Il generale Luigi Cadorna non merita vie e piazze

Dalla città di Udine è partita a maggio del 2011 un'iniziativa esemplare: via il nome di Luigi Cadorna dalla toponomastica del capoluogo friulano che, per più di due anni durante la Grande Guerra, tra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1917, fu la capitale militare d'Italia e sede del comando supremo. E' una decisione che rende giustizia a chi, nel 1915, preso direttamente dal lavoro dei campi o nelle fabbriche, venne catapultato al fronte senza avere ben chiaro il motivo per cui fosse in uniforme. Quei ragazzi, con un'età media tra i venti e i ventuno anni, trattati con durezza, sacrificati alla dottrina dell'attacco frontale e spesso accusati ingiustamente di poco coraggio, restarono ai loro posti, pronti a morire crocefissi ai reticolati, dilaniati dall'artiglieria o bruciati dalle fiamme. In condizioni di vita maledettamente impersonali, trasfigurati in pezzi di fango ambulanti, andarono incontro alla morte pur rendendosi ben conto ad un certo punto che il loro sacrificio non sarebbe servito a conquistare nuovi territori ma solo a rafforzare il dominio che “i vigliacchi che somministrano la guerra” avevano su di loro.
Alla vigilia del conflitto i giornalisti dovettero soggiacere ad un decreto che vietò di diffondere articoli che andassero oltre i comunicati ufficiali, accettando passivamente di entrare in
un sistema di selezione alla fonte delle notizie e di manipolazione strumentale dell'informazione in cui non c'era posto per il dissenso. Le operazioni dell'Alto Comando vennero pertanto sostenute da un'informazione servile che raccontava la vita di trincea con parole adulatorie; i giornali
descrivevano assalti magnifici ed irresistibili, soldati che morivano con il sorriso in volto ed ufficiali che dopo aver parlato con il generalissimo parevano stregati, come animati da una nuova forza.
I quotidiani contribuirono decisamente a sostenere l'operato di Cadorna che, in tal modo, si sentiva sempre più infallibile ed intoccabile; “un circolo vizioso – scrive Mark Thompson ne “La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919” – che incoraggiava l'arroganza del comando, l'odio per la critica, il brutale trattamento delle truppe e una completa mancanza di riguardo nei confronti del governo”. Ed è ancora lo storico inglese ad evidenziare che “L'Italia mobilitò lo stesso numero di soldati della Gran Bretagna, ma il numero di condannati a morte fu tre volte superiore. Nessun altro paese belligerante punì ripetutamente intere unità con le decimazioni, fucilando uomini scelti a caso”.
Episodi di intimidazione da parte degli ufficiali sui soldati si verificarono tra le milizie di tutti i paesi belligeranti ma, di norma, tutto veniva organizzato secondo regole con cui i diritti, i doveri ed i poteri di ogni combattente erano ben delineati. In Italia invece le uniche regole valide erano la massima disciplina ed i minimi rapporti con i sottoposti; secondo Cadorna il graduato doveva guardarsi da “quella tendenza alla familiarità coi militari di truppa che, se alcuna volta è frutto della comunanza di vita e di pericoli, più spesso è indizio di debolezza o di malsano desiderio di popolarità”.
Le operazioni militari venivano esaltate negli entusiastici comunicati del comando supremo o dai corrispondenti dei giornali per paura che la verità potesse indurre il “pubblico” a perdersi d'animo. Le notizie ufficiali dal fronte erano eccessivamente decorate ma vuote, le battaglie descritte come spettacoli fantasmagorici, le sconfitte minimizzate e gli errori intenzionalmente nascosti.
