza scrupolo in assalti  senza criterio e fatti fucilare senza pietà in esecuzioni senza processo, richiamando in vita l’iniquo e pazzo sistema della decimazione; può darsi che una schiera abbia gettato le armi, che alcuni scellerati siano passati al nemico, ma un episodio singolare, un atto di viltà o di fellonia, un combattimento sfortunato non dovevano aver potenza di determinare la catastrofe. Una linea che, rotta in un punto, non si riallaccia più, non è un baluardo, ma un trabocchetto.
No, non si potrà falsare il giudizio della storia! E la storia dirà che, abbacinato da una formuletta di scuola, dal miraggio di una brillante manovra buona per i tempi di pace e per le finte battaglie in pubblico di dame e gentiluomini, un pedagogo arido, gonfiato dagli incensi, ha perduto l’Italia e l’onore.


Giancarlo Romiti


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