Il cameratismo: un antidoto alla realtà disumana della guerra?


Qualcosa m’impedisce di unirmi ai ragazzi. Essi si associano facilmente e sembrano trarre un gran godimento nello stare assieme, bevendo finché l’alcol non gli toglie la coscienza delle cose. Io vado d’accordo con tutti, anzi, sono forse l’unico che non ha mai avuto da dire con chicchessia; però non riesco a condividere i loro passatempi, forse perché non vivo della loro stessa vita.
Walter Giorelli
(da Il sorriso dell'obice di Dario Malini, Mursia editore)

Se l’esperienza della guerra è spesso segnata da un  incoercibile senso di alienazione, molti militari identificarono in essa anche degli elementi fortemente positivi. Il cameratismo creava legami di «esperienza, di lavoro e di sangue», cancellava le barriere sociali, consentiva di condividere un destino comune ed egualitarie condizioni di vita, «ripristinava valori dimenticati».
La dimensione familiare che i soldati ritrovavano nella convivenza durante i lunghi periodi di permanenza al fronte rappresentava una sorta di compensazione alla perdita dei legami con la propria casa e con la propria terra, e, al contempo, un antidoto alla realtà disumana e meccanica che li circondava.


Il tema della condivisione della vita di trincea è stato interpretato senza retorica e con intenso vigore nell’opera dell’incisore Charles Harder. Ad esempio in Soldati che giocano a carte,  visibile qui sopra, facente parte di una serie di litografie ambientate nei bui sotterranei di una trincea. Sono immagini di lancinante carica emotiva, che delineano a forti contrasti degli oscuri meandri nei quali gli uomini che li occupano vengono resi visibili da squarci di luce improvvisi. Avvolti in ampi mantelli i militari hanno un aspetto monumentale che l’angustia del luogo tende a enfatizzare. Essi possono sopportare la vita da talpe cui sono costretti, nell’attesa estenuante di un attacco nemico, solo nella consapevolezza della sorte comune, facendosi coraggio reciprocamente oppure aiutandosi l’un l’altro a stemperare le tensioni con il gioco delle carte.
Il medesimo tema, in altri casi, è trattato con accenti di maggiore spensieratezza.


Il momento del pasto, ad esempio, è il soggetto di Le refectoir, uno schizzo realizzato a sanguigna e matita dall’artista tedesco Victor Schmitt (1877- ?). Ripresa probabilmente dal vivo, è questa una scena animata e briosa in cui si percepisce l’allegria e la giovialità che anima i convitati, desiderosi di eludere per un po’ la tragicità degli eventi bellici.
Il cameratismo rappresenta in qualche modo la reazione immunitaria dello spirito umano contro la sopraffazione della violenza.

Emblematica a questo riguardo è la raffigurazione di un’acquaforte di André Warnod (Giromagny 1885-Parigi 1960), dal titolo Les russes en Champagne, del 1916, in cui l’incisore riprende dei soldati feriti con tratto libero e immediato. Col capo, gli arti o il corpo fasciato, rintanati in un angusto riparo, essi ricevono soccorso da un uomo con l’insegna della croce sul braccio. Risalta in questa immagine la partecipazione dell’autore alla sofferenza, all’avvilimento e alla desolazione prodotte dalla guerra.
Reclutato nell’esercito, Warnod venne fatto prigioniero dai tedeschi nel 1916. Di questo periodo di internamento ha lasciato una vivida testimonianza nel libro di memorie Prigioniero di guerra, in cui, tra l’altro, manifesta una speciale simpatia nei confronti dei militari russi, che definisce «generosi, volenterosi, brillanti, spesso intelligenti, dolci e malinconici». Nell’acquaforte qui ricordata egli esprime tutta la sua sintonia con la pena di questi uomini.

Carol Morganti

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