Cadorna per tre anni parlò e decise per tutti e il suo potere, così vasto ed assoluto, causò sul solo fronte dell'Isonzo ben novecentomila tra morti, feriti e dispersi per la conquista di pochi chilometri. Quando gli italiani, seguendo l'esempio degli austriaci, iniziarono a catalogare le battaglie isontine numerandole non immaginavano di fare il gioco della propaganda nemica. Via via che Cadorna lanciava un attacco dopo l'altro contro le stesse trincee senza guadagnare terreno, il progredire della numerazione evidenziava sempre più l'inconsistenza delle sue teorie belliche. A marzo del 1916 un giornale croato osservò malignamente che la quinta offensiva si era conclusa “con lo stesso successo delle prime quattro”.
Paradossalmente la frustata per la svolta prese le mosse dal tragico rovescio militare di Caporetto. Dal 24 ottobre del 1917, quasi per incanto, la guerra divenne veramente un fatto
nazionale, di chi l'aveva sempre voluta, di chi era stato fin dall'inizio contrario e persino di chi ancora la avversava. Ai fini della riscossa italiana risultò senz'altro decisivo il cambiamento nella direzione politica e militare del paese: il giurista siciliano Orlando al governo e Armando Diaz al
comando supremo. La sostituzione di Luigi Cadorna segnò l'avvio di una nuova gestione dell'esercito perché il Comandante aveva ignorato completamente i problemi morali e materiali dei suoi uomini che, considerati semplice “carne da cannone”, erano sottoposti ad un rigido regime
repressivo. Alla fine del conflitto, nell'agosto del 1919, la commissione d'inchiesta sui fatti di Caporetto divulgò una relazione finale che riconosceva i gravi errori commessi dai vertici militari dell'esercito ed in particolare dal generale Cadorna. Eppure il “signore della guerra”, riconosciuto
ufficialmente come il principale responsabile di quell'immane ecatombe, continuò ad essere mitizzato in maniera del tutto arbitraria e retorica ancora per lungo tempo -“quei fanti che passaron l'Isonzo, videro undici volte la Vittoria” - scrive, con la consueta impostazione ampollosa e bugiarda, il barone Alberto Lumbroso in una pubblicazione del 1921 dedicata alla figura del generalissimo.
Ancora a lungo si continuò con il solito stile retorico ed elaborato a non informare il popolo su che cosa fosse stata veramente la guerra: il fetore delle trincee, il sacrificio di uomini mandati al massacro, le fraternizzazioni con il nemico, le diserzioni, la supponenza e l'incompetenza degli
ufficiali. Fortunatamente i fanti, la maggior parte con una istruzione ferma alle prime classi elementari, seppur poco abituati all'uso della penna, affidarono le proprie impressioni, le proprie paure ed i loro stati d'animo a dei fogli o a dei quaderni che, sgualciti e intrisi di sangue e di sudore, li accompagnarono per il periodo che indossarono l'uniforme. Queste innumerevoli e preziose testimonianze, oltre a riportare gli orrori della prima linea, raccontano anche l'irrisoria facilità con cui venne sacrificata la vita umana e contengono spesso un terribile atto d'accusa: nessun comandante, che non fosse pazzo, avrebbe mai mandato i suoi uomini incontro alla morte sicura non lasciando loro nemmeno una chance di salvezza.
Ecco perché le tante città italiane che hanno nella toponomastica intitolazioni a Luigi Cadorna devono seguire l'esempio di Udine; il massimo responsabile di quell'insensato macello non deve più avere l'onore di piazze e strade.
Giancarlo Romiti (luglio 2011)

9 commenti:

  1. Qualche anno fa mi capitò di dire pubblicamente che non era il caso di conservare nella toponomastica delle città italiane il nome di Cadorna. Da ultimo, la frase è ripetuta nel mio volumetto «I libri che hanno fatto (e disfatto) gli italiani» (Aragno, 2012). Leggo ora (23 gennaio 2013) che Udine ha già proceduto all'operazione. È una città che ho sempre ammirato e apprezzato. Adesso anche di più.
    Arnaldo Di Benedetto

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  2. Redazione ArteGrandeGuerra24 gennaio 2013 alle ore 08:21

    Gentile Arnaldo Di Benedetto,
    la ringraziamo molto per l'intervento. Crediamo sia importante intraprendere quella rilettura della Grande Guerra che gli eventi che la seguirono non permisero. A tale proposito saremmo orgogliosi di ospitare un suo, anche breve, articolo o riflessione. Grazie ancora e a presto!
    P.S. può scriverci a artegrandeguerra@yahoo.it

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  3. Gentili signori,

    vi chiedo per cortesia se potete farmi un riassunto dei duri trattamenti che applicava il generale Cadorna.

    Nel frattempo vi auguro una piacevole giornata.

    Luca

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  4. Se lei "clicca" sulla voce "Pagina principale dell'intervento" troverà una serie di articoli su questo argomento.

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  5. Vorrei presentare una petixione amche per bassano del grappa. Questo generale non merita affatto uma piazza a lui dedicata. La verità qui muore nell'indifferenza proprio alla vigilia del centenario. Cosa ne dite???

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  6. Siamo assolutamente favorevoli! Ci tenga informati sulla sua iniziativa, mi raccomando.

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  7. Mah... rimango un po' incerto leggendo questo articolo a firma Romiti. Premetto che sicuramente Cadorna ebbe la sua fetta di responsabilità e che probabilmente lo si potrebbe definire l'uomo sbagliato al posto sbagliato ma le sue linee sul Piave fermarono il nemico. Perché in questo articolo non si parla piuttosto del comportamento criminale dell'inetto Badoglio? Nonostante fosse stato informato, senza credergli, dai servizi di quello che stava per capitare a Caporetto se ne andò a Milano lasciando le divisioni in posizione avanzata. Visto che il fronte orientale non esisteva più come si faceva a non capire che presto il nemico prima ivi impegnato a combattere si sarebbe spostato la dove ne aveva bisogno? Diaz fu un vero maestro a gettare fango su Cadorna per prendersi il merito della vittoria. Se dovete togliere il nome Cadorna a scuole, vie, piazze e via discorrendo, si faccia lo stesso con il colpevolissimo Badoglio e con quell'intrigante di Diaz.

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    1. Gentile Ensis, abbiamo girato la sua domanda all'autore di questa sezione, Giancarlo Romiti: appena possibile (ferie permettendo...) verrà postata qui sotto la risposta. Cordiali saluti.

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    2. Gentile Ensis,
      certamente anche Badoglio, Capello, il Duca d’Aosta e altri stretti collaboratori dell’Alto Comando ebbero forti responsabilità nella gestione del conflitto. E’ Paolo Caccia Dominoni, volontario sul fronte carsico, a testimoniarlo nel libro “1915-1919. Diario di Guerra” : “17 agosto 1917……se pigliassero i soldati e i caporali e i sergenti e qualche ufficiale inferiore, dicendo: dovete espugnare qui, arrivederci e in bocca al lupo, noi ce ne andiamo, non vi daremo fastidio con ordini, arrangiatevi…., se questo potesse succedere (però ai comandi dovrebbero rinunciare alle medaglie) credo che saremmo a Trieste da un pezzo”.
      Ma Cadorna era il Capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano e dunque il principale imputato di quell’immane ecatombe che, come naturale conseguenza, sfociò nel disastro di Caporetto.
      Al termine dell’undicesima battaglia dell’Isonzo il Capo era convinto, come nel maggio del 1916, poco prima dell’inizio della Strafexpedition, che il nemico non avrebbe più attaccato. E così, ai primi di ottobre, decise di prendersi una quindicina di giorni di riposo nei pressi di Vicenza. Proprio mentre austriaci e tedeschi stavano organizzandosi per una violenta offensiva.
      Il 5 novembre 1917, in un clima di tragedia e sfascio, i rappresentanti dell’Intesa si ritrovarono in una sala a pian terreno dell’Hotel Kursaal di Rapallo per concordare una nuova strategia di guerra. Unico assente Cadorna. Il suo smisurato orgoglio ed il timore di dover affrontare delle critiche, sapendo bene che in quell’incontro il suo ruolo ed il suo operato sarebbero stati messi in discussione, furono alla base della sua decisione di non presentarsi. Forse per tale ragione gli italiani vennero lasciati fuori dalla porta mentre inglesi e francesi mettevano a punto un nuovo piano che venne comunicato il giorno dopo con un ultimatum: con Cadorna al comando niente aiuti.
      Il generalissimo venne sostituito da Armando Diaz che non aveva certo una personalità dominante ma che, a differenza del suo predecessore, aveva sempre cercato di ottenere il massimo dei risultati con il minimo delle perdite, mostrandosi quindi particolarmente comprensivo verso i soldati per gli orrori della guerra, oltre alla capacità di dialogo con le forze politiche.

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